DUE LIBRI,
UNA PAGINA 2 (4)
Letture di
Fabio Brotto
Se non riuscivo a spiegarle
qual è il senso del dolore, almeno potevo condividere il suo. Era l’unica
possibilità che mi era rimasta per uscire dal vicolo cieco in cui mi ero
cacciato (p. 342). Forse questa è la frase in cui possiamo
vedere concentrato il senso del romanzo di Vito Bruno Il
ragazzo che credeva in Dio (Fazi 2009). La
storia è quella di un prete, Carmine, che vive in
una città allo sbando come Taranto, e che sta per compiere 50 anni. Come la
città, anche lui non sa dove andrà a parare: da un lato Dio non gli dice più
quello che gli diceva da ragazzo, ovvero il senso del
divino per lui si è ridotto a niente, rimanendogli solo il rituale da un lato
e dall’altro l’impulso ad agire per il bene degli altri. E gli
altri sono tanti: i parrocchiani e coloro che arrivano
di lontano, i nuovi schiavi come la prostituta montenegrina Alena,
che diviene il fulcro della narrazione e dell’azione. Quello
di Bruno è a mio parere un romanzo medio, in tutti i sensi. Mi pare un
tipico esempio di buon romanzo italiano contemporaneo, scritto con un certo
mestiere, ma privo di vette e abissi. Naturalmente mi aspettavo un io narrante,
e non manca: è quello dello stesso prete. Non mi
aspettavo il passato remoto, ed ecco qui un passato prossimo (medio tra remoto
e presente). Non mi aspettavo un prete che ragionasse
da prete, e infatti il simpatico Carmine si narra come si narrerebbe uno che ha
una certa familiarità esteriore coi preti in jeans e maglione, attivi nel
sociale, ma non ne sa abbastanza da poter coglierne l’essenza dall’interno, in
cui si colloca. Il divino qui è assente, in tutti i sensi, e sembrerebbe
che Carmine di Scrittura, Salmi, teologia ecc. ne sapesse come un qualsiasi
laico, ovvero quasi nulla. Un prete di cinquant’anni
alle prese col venir meno delle proprie convinzioni più alte sperimenterebbe
un dibattito interiore di ben altra lacerante profondità, e nutrito di
riferimenti che in un romanzo rivolto ad un pubblico medio sarebbero difficili,
ma la cui assenza toglie, in realtà, realismo alla rappresentazione. Se la
questione qui è quella del male compiuto dagli uomini e del senso del dolore,
ovvero la questione di Giobbe, diciamo che le penne di Bruno non appaiono atte
al grande volo.
Su altri
versanti le cose vanno meglio. Si può aggiungere che questo è un romanzo su
Taranto (città devastata e dominata dal complesso mostruosamente grande
dell’ILVA), sui Tarantini (che sono propensi a vivere
nell’immediato presente, anche dal punto di vista dei soldi), e sulla figura
paterna. Nel libro ci sono diversi padri: quello di Carmine, morto ma ben
presente nel ricordo del figlio; quello del giovane Nino,
capitano di navi oceaniche, sempre assente; quello di Pietro, gravemente
malato; quello di Cataldo, che nel suo oscillare tra povera attività di
pescatore e attraente ruolo nella malavita emergente si pone come cifra di ambigui sviluppi; e altri ancora. E
ovviamente Carmine si pone come figura paterna, anche se incompiuta e lacerata.
Su questo piano, il romanzo funziona.
* * * * * * *
Shivà sono i sette giorni di lutto che gli
israeliti osservano per il padre, la madre o un fratello. Durante questi sette
giorni si sta in casa, ricevendo parenti, vicini e amici della persona
scomparsa. Il romanzo di Lizzie Doron
C’era una volta una famiglia
(2002, trad. di S. Vogelmann, Giuntina
2009) è il racconto di una shivà,
quella della narratrice per sua madre, a Tel Aviv. Durante questa shivà, raccontata giorno per giorno,
compaiono numerose figure che evocano il passato della protagonista e della
madre. Una madre che viene dal mondo di là, quello in cui è avvenuta
la Shoah, mentre la figlia è nata qua, in
Israele, è una sabra.
