DUE LIBRI,
UNA PAGINA (61)
Letture di
Fabio Brotto
Prima che arrivi la vecchiaia, ci s’immagina che ci saranno ancora una gioia o due. Invece no, non una. Per tutta la vita si fa quel che si deve per diventare vecchi e, quando lo siamo, ci si accorge che si è fatto di tutto per diventare un’assoluta nullità. Se uno muore a quarant’anni, tutti lo piangono; se uno continua a vivere fino a settanta, si pensa che sia una bella cosa. E lui è più infelice che se fosse morto. Quando si è morti, se non altro, non si vede più, non si sa più, non si parla più. Si pensa agli affari propri, non si ha più bisogno di immischiarsi in quelli degli altri. Tutto quel che può succedere, succede: non c’è più bisogno di occuparsene. Ma chi diventa vecchio in mezzo a una famiglia continua ad aver sempre bisogno di fare tutto; è come un asino che voglia sferruzzare delle calze. Oh! com’è sciocca la gioventù. Ma davvero vale la pena di nascere?
Colei che nel suo parlare di anziana contadina
echeggia la sapienza di Sileno è un membro di una sorta di coro arcaico, tutto
femminile, che si sviluppa, narrato per pagine e pagine, durante la lavorazione
domestica collettiva delle carni di un maiale ucciso. Un rito del tutto normale nella civiltà contadina, ma qui percorso
da una profonda inquietudine, illuminato da bagliori remotamente dionisiaci che
rimandano ad altri immemoriali sacrifici. Una
sapienza antichissima disegna lo sfondo di una vicenda di amore
fraterno, di mimesi e di morte. Il passo riportato si trova alle pp. 69-70
della traduzione italiana di Deux cavaliers de l’orage di Jean Giono (Due cavalieri nella tempesta, trad. di F.
Bruno, Guanda, Parma 2003). Questo romanzo di Giono ha una forza narrativa eccezionale, introvabile tra
gli scrittori italiani di oggi: anche perché Giono riesce a far emergere dei temi primari, essenziali:
qui, ancora più che in opere sue famose, come L’ussaro sul tetto o Angelo,
è quello della pura forza fisica, e della competizione micidiale che la
necessità dell’autoaffermazione mediante questa nella sua forma assoluta, la
semplice lotta dei corpi, può accendere. Anche nel
cuore di due fratelli. Qui è declinato ancora una volta il tema della rivalità
fraterna. Marceau il più anziano ama Ange il più
giovane, il Cadetto, in forma viscerale: ma lo ama in quanto è il fratello minore,
bisognoso della sua protezione. Il minore ha in Marceau
il suo modello e maestro, e quindi ad un certo punto il rivale, perché il
minore vuole essere come il maggiore, e questi non lo consente.
Quando l’amore fa del suo oggetto la base della propria idolatria di sé, il
processo della violenza mimetica è inarrestabile, e quell’amore infine si volge
in sete di distruzione e di annientamento e
autoannientamento. Questo grande romanzo conferma la mia vecchia idea: la violenza
degli umani non nasce dalla non conoscenza dell’altro, ma dalla non
accettazione della sua vita autonoma e del valore che essa ha di per sé.
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Scritto tra il 1944 e il 1945, Il mondo è una
prigione di Guglielmo Petroni è uno dei più
interessanti tra i non pochi testi che sono stati accantonati, obliati per
decenni dalla cultura letteraria dominante in Italia (mi viene in mente il caso
di Herling). Opportunissima
dunque l’edizione di Feltrinelli (2005). Arrestato dai
nazifascisti nel 1944 a Roma, incarcerato e torturato, Petroni
rischiò la fucilazione. Il suo libro-testimonianza non ha nulla a che fare,
però, con la produzione letteraria “resistenziale” ed ideologica,
sostanzialmente ottimistica, se mai si avvicina alla prospettiva abissale di
Primo Levi, ma a me pare ancor più problematico e
aperto ad una interrogazione radicale. Poiché in Petroni è la stessa idea di libertà ad essere posta in questione.
E non in modo accademico: Petroni ha visto la morte
in faccia quando è stato interrogato dalle S.S., ma la sua liberazione dal carcere non lo fa sentire
davvero libero. Né l’Italia liberata gli appare un
gran che, dopo aver sperimentato, nella sua marcia a piedi verso Lucca, tutta
la grettezza e la disumanità che possono albergare nel cuore dei contadini
toscani, che gli negano un tozzo di pane, un angolo di fienile asciutto in cui
dormire. Sono pagine di una desolazione senza pari amara. Il popolo non è buono per natura.
Mi piace molto la nota sull’8 settembre
(ieri cadeva l’anniversario di questo che per noi italiani è, ben più del 25
aprile, l’evento fondativo, l’origine, la grande
matrice--che i media hanno passato sotto silenzio), una nota da mandare a
memoria.
Fu l’otto settembre, comunque, che diede la risoluzione definitiva, aprendo una
battaglia. Fu l’otto settembre che, anche a Roma, si videro uomini e donne che
piangevano per le strade.
Coloro con cui fino a poco tempo fa
avevi parlato di letteratura, di politica e di
ragazze, ora non parlavano più: non c’era ora più nessuna necessità di
discutere o di eludere il proprio più o meno cosciente disagio in ragionamenti
astratti.
Spesso, proprio tra coloro che erano apparsi esclusivamente presi da problemi
che si dicono lontani dalla realtà, scoprivi il più pronto e il più deciso ad
opere rischiose, e tra coloro che accettavano di combattere anche apertamente
per le strade, era più facile trovare uno spaesato intellettuale o un silenzioso
bottegaio che uno degli scalmanati della politica. Comunque,
c’era un compito per tutti, e tutto era rischioso. (p. 39)
9 settembre 2005