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AUTORITRATTO
Nato a Montreal nel 1953, sono cresciuto da
ragazzino molisano. Mia madre e mio padre sono nati a Guglionesi ma hanno dovuto
lasciare l’Italia per sposarsi a Montreal nel 1952, il che significa che mia
madre ha dovuto vivere con mio padre prima del matrimonio. Lo dico per
dimostrare che tipo di donna meravigliosa è mia madre: decisa e convinta delle
sue azioni. Mio padre era un saldatore. Amo questa immagine, perché è proprio
questo che mi ha spinto a voler unire laddove regna la divisione.
Essere italiano fuori d’Italia o italico, come preferisco dire, è
espressione del mio desiderio di unità contro la ghettizzazione e la divisione.
Sono diventato italiano. Prima
d’allora non avevo coscienza di me stesso, di chi ero. Fino a quando ho vissuto
e studiato nelle Piccole Italie di Montreal, non ho mai messo in dubbio la mia
identità. Nel 1970, quando ho sbattuto per la prima volta contro un vero
anglosassone, mi sono reso conto di non essere per niente inglese.
Mentre crescevo in un quartiere francese, mi
chiamavano wop, col dispregiativo
usato per gli italiani. La mia identità mi ha fatto soffrire più di tutto
all’università. Il confezionamento della mia sessualità in stereotipi è ciò che
mi ha fatto capire che ero «diverso». Che cosa fosse questa diversità l’avrei
capito molto più tardi.
Sebbene abbia sempre studiato lingua e cultura
italiane, non mi ero mai considerato italiano sul serio. Pensavo di essere
canadese. Ma avrei imparato ben presto che, anche volendo, non avrei potuto
essere canadese. Ad ogni persona viene data soltanto
una possibilità di essere canadese o di avere qualsiasi altra nazionalità. E
quella possibilità si presenta nella forma dell’assimilazione. Se per caso ti
rifiuti di parlare a favore dell’assimilazione quella possibilità ti viene immediatamente tolta. La ragione di questo ostracismo
è facile da capire: la nazionalità e la libertà di adottare qualsiasi
nazionalità sta nelle mani di pochissimi gruppi di elite. L’accettare una
nazionalità implica l’automatica accettazione della tradizione vista come
fenomeno stagnante. Ma le tradizioni culturali non sono mai ad un punto morto.
Improvvisamente qualunque cosa tu dica suona strana
all’ascoltatore che sta affondando nelle sabbie mobili della cultura statica.
Quando ho cominciato a sentire che quello che dicevo come scrittore o editore veniva sistematicamente rigettato (o passato sotto silenzio)
dai critici, ho capito che era arrivato il momento di prendere coscienza di chi
ero. Una minoranza. Un etnico.
Nel 1973 sono andato in Italia e mi sono scoperto
debole e stupido. Molto semplicemente non ero pronto a portare il peso di una
nuova identità. Ci sono voluti altri cinque anni prima
che potessi affrontare l’immagine che mi rilanciava lo specchio. Allora è nata
Guernica.
Vivere come minoranza a Montreal, Città del Messico,
Ponteix (Saskatchewan) e Roma mi ha profondamente sconvolto. Dal 1978 in poi ho
promesso a me stesso che le Edizioni Guernica avrebbe offerto uno spazio a
scrittori e scrittrici che desiderano essere se stessi senza doversi svendere
all’assimilazione.
Ora c’è davvero bisogno che noi tutti gruppi etnici
entriamo in possesso di nostri mezzi di produzione culturale, in modo da poter
fare quello che vogliamo e parlare di noi stessi in tutti gli svariati modi
possibili.
La Jolla, Marzo 1994
INTRODUZIONE
Questi saggi e interviste,
originariamente scritti in italiano, inglese e francese nell’arco di quasi
vent’anni, sono stati raccolti in modo che le idee sviluppate in un saggio
potessero liberamente rimbalzare contro quelle di un altro e finire per
agglomerarsi nell’unità flessibilmente connessa di questo volume. Per quanto
non sia da intendersi come l’opera di uno studioso, tuttavia offre testi
teorici che per qualche ragione sono maturati più da un’esperienza poetica che
da un corso di laurea e sono quindi intimamente connessi ad un ambito
principalmente emotivo. Un’immagine ha portato ad un’altra e, gradualmente,
invece di trovarmi davanti agli occhi una poesia o un racconto, sono stato guidato
nel regno dello scrivere non narrativo. Non narrativo? Non ne sono così sicuro.
Se i saggi interessano la mente, è proprio perché sono opera
dell’immaginazione. E l’immaginazione, in narrativa o al di fuori di essa, è l’Utopia di ogni scrittore.
