DUE LIBRI,
UNA PAGINA (115)
Letture di
Fabio Brotto
La diciottesima notte dopo capodanno
– il ventiquattresimo giorno dell’assedio di Budapest -, una giovane donna
decise di abbandonare il rifugio in un grande edificio accerchiato nel cuore
della città, di attraversare la strada trasformata in campo di battaglia e di
raggiungere, in ogni modo e a qualsiasi costo, l’uomo che quattro settimane
prima era stato murato, insieme a cinque compagni, in un angusto scantinato
dell’edificio di fronte. Quell’uomo era suo padre, e
la polizia politica si ostinava, pur nel culmine del caos e dello sfacelo, a
cercarlo con un zelante e puntiglioso accanimento.
Quello di Liberazione di Sandor Marai (Szabadulás, 1945,
trad. it. di L. Sgarioto, Adelphi 2008) è un incipit in cui è
contenuto un romanzo intero, uno di quegli incipit che promettono una lettura
forte. Scritto nei mesi immediatamente successivi alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, quando il destino dell’Ungheria si stava delineando
agli occhi attoniti dei suoi figli, Liberazione racconta il momento in
cui su Budapest passa il fronte tedesco-sovietico, e per molti giorni i suoi
abitanti vivono nel sottosuolo, mentre sulle loro teste si combatte di casa in
casa.
La protagonista assoluta è una giovane donna, Erzsébet
Sós secondo i suoi documenti falsi, un personaggio
femminile disegnato con grande finezza, minutamente ombreggiato,
per così dire, e rappresentato in tutte le sue tensioni emotive e
intellettuali. Lei attende l’arrivo dei sovietici come portatori della fine
della guerra, passa gli ultimi giorni dell’assedio in un grande
locale sotterraneo, assieme ad una folla di rifugiati, tra incursioni dei
tedeschi e delle “croci frecciate” ungheresi, finché, rimasta sola in compagnia
di un paralitico, incontra un giovane ed elegante soldato dell’Armata Rossa. Il
primo “liberatore”. Il disperato tentativo di dialogo con lui finisce in una
violenza sessuale. Ma questa violenza e le sue
conseguenze sono rappresentate in modo molto complesso, perché complesso è
l’animo della ragazza, nel quale su tutto domina la pietà, anche quella nei
confronti del giovane siberiano, che uscita all’aperto troverà ucciso da una
pallottola in testa.
Le tragedie del Novecento, l’abisso nichilistico sotteso alle ideologie
rumoreggianti, le pulsioni elementari degli umani e il mistero del loro
comporsi nella guerra e del loro sfociare nella trascendenza: in questo romanzo
compatto e lineare tutto è trattato con equilibrio quasi miracoloso. Lo ritengo
un capolavoro.
* * * * * * *
L’ultimo racconto è di 70 pagine, ed è
quasi un romanzetto, molto più lungo degli altri 14 che compongono le 300
pagine di Hotel Allah, la raccolta di Giorgio Gigliotti
pubblicata dalla Coniglio Editore nel 2008 con la
prefazione di Khaled Fouad Allam. Quest’ultimo racconto s’intitola Il mondo di Uqbar, ed ha una chiara
ascendenza borgesiana: un esercizio di abilità
letteraria che si apprezza rimanendo sempre sul filo dell’incertezza: quanto
sul serio prendere le sue esercitazioni stilistico-metafisiche?
Poiché stile, contenuti e risultati sono molto
disomogenei nell’insieme dei racconti. E se Il mondo di Uqbar rivela maestria di scrittore, altri
racconti lasciano perplessi: come Quando si chiuse la Sacra Porta,
sulle ultime ore del sultano di Costantinopoli, che viene qui sovente chiamato
califfo. Racconto veramente brutto, in cui si leggono periodi come questi due:
“L’inutile domanda sprofondò nello stesso precipizio in cui l’eunuco si
sentiva proiettato, il suo sguardo pregno di un malcelato orrore si accese per
la rabbia e la disperazione. L’improvvisato consigliere delle ultime giornate
di un califfato omai dissolto si allontanò quanto bastava per non far sentire
al suo signore quel lamento irrefrenabile, che saliva da chissà quale meandro
polveroso.” (p. 63)
K. F. Allam sostiene nella prefazione che questa differenza formale-contenutistica serve a rappresentare il mondo
islamico, quale si presenta ad un occhio comunque
occidentale, nella sua interna differenziazione. Ma
alla letteratura si deve chiedere qualcosa di più, ovvero arte, che qui manca.
Qui non è presentato l’Islam, e il titolo nella sua apparente
blsafemia è fuorviante. Non c’è Allah nel libro, non c’è la problematica dell’Islam
contemporaneo. Le vicende anche quando sono tragiche suonano superficialmente.
Insomma, l’ambientazione nel Mediterraneo Sud-Orientale non basta a sostenere
il peso del titolo, e il lettore che cercasse uno squarcio per entrare nel
mondo arabo rimarrebbe deluso. Meglio leggere, per
questo, i numerosi autori arabi e islamici, laici
e religiosi, disponibili in traduzione italiana.
16 agosto 2009