DUE LIBRI,
UNA PAGINA 2 (5)
Letture di
Fabio Brotto
Si fa presto a dire cotto è il titolo di un gustosissimo e nutriente saggio di Marino Niola (sottotitolo Un antropologo in cucina, il
Mulino 2009). In brevi ben pepati capitoletti Niola esplora la valenza antropologica del cibo, della sua
preparazione, e dell’interpretazione che le culture umane forniscono di una
attività, quella del nutrirsi, che solo la nostra specie, padrona del fuoco, ha
introdotto nell’orizzonte della rappresentazione, senza la quale rimarrebbe
cosa puramente animale. Dal libretto si apprende molto, anche, ad esempio che
la tempura giapponese, ovvero quel fritto
di verdure sminuzzatissime oggi di moda, ha un
nome che deriva dal latino tempora, e ha
a che fare coi missionari cattolici che nel Cinquecento tentarono
l’evangelizzazione del Giappone. Durante i periodi dell’anno liturgico (tempora
in latino) in cui ci si doveva limitare nel cibo, mangiando di magro, i
Portoghesi preparavano verdure fritte impastellate. I
Giapponesi copiarono la tecnica, aggiungendovi il loro genius del minimo, ed
ecco la tempura oggi glocally
trendy. Il libro offre una infinità
di spunti di riflessione. Eccone un passo.
È molto diffusa in quasi tutte le culture la convinzione che la carne arrostita sia strettamente associata alla forza, alla caccia e al sesso maschile, mentre il bollito sia particolarmente adatto alla vita sedentaria e al sesso femminile. Tra gli Yagua, i Cubeo e gli Jivaro dell’Amazzonia, come del resto in numerosissime società, vige una netta e rigorosa distinzione di competenze nella preparazione del cibo. Gli uomini arrostiscono e affumicano le carni mentre le donne le fanno bollire. L’associazione tra l’arrostitura, la carne e la virilità è una costante che percorre i tempi e le culture. Si tratta di un cibo che si addice ai guerrieri, soprattutto se parliamo di selvaggina nobile e di grandi dimensioni, in quanto frutto dello scontro fra un uomo e un animale egualmente coraggiosi. Come nel caso delle ideologie che circondano la caccia al cinghiale in Europa e che fanno dell’uccisione della bestia un confronto tra un cacciatore umano e un animale cacciatore. In molti paesi europei l’abbattimento dell’animale era seguito non a caso dal rito solenne della spartizione e della dístríbuzione delle sue carni, che riflettevano le gerarchie di forza e di rango e avevano il loro coronamento nella distribuzione del fegato, il ferum, considerato la sede della forza e del coraggio.
Questi usi tradizionali sembrano echeggiare nei nostri barbecue all’aperto, o nelle grigliate al fuoco del camino della taverna – nuovo sancta sanctorum alimentare dell’Italia del benessere – dove gli uomini badano alle braci mentre le donne, che durante tutta la settimana hanno l’onere del cibo quotidiano, preparano altre pietanze di contorno. Un lungo filo rosso unisce dunque gli accampamenti primitivi ai camping moderni, e gli uomini delle caverne a quelli delle taverne. (p.45)
La lettura di questa pagina mi ha
richiamato alla mente un rito che io stesso ho subito nel lontano 1969, in
Slovenia. Avevo 19 anni, e partecipai, su invito di un lontanissimo parente, ad
una caccia invernale al cinghiale, in cui tra l’altro rischiai la pelle, perché
da inesperto venni a trovarmi sulla linea del fuoco quando
il branco di 12 cinghiali si mise a correre, e tutti i cacciatori slavi (per lo
più ex partigiani armati di fucili da guerra) a sparare, e io preso da ardore artemisio pensai bene di tagliare la strada agli irsuti, e
mi venni a trovare in mezzo alle pallottole fischianti. Furono abbattuti
tre animali, e subito portati nella casa più vicina vennero
squartati, e i fegati tagliati a pezzetti furono saltati in padella con una
quantità smisurata di cipolla. E tutti i cacciatori a
rimpinzarsi. E io da bravo e audace ma sciocco
giovinetto dovetti dimostrare di esser uomo almeno nel mangiare, e dopo il
primo piattone di fegato dovetti trangugiarne anche
un secondo. Con grappa di prugna a profusione. Cultura
maschile, che più maschile non si può.
* * * * * * *
Una bambina sbagliata di Cynthia Collu (Mondadori 2009)
presenta molti caratteri del romanzo di formazione, con la protagonista
(suppongo alquanto autobiografica) che viene seguita
dalla prima infanzia ai quarant’anni,
ovviamente mediante la tecnica che d’ora in poi chiamerò del ping-pong
temporale. Si tratta della tecnica di taglio delle
scene che tutti gli scrittori devono usare, e che sicuramente gli editor
(questa vil razza dannata) impongono loro nel caso
che essi abbiano l’ardire di sottrarvisi. Cioè, perché la narrazione appaia più sapiente e seguirla sia
più difficoltoso per il lettore, che deve sudare, si sa, si passa ogni due
pagine dal presente al lontano passato, al presente, al passato un po’ meno
lontano, finché si giunge al presente-presente. E
sempre più spesso la narrazione è tutta o quasi coi
verbi al tempo presente (con l’io narrante imperversante, ovviamente), sia che
l’evento narrato sia vicino o presente, sia che sia nel passato
lontano. E’ al presente anche nel romanzo della Collu.
Ho già scritto altrove che l’uso contempraneo del
presente da parte dei narratori è contrario allo spirito profondo della
narrazione. Penso che sia invece molto legato al primato del cinema e della TV
nell’immaginario anche degli scrittori, i quali naturalmente sentono di aver
raggiunto il successo solo quando la loro opera è
tradotta in immagine filmica, e tendono anche inconsciamente alla sceneggiatura.
Il romanzo
è divisibile in due parti: nella prima, quella dell’infanzia, la Collu riesce meglio. L’unico personaggio del libro che
realmente si impone è la maestra Trebuchi,
e l’unica scena che rimane indelebile nella memoria è quella del controllo
delle merendine delle allieve alle pp. 73-74, con la maestra che ne divora gran
parte. Per il resto, man mano che la protagonista Galathea
cresce, l’interesse del lettore scema, e infine,
nonostante le morti e le sofferenze, nella memoria poco rimane.
1 dicembre 2009