DUE LIBRI,
UNA PAGINA 2 (3)
Letture di
Fabio Brotto
Un sillabario piceno
è il sottotitolo del piacevole Viaggi da
Fermo di Angelo Ferracuti (Laterza
2009). Sono memorie, riflessioni e descrizioni brevi, incontri con una varia
umanità sul suolo piceno, dal famoso artista alla
prostituta(o) di strada. E’ insieme il ritratto di una regione e una narrazione
di una vita, di un uomo Ferracuti che è stato
militante di una sinistra anarcoide-libertaria e ora si trova in difficoltà col
mondo presente, dominato da un capitalismo amorale e famelico, e
ha una forte nostalgia di tempi antropologicamente differenti (incarnati dal
volto del contadino comunista buono). Il fondo del libro è un forte
senso di nostalgia per ciò che è tramontato. E mi
viene in mente ciò che scrive Marco Santagata in Voglio
una vita come la mia, parlando dei cinquanta-sessantenni
italiani come l’ultima generazione che ha avuto un vero contatto con la natura. Riporto una pagina che trovo molto bella, e conferma
quanto ho scritto.
Adesso
abito in un appartamento al terzo piano di questa casa. Intorno
l’assedio di palazzine tutte uguali, che sembrano disegnate con lo
stampo. Quello che forse non è mai cambiato davvero è il paesaggio che si
scorge in lontananza da queste finestre. Una campagna dolce
che sempre mi rassicura e accoglie con i suoi alberelli sparsi, e sul fondo
sempre loro, le cime dei Sibillini che svettano come Giganti della Montagna
nelle giornate limpide, quando si vede veramente tutto. Le mie sfingi
sono sempre stati loro. La mia patria è questa. Qualcosa di arcaico
che riesce a conservarsi come luogo antico delle radici.
Quand’ero
bambino mi perdevo laggiù, seguendo randagio i solchi dove
una volta c’erano distese le rotaie della vecchia ferrovia e dove
correva il trenino Fermo-Amandola. Camminavo e camminavo
lungo quel percorso, magari stringendo un coniglio malato, o una zampa di
gallina avuta in regalo da mia zia, e ogni volta andavo sempre più lontano,
sempre più lontano, perdendomi. A volte succedeva che mi scampagnassi
troppo, e al tramonto mi sembrava di sentire l’eco della voce di mia madre che si sgolava chiamandomi. Il buio avvolgeva
in un attimo la campagna. Non la sentivo veramente quella voce, ma sapevo che
c’era. L’eco risuonava nelle mie orecchie calde. Allora capivo che s’era fatto
tardi, e cominciavo a correre verso casa con tutte le energie possibili. Il
cuore batteva forte come il pestare delle scarpe, e quelle boscaglie diventavano
subito sinistre. Correvo scappando da qualcosa che non conoscevo ma che mi
figuravo incredibilmente mostruoso. Animali feroci, uomini maligni come quelli
di certi libri che avevo letto, come il pirata Long John Silver dell’ Isola del tesoro.
Vedevo già i volti, le mani prensili e ossute che volevano afferrarmi. Il vento
che ululava diventava un personaggio vero nelle mie fantasie
mentre scappavo. Quelli erano tempi di paura e di natura. Lontani,
bellissimi.. (p. 55)
* * * * * * *
Può capitare che leggendo un libro ti si illumini la ragione del tuo amore per un altro libro, per la scrittura di un altro autore. Mi è capitato così, leggendo La misura delle cose di Eduardo Rebulla (Sellerio 2008), di capire perché io ami tanto l’opera di Cormac McCarthy. Uno dei motivi è senz’altro nel fatto che nei romanzi del grande scrittore americano l’interiorità dei personaggi è assente, non vi compaiono i loro pensieri, ma il senso sta e si manifesta in quel che i personaggi fanno e in quel che dicono. L’accesso diretto al pensiero del personaggio pone il narratore come onnisciente, posizione oggi rifiutata dalla maggioranza degli scrittori. Ma poiché quasi tutti gli scrittori con ambizioni artistiche pensano di dover mettere in scena l’interiorità, ecco il prevalere degli io narranti nella narrativa contemporanea. Perché se l’interior homo è quello di chi narra, la questione dell’onniscienza non si pone. Ed emerge, invece, quella dell’oggettività, dell’inter-soggettività, del soggettivismo e del relativismo.
