DUE LIBRI,
UNA PAGINA 2 (2)
Letture di
Fabio Brotto
Di fronte al romanzo di Giuseppe Culicchia Brucia la città (Mondadori
2009) la prima parola che mi viene in mente è distanza.
In effetti i modelli letterari cui Culicchia guarda
sono lontani dai miei gusti, ma soprattutto mi sono totalmente estranei il
mondo dei dj, la loro musica, la società che vive
intorno a loro, e l’ambiente dei creativi che si intreccia alla
politica. E il romanzo narra questo mondo dei dj
cocainomani e sessuomani, totalmente dominati dalle
mode e dal culto dell’immagine. Nella città di
Torino. Il mondo culturale dei talebani probabilmente
mi sarebbe più vicino. Ma forse la distanza aiuta la
comprensione, o consente una visione più distaccata e oggettiva.
Prima annotazione: il romanzo è tutto in
prima persona, il dj Iaio è
la voce narrante. I cinque punti fermi della sua vita sono il mostruoso SUV Hummer H3 e i capi d’abbigliamento limited
edition; la sua ragazza Allegra,
tossicodipendente e disperata, che è scomparsa;
la sua (per me orribile e nefanda) musica; la cocaina da cui dice di volersi
liberare ma che assume a dosi massicce; il sesso – ridotto a rituale vuoto e
ripetitivo. Iaio dipinge un ambiente frenetico,
stravolto dal denaro che scorre come la coca, privo di qualsiasi freno morale. Ma appunto, l’ambiente è descritto attraverso la
coscienza di Iaio: che garanzie vi sono circa la
sua realtà oggettiva? Nessuna. E i dubbi aumentano di fronte ai cognomi
fumettistici degli assessori Mintasco, Mincenso ecc., dell’onnipotente
famiglia Deturpi ecc.
Seconda annotazione: il tempo della
narrazione è il presente. Come ho già rilevato
altrove, l’uso del presente è problematico, quando coinvolge l’intera storia.
Esso presuppone infatti una contemporaneità della coscienza
dell’io narrante agli eventi narrati, e una non conoscenza della fine della
catena degli eventi che costituiscono l’oggetto narrato, che quindi si
costituisce come potenzialmente in-finito. La narrazione è per sua natura post
eventum, anche nel caso che esso sia fictum. La narrazione
contemporanea all’evento è l’enunciazione dei fatti
quali sono visti da un testimone, è cronaca. E in effetti
questo romanzo è privo di una fine vera e propria. E
tuttavia esso non ha un finale aperto, perché la coscienza di Iaio non subisce alcuna modificazione nel corso degli
eventi. Ma il modificarsi del personaggio durante la
vicenda narrata è essenziale al romanzesco. Se nulla
cambia non c’è romanzo. Qui nulla cambia. E questa è
la terza annotazione.
Una quarta: Iaio
è l’unico personaggio, gli altri sono sue proiezioni. Ma
qui troviamo una qualche – remota - somiglianza con la Coscienza di
Zeno. Tra l’autore e la Torino del testo c’è Iaio che filtra ambienti ed eventi. E alcune epifanie
distruttive, come lo straripamento delle acque che trascinano tutto con sé, che
il protagonista vive, sembrano evocare lo
sprofondamento della società nell’abisso dell’indifferenziazione. Ci sono
passi che presentano segni particolarmente significativi
dell’indifferenziazione caotica che è il terrore di ogni gruppo umano
organizzato: le cameriere che portano tutte i capelli allo stesso modo e gli
stessi tatuaggi sul fondo schiena, le ragazzine che tutte sono disposte a fare
sesso per una riga di coca, la massa dei discotecari, le orge sessuali in cui
tutti portano una parrucca colorata che li rende indistinguibili… Se c’è
questo, le vittime sacrificali non possono mancare, e in effetti ci sono.
* * * * * * *
Ho letto l’interessante Filosofie del populismo di
Nicolao Merker (Laterza
2009). Eccone tre passaggi.
