DUE LIBRI,
UNA PAGINA (117)
Letture di
Fabio Brotto
Una colossale bevuta in compagnia dell’amico congolese artista e seduttore, con conseguente sbornia
e notte di sesso con due fanciulle abbordate al bar,
provoca la rottura del matrimonio di Sandro, il protagonista di African Inferno di Piersandro Pallavicini
(Feltrinelli 2009). La moglie del protagonista e voce narrante, figlia del
migliore avvocato di Pavia, non ne vuol più
sapere di lui, che l’ama tuttavia, come ama perdutamente la figlia treenne. Una sbandata irresponsabile gli ha distrutto la
vita, e non c’è scampo: le sue fortune sono finite, come dimostra la perdita
della lussuosa Bentley pagata dal suocero e il
passaggio ad una mini scassata. Finisce per vivere in un appartamento condiviso
con due africani, uno evanescente, Modestin,
l’altro assai presente e attivo, ma in parte anche lui misterioso, Richard.
Quello che appare evidente in tutto il corso
della vicenda è il fatto che Sandro è dominato da un
impulso di totale benevolenza, di assoluta accondiscendenza nei confronti degli
africani, in quanto tali. Può essere che in lui, da giovane militante di
sinistra vicino ai Centri Sociali, ciò sia un frutto dell’incosciente senso
di colpa bianco nei confronti dei neri immigrati. Che
tra l’altro, ci dice questo romanzo, non sono genericamente africani.
Sono, ad esempio, camerunesi come Richard
o congolesi come Joyce. E camerunesi e congolesi non si
amano, preda anch’essi come tutti gli umani di stereotipi culturali e
pregiudizi.
African
Inferno è un romanzo interessante per i suoi contenuti, per la sua antropologia. Non certo per la forma o la scrittura, che
sono di medio livello, possiamo dire, e seguono le
leggi non scritte del romanzo italiano di questi anni (narrazione in prima
persona, ahimè, e alternanza temporale, con scene collocate a
turno in due anni differenti, particolari inutili – come la descrizione
dell’attacco di diarrea del protagonista in questura). Ciò che rende tuttavia
interessante questo romanzo è l’abbandono della
convenzione narrativa e filmica italiana dell’immigrato buono in quanto tale.
Qui ci sono persone brutte e moralmente ripugnanti tanto tra gli africani
quanto tra gli italici. Anzi, in fondo vi è un realismo antropologico che
inclina semmai verso il pessimismo. L’amico Richard,
ad esempio, per cui Sandro sarebbe disposto a dare il
sangue, si rivela un pessimo soggetto: la irresistibile tendenza del
protagonista a giustificare gli africani in ogni situazione, a comprenderli
nel senso di addossarsi, quasi maternamente, ogni loro fallo, è però, a ben
guardare, un errore speculare, anche se umanamente ben più perdonabile,
rispetto al razzismo di tanti italiani che vediamo nel romanzo. In fondo, è un
modo anche questo per non porre il nero sullo stesso piano del bianco. Pallavicini mostra invece che neri e bianchi sono umani
allo stesso modo, ovvero pronti al rifiuto dell’altro (anche quando ha lo
stesso colore della pelle), e all’affermazione della propria superiorità. Ad
esempio il luogo comune della superiorità sessuale dei neri, largamente diffuso
tra le loro file, unito ad una misoginia altrettanto diffusa, porta molti
africani a pensare che se una nera ama un bianco lo
faccia solo per i suoi soldi, visto che i bianchetti
sessualmente non valgono nulla: ergo quella ragazza nera è una
puttana. Come si vede, presso ogni razza ed etnia i
pregiudizi regnano sovrani.
Penso che vi siano limiti artistici (il lieto fine di amore inter-razziale mi sembra un po’
forzato, anche se la ventenne venere africana ben tornita esprime bene anche la
reale tendenza erotica del protagonista, il suo desiderio nascosto, che ad
un’analisi attenta potrebbe anche confermarsi pregno di pregiudizio analogo a quello
africano di cui sopra). Ma nostante
questi limiti il romanzo di Pallavicini mi pare un
buon segno di vitalità e forza conoscitiva del romanzo italiano contemporaneo.
* * * * * * *
Come Americani, noi siamo
cittadini di una democrazia ampia, secolare e commerciale: senza sosta siamo
portati innnanzi sulla corrente del mutamento storico
e continuamente siamo spinti a lato dalle esigenze dei sogni e del commercio.
Noi siamo privi degli elementi comuni interiorizzati della razza, della
cultura, del linguaggio, della regione e della religione che tradizionalmente
definiscono i “popoli”. Come tali, noi siamo creature sociali
gravate del compito di inventarsi le condizioni della loro stessa
socialità a partire dalla fragile risorsa dei loro piaceri privati e desideri
segreti. Così, mancando dei termini per la comunicazione, noi ci correliamo.
Ci raduniamo intorno ad icone del mondo della
moda, dello sport, delle arti e dell’intrattenimento come intorno ad un
focolare. E intorno a questi oggetti attraenti
tracciamo infinite linee di transito. Ci organizziamo in comunità di desiderio
non-esclusive, entro le quali rimaniamo o da cui
usciamo seguendo i capricci della passione o il clima dei tempi. Questo modello
di organizzazione sociale del tipo “carta
meteorologica” potrebbe essere interpretato come affascinante o
sconvolgente, ma non può essere negata la sua efficacia, né la sua pertinenza,
né la sua origine.
Dave
Hickey, The Invisible Dragon. Essays on
Beauty (revised and expanded), The University of
28 settembre 2009