DUE LIBRI, UNA PAGINA (14)

Letture di Fabio Brotto

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Qual è il significato nascosto dell'architettura classica? Il significato nascosto dell'architettura classica è il titolo della traduzione italiana (di C.Rodriguez, Bruno Mondadori, Milano 2001) del libro di George Hersey The Lost Meaning of Architecture. Speculations on Ornament from Vitruvius to Venturi (1988). Un libro bellissimo, che come spesso avviene per la produzione accademica americana, ha molto da dire in proprio, e che risulta assai interessante e coinvolgente anche per lettori che, come me, non nutrono un interesse specifico per l'architettura, ma uno generale per i fenomeni culturali che abbiano un forte risvolto antropologico, soprattutto quando vi siano implicati il fattore religioso e quello sacrificale (che sono, a ben guardare, un unico fattore). La prefazione all'edizione italiana, di M. Biraghi, è molto girardiana, anzi spira entusiasmo girardiano, mentre Hersey di Girard cita solo La violenza e il sacro in una nota. Basta leggere il titolo del secondo capitolo, però, per afferrare l'idea di fondo dell'autore: Architettura e sacrificio. Il significato nascosto dell'architettura classica sta nella sua origine, e l'origine è sacrificale. Il tempio greco è stato nei millenni letto in una prospettiva estetizzante, formalistica, a-religiosa, relegando in un angolino la grande questione della funzione del tempio, che ne determina la forma. Hersey legge le parti del tempio greco, con tutti gli elementi che le compongono, con un'etimologia che riporta ogni cosa alle parti del corpo, animale ed umano, mostrando come l'etimo sia legato a realtà che l'indagine scientifica recente (sul modello di Burkert, per intenderci) ha fatto riemergere da secoli e secoli di oblio classicistico. E c'è un ricco apparato iconografico che fa tutt'uno col testo e lo rende ancor più suggestivo.

Mi pare di poter dire che la tesi di Hersey sia condensata in una frase che è all'inizio del libro: "Come noi oggi ci atteniamo a tabù d'ogni tipo, da quello dell'incesto ai tabù alimentari, anche se è scomparsa - ormai da moltissimi anni - l memoria dei miti che li potevano spiegare, così gli architetti si sono attenuti nei secoli alle complessità rituali del classicismo, anche dopo che si è persa ogni consapevolezza del loro significato sacrificale". (p.2)

 

La produzione accademica italiana nell'ambito della filosofia (quella delle università di schopenhaueriana memoria) presenta a me lettore due elementi di fastidio: in primo luogo di solito i libri sono erudite costruzioni in cui il testo vero e proprio è, per così dire, quasi sommerso in un mare di citazioni e note; in secondo luogo l'apporto originale dello scrivente potrebbe ridursi alla decime parte del testo stesso, che consta di riferimenti, spiegazioni del pensiero di altri sul tema trattato, esposizione di teorie già note al lettore. Di questo è un bell'esempio il libro di Giusi Strummiello, il cui titolo Il logos violato. La violenza nella filosofia (edizioni Dedalo, Bari 2001) mi aveva dismagato, inducendomi alla sua lettura. La Strummiello è Ricercatrice di Filosofia teoretica, ed affidataria di un corso di Filosofia delle religioni (a Bari). Il testo in questione, di 406 pagine, metà delle quali è costituito appunto da note e citazioni assai ampie, affronta il problema dell'altro dalla filosofia, la violenza, passando in rassegna le posizioni di Eric Weil, Adorno, Arendt, Hegel, Marx, Engels, Derrida, Heidegger, Zambrano ecc. ecc.. Conclusioni: sul tema del rapporto tra la tradizione filosofica occidentale e la violenza ne so quanto prima, so però che la Strummiello finisce confidando in "un pensiero che si faccia carico della finitezza" che deve "ritessere pazientemente...la sua tela di senso" (p.391). Che non si sa, mancando il discorso filosofico del nuovo millennio di qualsiasi fondazione, sennò sarebbe violento, se sia di natura penelopea (Ma Odisseo dov'è?). A proposito, in un mondo globalizzato possiamo ancora permetterci di far parlare l'Occidente sempre e solo di se stesso con se stesso, o questa riduzione in una riserva indiana ha a che fare con quella terribile fatica del concetto che sarebbe richiesta ai filosofi occidentali che volessero dialogare con il pensiero altro? O si pensa che gli altri non pensino? "…in effetti, l'ambito dell'intero discorso dev'essere pur sempre, programmaticamente, limitato all'Occidente: la questione 'filosofia e violenza' ha infatti senso solo all'interno di quella 'disciplina regionale' che è la tradizione filosofica occidentale" (p.10). Sarà. Io penso che sia solo una questione di ignoranza. Mi dichiaro insoddisfatto.

[16 marzo 2002]