Si può individuare il populista dal suo ricorrere,
più o meno accentuato, a strumenti conoscitivi poco affinati, refrattari alle distínzíoní e analisi, tali dunque da scegliere strade
relativamente facili. Sono di solito due: o una affrettata
generalizzazione concettuale, cioè un salto logico che tramuta concetti molto
particolari in concetti di (falsa) ampiezza universale; o la convinzione che
l’unica chiave per capire l’essenza del mondo è rappresentata dall’immediatezza
dell’intuizione e della divinazione. Le varianti delle dottrine populiste sono
un labirinto, potenziato anche dai contesti storico-politici in cui le ideologie del populismo si
trovano inserite. Ma hanno una componente morfologica
di fondo. Consiste, al di là del contenuto specifico
di dottrine e programmi, in una opzione mentale: ovvero nella convinzione che
il vero strumento per affrontare e risolvere i problemi dell’universo mondo sia
il fideismo, inteso nelle sue espressioni più varie. (p. 6)
Le varianti delle dottrine populiste sono un
labirinto, potenziato anche dai contesti storico-politici in cui le ideologie del populismo si
trovano inserite. Ma hanno una componente morfologica
di fondo. Consiste, al di là del contenuto specifico
di dottrine e programmi, in una opzione mentale: ovvero nella convinzione che
il vero strumento per affrontare e risolvere i problemi dell’universo mondo sia
il fideismo, inteso nelle sue espressioni più varie. (p. 9)
Nei dialetti l’ideologia dei vecchi localismi
traspare tuttora. Basta saperlo; e, usando l’idioma locale, non servirsene come
di un veicolo di contenuti e atteggiamenti sociali vecchi, ritenuti ancora
funzionali mentre sono anacronistici perché regressivi. Occorre badare ad
altro: all’eventuale positivo piacere estetico di
coltivare l’idioma, e alle funzioni di sodalità che nei rapporti circoscritti
alla sfera privata esso assolve benissimo. Riguardo però ad altre sfere di vita
collettiva, di maggiore risonanza e articolazione, il regredire a ferrovie
linguistiche di scartamento ridotto spacciate per avveniristíci
veicoli di validità generale, sarebbe un ideologismo
evidente, un pretendere il futuro retrocedendo non solo alle patrie del
passato, ma alle più minuscole tra di esse. Appartiene a quel novero la moda
(di strumentale ideologismo) dei cartelli stradali e toponomastici in dialetto
locale. La moltiplicazione dei cartelli potrebbe teoricamente andare
all’infinito, e assicurare duraturo lavoro ai produttori di cartelli, perché praticamente non c’è valle e agglomerato anche piccolo che
non esibisca una qualche sua variante di dialetto e di idioma.
Sembra perciò conservare attualità quel che cent’anni
addietro notava a proposito del rapporto lingua-dialetto un socialista della
Seconda Internazionale, Karl Kautsky.
Ovvero che «una valle montana stretta e isolata, lontana dalle strade di grande traffico e che produce quanto basta per gli abitanti,
può sviluppare una lingua particolare e mantenerla per secoli; gli abitanti
della regione di un grande fiume, che serve loro come strada commerciale,
facilmente finiranno invece per formare una più estesa comunità linguistica» [Kautsky 1908/1973: 114]. Quando il
processo di genesi di una comunità nazionale culturale si concretizza nella
comparsa di una comune lingua scritta, usata e compresa dalle molteplici
comunità locali, allora gli idiomi della valle e del bacino fluviale, insomma
«le lingue parlate dai singoli popoli nell’ambito di questa nuova comunità nazionale
regrediscono a semplici dialetti» [ivi: 118]. Era l’avvertenza, già un secolo
fa, che, come tutti gli strumenti, anche quelli linguistici hanno funzionalità diversificate. E che, se non si adopera il sacrosanto
criterio delle distinzioni, se dunque il localismo e lo strumentario suo
(compreso quello linguistico) vengono confusi con
ambiti e strumenti di funzionalità più generale, gli esiti anche qui diventano
deleteri. (p. 178)
19 ottobre 2009