La misura
delle cose fin dal titolo si offre come un libro dalle alte pretese, col
suo riferimento ad uno dei passaggi critici della filosofia greca antica, e col
suo porre la protagonista Tea come attuale incarnazione di Antigone.
La storia è quella di un uomo, Nick, che a Stoccolma
giace in una bara-contenitore, in ospedale, colpito da una malattia
invalidante, di cui si trova allo stadio estremo. Nick,
ridotto ad una mente senza più corpo, manda un messaggio alla sorellastra Tea
perché venga a liberarlo. E Tea sente il dovere di farlo, va a Stoccolma, lo
trasporta quindi all’isola della loro giovinezza, la greca Lindos, e là, secondo la volontà di lui,
gli stacca la spina. Intorno ai due personaggi principali si muove una piccola
schiera di comprimari, messa in scena con una tecnica particolare, ovvero
mediante una oscillazione tra narratore onnisciente e
plurale, che dice noi, e gli io narranti dei personaggi principali.
Ove l’interiorità è comunque ben lontana da un flusso
di coscienza e si presenta invece come interiorità ordinata.
Questo è
certamente un romanzo di idee, anzi di idea. L’idea
fondamentale è che in un mondo senza Dio (scritto da Rebulla
con la d minuscola), l’uomo essendo la misura delle cose, la dignità sta dove
ciascuno la pone, e il diritto fondativo non può che essere quello del
soggetto. Tuttavia, il soggetto singolo individuo essendo una costruzione
sociale e storica, ed una finzione, e la realtà essendo costituita inter-soggettivamente, il singolo ha pur bisogno di una
rete di relazioni, attraverso la quale soltanto si può compiere il suo destino.
Che il conflitto narrato da Sofocle sia come pretende Rebulla “tutto interno alle complicate vicende umane” (p.
209), esattamente come quello tra Tea e il mondo esterno-interno
che rende difficile l’esecuzione dell’eutanasia di Nick,
mi pare dubbio. Ma Rebulla parte dal dogma che “dio
non c’è” (ibidem), e quindi colei che ironicamente si chiama Tea, ovvero Dea,
non si confronta col trascendente e con la legge divina, ma
solo con l’immanenza dei regolamenti e delle leggi umane. La sua decisione di
staccare la spina del fratello finisce per apparire al lettore una decisione
senza adeguato fondamento, mera adesione ad un richiamo del (mezzo) sangue, del
fratello che avrebbe ugualmente potuto chiederle di
salvarlo da una eutanasia organizzata da altri, se la sua mente fosse
differente.
Che il mondo sia privo di senso è ovviamente un’affermazione
nichilistica. Da cui se si fosse buoni filosofi occorrerebbe
trarre tutte le conseguenze logiche, cosa che naturalmente il
narratore-filosofo Rebulla non fa. Ma se davvero si fosse buoni filosofi, non si potrebbe
sostenere l’onnipervasività del non senso. Al massimo,
egli può approdare a filosofemi del genere:
Di fronte
all’insensatezza del mondo non c’è una terapia. Qualche
rimedio, questo sì, ma buono solo a ridurre l’attrito, a rintracciare una
forma, un’abitudine, anche in mezzo alle macerie. (p.
130)
Le bombe che
dilaniano la stazione di Madrid sono nel libro la
cifra dell’insensatezza. Ma questa può apparire come
tale solo a chi guarda l’evento da troppo vicino. L’azione terroristica
appartiene alla sfera del tremendo, non a quella dell’insensato. Essa ha sempre
un senso, e un obiettivo, che può essere quello di seminare il terrore. Quelli
che hanno messo le bombe su quei treni avevano chiaro
un obiettivo e un senso. L’obiettivo è stato infatti
raggiunto, e la Spagna ha ritirato le truppe dall’Iraq. Ma
l’esclusione rebulliana di “dio” è anche una rinuncia
ad una comprensione della storia e degli eventi – una ritirata nichilistica che
non può portare grandi frutti.
18 novembre 2009