DUE LIBRI, UNA PAGINA (18)

Letture di Fabio Brotto

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La Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace di Jean Giono (tradotta in italiano da M.G.Gini per Ponte alle Grazie che l'ha pubblicata nel 1997) è uno scritto del 1938. In esso si rispecchia il radicalismo pacifista di Giono, un pensiero audace, e del tutto irrealistico. Che può avere un senso in un mondo in cui la maggior parte degli uomini sia composta da contadini, come era ancora in quegli anni, ma può averlo solo per gli intellettuali come Giono stesso, che vogliono sentirsi gente della campagna.

So cosa state per rispondermi: voi siete i soldati di tutte le guerre. Non si è mai ucciso altro che contadini nelle battaglie. Gli operai non hanno diritto di prendere partito pro o contro le guerre (o, se possono, è solo in maniera umile - e insistiamo su umile - per essere sempre

- e insistiamo su sempre - contro tutte le guerre - e insistiamo su tutte) perché essi non fanno la guerra. Ed è una commedia mandarli nelle caserme in tempo di pace perché, appena la guerra divampa, li si toglie dai ranghi che avanzano verso le mitragliatrici e li si sistema con cura nelle fucine dove ce n'è bisogno, per fondere metalli, e fabbricare strumenti di guerra, cannoni, aerei, carri armati, armi chimiche. L'operaio non ha il diritto di parlare della guerra. Deve tacere. Perché, guerra o pace che sia, non cambia mestiere; non cambia attrezzi; ci si dice che è più utile col martello che con la baionetta. L'industria dove lavora è una funzione naturale della guerra. Non è mai tanto prospera quanto in guerra (capite perché non ha il diritto di parlare o, se ce l'ha, ha solo quello di parlare contro. Capite perché nella nostra epoca industriale del 1938 gli operai in blocco non sono più contro le guerre). Dunque, che tacciano (se sono onesti, visto che si parlava poco fa di disonore).

Ma a noi, invece, il primo gesto della patria è di farci saltare l'aratro dalle mani. Noialtri siamo più utili col fucile, sembrerebbe. Le nostre stesse qualità ci condannano: sanno bene che lavorare la terra non è una specialità, bensì la natura della nostra vita e della vita della nostra famiglia; i campi non restano deserti dopo la nostra partenza, e credetemi, non è questione di patriottismo se le nostre mogli si mettono ad arare, a seminare, a mietere, se i nostri bambini di sette o otto anni si mettono a governare coraggiosamente bestie venti volte più grosse di loro: è semplicemente perché lavorare la terra è la nostra vita, come il sangue che, fino alla morte, qualunque cosa accada, deve fare il giro del corpo, dappertutto, anche se soffre. Sanno bene che, senza di noi, la terra continuerà a produrre frumento durante la guerra (ma senza l'operaio la fabbrica non produrrà granate) perché noi non abbiamo niente in mano, non facciamo un mestiere, facciamo la nostra vita, non possiamo fare altro; noi non abbiamo diviso la nostra vita tra lavoro e riposo: il nostro lavoro è la terra, il nostro riposo è la terra, la nostra vita è la terra, e quando le nostre mani lasciano la stegola dell'aratro o l'impugnatura della falce, le mani che ci stanno accanto subito ricalcano l'impronta calda delle nostre; che siano mani di donne o di bambini. Son proprio queste le qualità che permettono tanta disinvoltura nei nostri confronti e che non si abbiano scrupoli a rastrellarci immediatamente tutti nelle caserme. Noi, contadini, siamo il fronte e il ventre degli eserciti; ed è tra le nostre file che le cervella esplodono e i visceri si spargono dietro ai nostri ultimi passi. Capite bene, dunque, che noi siamo contro le guerre. (pp. 18-19)

 

 

Se non si ama Simone Weil non si può amare Cristina Campo, che ne è una sorta di avatar. La sua scrittura è preziosissima, e perciò può piacere a gente come Guido Ceronetti. Ma mentre Ceronetti, anche se vorrebbe essere un veggente, rimane un tipico letterato italiano, con la sua matta voglia di conquistare la gloria mediante lo stile, lo stile per la Campo è ascesi (stentava a pubblicare, molte sue pagine si son perdute). Ne Gli imperdonabili (Adelphi, 1987 - qui si cita dalla quarta edizione, del 1999) leggo:

Rintracciare di un'immagine mitica la prima veste terrena, ricondurne le vaste e vaghe linee nella fermezza incorruttibile del reale è un cammino di verità che realmente raggiunge il pathos quando tocchi riaddipanare, come fili di nebbia, sogni che intere stirpi hanno sdipanato. L'entrata alle Officine del Mago Mandrone, su non so quale vetta dell'Adamello, o alle Miniere di Re Laurino sul Rosengarten - luoghi dietro ai quali interi clan di pastori si persero, cantandone in ottave, favoleggiandone al fuoco - sono state, anch'esse, fotografate. La prima è un pertugio a losanga e vi conducono, quasi mistiche mura, blocchi di ghiaccio puro, ottenebrati dal nero cielo della montagna. L'altra è una fenditura orizzontale quasi a livello del suolo, mezzo nascosta da uno sperone e accecata di detriti (che la leggenda vuole accumulati da Re Laurino al tempo del suo sdegno contro gli uomini). Immaginare l'ascesa dell'antico alpigiano fin sotto quelle vette, l'attimo di arresto, sospeso alla muraglia vacillante dietro l'ultima rupe, la rapida, ebbra visione di quei recessi, nodo di tanti sogni dolorosi, tra le folate di vapori e il nero manto del temporale...

Nei libri che oggi raccolgono ciò che resta di quelle saghe, i passi che magnetizzano un bambino sono spesso, cosa strana, proprio le conclusioni luttuose: "Ora solo due cumuli di pietra segnano il punto dove, sull'altipiano, sorgeva l'atrio della reggia di Vaglianella...". Ovvero: "Ora la capanna delle miosotidi non esiste più. I pastori che passano per la Val Travegnòl, indicando il prato tutto azzurro, dicono tra di loro: Guardate, un tempo qui c'era la tambra de selièttes (la capanna delle miosotidi)... ". (p.47)

Lo sguardo sul non-più-presente che fu presenza di una bellezza irrevocabile. Avrei potuto citare questo passo in Divenire nulla

7 agosto 2002