Accogliere nuovi
immigrati è sempre difficile. Lo è anche quando le differenze sono limitate, ad
esempio quando la religione è la stessa, ma l’accento
è differente, la lingua è un’altra lingua. E’ una legge universale degli umani.
L’identità si può comprendere e affermare solo nella differenza. Solo
affermando la diversità dell’altro posso affermare la
mia identità. Ma questo solitamente comporta una forma di esclusione.
Durante l’intervallo circolò di bocca in
bocca la voce che Chaiele e la sua famiglia erano venuti in Israele dalla Polonia a causa della gomulka. Roni
Postevskí spiegò a tutti noi che la gomulka era una malattia
incurabile, «ma non contagiosa» ci tranquillizzò. «Ignoranti!» lo rimproverò Pola, e ci arringò: «Wladyslaw Gomulka, bambini, sarà per sempre ricordato nella storia
del nostro popolo come il primo segretario del Partito dei lavoratori polacco,
come colui che consentì ai profughi ebrei rimasti in
Polonia di fare ritorno nella propria patria, di emigrare nella Terra
d’Israele». Nonostante le spiegazioni di Pola, anch’io corsi dietro a Chaiele
e Yudele con i bambini del quartiere a gridare loro:
«Gomulka!», «Dobrze!», «Proszg pani!». Prendevamo in giro i nuovi
immigrati con grande soddisfazione. Come gli altri
bambini anch’io non coinvolgevo Chaiele e Yudele nei nostri giochi, e non li invitavo a casa mia quando facevamo delle feste di classe. Da quando Chaiele e Yudele erano arrivati
nel quartiere, finalmente sentii di essere una vera sabra. (p. 59)
Lizzie Doron riesce a
creare nel lettore una suggestione profonda, perché tocca
corde universali, e riesce a fare di una particolare condizione storico-personale e di momenti particolarissimi un
precipitato della condizione umana. Come quando nella casa della shivà entra il vecchio fotografo e fa vedere ai
presenti un album con una quantità di fotografie.
Uno spirito di altri
tempi riprese possesso della casa. Yiddish e polacco risuonarono di nuovo, i
vestiti di una volta tornarono in voga, battute, baci, segreti ormai scaduti
riacquisirono colore, volti e nomi di morti svaniti
furono per un attimo in vita.
E mentre Mishka
sfogliava le pagine del suo album molte cominciarono a
piangere. Alcune chiusero i conti con chi non aveva chiuso i conti con loro e
ora sorrideva dalle fotografie, altre maledicevano i traditori che avevano
accettato i risarcimenti e se n’erano andati, e poche perdonavano offese che
avevano tenuto dentro ai propri cuori e ora erano
state risvegliate da quelle foto mute.
Nella casa calò nuovamente il silenzio. Solo Gute sospirò: «Una volta c’era una famiglia».
Mishka chiuse l’album e quando
lo chiuse fu come chiudere il passato. La casa si
riempì nuovamente di voci e ospiti. Tutti conversavano tra di
loro, deprecando i reumatismi e la perdita di memoria, scambiandosi consigli e
medicine, informandosi sulla sorte dei figli e dei nipoti, parlando di affitti
e pensioni, e lamentandosi di quanto ci fosse da soffrire in questa dura vita.
Nonostante fosse ormai buio, le
persone non avrebbero voluto abbandonare la casa.
Prima di andarsene Genia mi disse: «Quando qui, di sera, da una delle case si sente ridere e
chiacchierare, quando si vede la luce tra le stecche delle persiane e si sente
l’odore di caffè e biscotti, allora è segno che un altro dei nostri se n’è
andato».
Non risposi.
«Non devi essere triste,»
mi incoraggiò «quando uno di noi se ne va è un buon motivo per festeggiare; del
resto per noi la morte fa meno male della vita». (pp. 117-118)
26 novembre 2009