DUE LIBRI,
UNA PAGINA (116)
Letture di
Fabio Brotto
Ho scritto diffusamente sull’ultimo saggio di Vito Mancuso qui.
Disputa su Dio e dintorni (Mondadori 2009),
un libro scritto con Corrado Augias, non presenta
sviluppi significativi delle idee di Mancuso, e si offre come un cortese, anche se a volte
serrato, confronto, evidentemente costituito da scritti che i due autori si
sono scambiati via mail. Parlo delle idee di Mancuso,
perché sono le uniche a presentare ai miei occhi motivo di interesse,
dato che quelle di Augias, che peraltro non è
filosofo ma giornalista e divulgatore, si riducono al solito repertorio
corrente degli scientisti e dei laici. Il che non significa affatto che io non condivida talune delle
critiche mosse da Augias alla religione e alla
Chiesa, ma che le trovo prive di fondamento autocritico, non sufficientemente
rigorose. Ad esempio, per tutte le sue pagine, Augias
sostiene che la funzione della religione sia consolatoria, quindi mirante a
pacificare le anime, e quindi che i religiosi siano interiormente tranquilli a
differenza dei laici inquieti; ma nello stesso tempo ripete che la religione
esercita la sua funzione di dominio terrorizzando gli umani con l’idea
dell’inferno e della dannazione. Augias non si
accorge nemmeno del problema che qui gli si porrebbe. Che la religione non
soltanto non abbia affatto questa funzione
pacificatrice, quella di un prolungamento dell’infanzia che chiede di essere
rassicurata, è evidente a chiunque conosca davvero la storia delle religioni.
Rassicuranti gli Inferi antichi, con gli umani ridotti ad ombre, o lo Sheol ebraico, o la “Terra senza ritorno” sumerica?
Vito Mancuso conferma qui le sue idee fondamentali: sostanziale
uguaglianza delle religioni, bene come giustizia quale valore supremo,
principio ordinatore impersonale del mondo, universo governato da questo
principio, materia come generatrice dello spirito, trascurabile importanza
della storia di fronte alla cosmologia, della redenzione rispetto alla
creazione, identificazione di essere ed energia, ottimismo nella visione del
mondo. Mancuso dice di essere
cattolico, di andare alla messa e accostarsi ai sacramenti. Tuttavia io pongo
qui la questione: che cosa è necessario per potersi definire cattolici? Lo dico
anche per me, che dubito di esserlo pienamente, e
anche che si possa esserlo solo parzialmente, e forse che si possa esserlo.
* * * * * * *
Conversazione su Giuseppe Pontiggia è
il sottotitolo de La chiarezza enigmatica, un bel libretto di Roberto Michilli e Simone Gambacorta (Galaad Edizioni, 2009). Attraverso una serie di domande e
risposte (le prime di Gambacorta), vi viene delineato un bel ritratto del grande scrittore
scomparso nel 2003, un ritratto umano e letterario, nel quale umanità e
scrittura si manifestano intrecciate, come inevitabilmente deve accadere
in un autore moralista come Pontiggia.
E io qui uso il termine nella sua vera accezione, non in quella
italiota.
Gambacorta è un intervistatore abile e non invadente,
che consente a Michilli di svelare il suo debito
umano e artistico nei confronti di Pontiggia, finendo
per illuminare due scrittori, il maestro e l’allievo. Nel corso della
conversazione emergono alcune delle questioni fondamentali della letteratura
contemporanea, da quella dello stile a quella del rapporto tra scrittore e
mondo letterario-editoriale. A me interessa
particolarmente quella del rapporto tra scrittura e verità.
Come Pontiggia ribadisce nel saggio su Daumal,
l’uso di un linguaggio corrente per esprimere verità lontane rispetto ai luoghi
comuni è il compito principale della narrativa contemporanea. (p. 35)
Michilli ricorda che Pontiggia gli disse che scrivere è anche “fare appello alle
proprie risorse etiche”. E alla domanda di chiarimento
da parte di Gambacorta risponde:
Nel senso che la voce di uno scrittore, cioè
quello che lui scrive sulla pagina, deve essere filtrata e convalidata da quei
criteri di verità che hanno dimora nella sua esperienza di uomo. Quindi bisogna essere responsabili del linguaggio che si
adopera, riconoscersi in quel linguaggio. Scrivere in modo responsabile
significa sforzarsi di non essere acquiescenti e passivi ed evitare che, per
imitazione o per suggestione dei modelli, si finisca per usare parole che non
corrispondono a quello che noi vogliamo dire, alla nostra esperienza, al nostro mondo. È necessaria pertanto un’attenzione scrupolosa
a quello che si fa, e una continua riflessione su quello che s’è scritto. Si
scrive per scoprire un linguaggio nel quale riconoscersi; si scopre di avere un
mondo da esprimere, e lo si scopre attraverso la
costruzione del proprio linguaggio. (p. 36)
Infine
questo libro, come per lo più accade in questi casi, è insieme un
libro sul maestro Pontiggia e sull’allievo Michilli. Entrambi vedono l’atto
dello scrivere narrativa come un atto essenzialmente e prima di tutto etico-conoscitivo. Da ciò la responsabilità dello
scrittore. Se guardo il panorama della letteratura italiana
contemporanea, in cui predominano una stilistica approssimativa e contenuti
narrativi vieti e ritriti, mi vien da pensare che
quella delineata in questo libretto sia una posizione di stretta minoranza.
28 agosto 2009