Dato che ho rifiutato di limitare la
mia analisi della cultura al campo della poesia, mi sono trovato ad entrare
involontariamente nelle librerie a cercare le opere critiche di alcuni dei miei
poeti, artisti e registi preferiti. È perché mi piacciono le opere creative di
T. S. Eliot, Ezra Pound, Roberto Rossellini, Federico Fellini, Pier Paolo
Pasolini, François Truffaut, Jean-Luc Godard e Paul Schrader che sono stato
attratto dai loro saggi. L’ansia di sapere di più del loro modo di pensare mi
ha costretto a scoprire che cosa infiammava la loro
particolare esigenza di capire.
Questi saggi non hanno lo stesso
respiro filosofico che si può trovare in questi straordinari artisti. I miei
sono testi semplici, occasionali, scritti perché mi era stato
chiesto di collaborare ad un numero speciale di una rivista o perché ero stato
invitato a presentare una relazione ad un convegno. Mi sono meravigliato io
stesso nel notare quanto testardamente interconnessi fossero alcuni filoni di
pensiero.
Fin dall’inizio il mio stimolo
principale è stato costituito dal
preconcetto che l’artista deve essere essenziale, vale a dire vicino al proprio io quando affronta la narrativa. In realtà, ciò che mi affascinava
di più era l’identità dell’artista piuttosto che la sua maschera. L’immagine
proiettata dall’artista in qualche misura mi annoiava, mi rendeva sospettoso
delle sue intenzioni creative. In ogni caso il bisogno di sentire l’identità di
una persona mi ha portato fino a questo punto.
Che cos’è l’identità? L’etimologia
della parola, secondo l’American College
Dictionary è il vocabolo latino identitas,
che deriva da identi– (come in identidem, che significa
«ripetutamente»), idem (che significa
«lo stesso») e –tas (il suffisso –ty in inglese, –tà in italiano). Così arriviamo alla definizione attuale: lo «stato
o fatto di rimanere la stessa persona, in presenza di
vari aspetti o condizioni; la condizione di essere se stessi e non altri; la
condizione o il carattere dell’essenza di una persona o di una cosa; lo stato o
il fatto di essere lo stesso...».
Ognuno di questi significati mi
soddisfa e tuttavia non posso non chiedermi che cosa succederebbe se invece di
dividere «identità» in identi-tà io
la dividessi in id-entità.
Improvvisamente il significato sembra vacillare. Ciò che era incontestabile di
colpo appare fragile e inconsistente. Quale sarebbe dunque la sua definizione?
Prima di tutto c’è l’id, quella
«parte della psiche che risiede nell’inconscio, che è la fonte dell’energia
istintiva». Poi c’è l’entità,
quel «qualcosa che ha un’esistenza reale; cosa; essere o esistenza; natura
essenziale». Possiamo dunque dedurne che identità è di
fatto la natura essenziale
nell’inconscio?
Ma non sarebbe questo precisamente il significato
opposto di identità che, tradizionalmente, ha finito per denotare «la
condizione di essere se stessi»? Essere me stesso: è questa la natura
essenziale del mio inconscio? E ciò implica dunque che la mia identità è
determinata dal mio inconscio? Questo almeno era ed è ancora vero per molte
persone che affermano di essere chi sono semplicemente perché credono di essere
quello che sentono di essere.
Sfortunatamente, l’unica cosa buona che potrebbe
emergere dall’esistenza infernale alla
quale ci ha condannato il ventesimo secolo, è l’insegnamento che i sentimenti
di una persona non sono affatto sufficienti a costruirne il carattere.
Sentimenti non imbrigliati possono condurre agli estremi del massacro. Un
sentimento, un certo senso di se stessi è valido se, e soltanto se, viene guidato dalla mente attiva, vale a dire dalla forza
della ragione. In altre parole, l’identità di una persona dovrebbe essere l’espressione conscia del suo inconscio
(dato che l’inconscio è qualcosa che per sua essenza rimane inconscio).
Sarebbe tuttavia sbagliato illuderci credendo che l’inconscio
sia materia intoccabile. Al contrario ci sarà sempre una parte controllabile
dell’inconscio che può essere trasformata in materia conscia. Non ho le
qualifiche necessarie ad elaborare le tecniche psicoanalitiche che possano consentire questo trasferimento da una sfera
all’altra. Sono tuttavia interessato a studiare certi aspetti di questo
trasferimento di elementi, perché questo è il modo in cui si forma l’identità
di una persona.
Sebbene nelle prossime pagine io parli soltanto di
istanze culturali, sarebbe sbagliato da parte mia nascondere o anche soltanto
minimizzare l’importanza dell’analisi psicologica nel trattare i temi della
cultura. La cultura è, per sua stessa natura, una cosa artificiale. Sebbene la
cultura possa essere nata in modo accidentale, si tratta di un prodotto
dell’uomo che ha bisogno di essere memorizzato
per continuare ad esistere. L’esistenza della cultura dipende dalla capacità di
richiamare alla mente e riconoscere l’impressione delle cose naturali e di
quelle create.
Le immagini della guerra e della povertà, il flusso
inarrestabile del denaro e il desiderio sempre vivo nelle persone di emigrare
non soltanto hanno indebolito la nostra capacità di rivivere le impressioni, ma
ci hanno anche lasciato in mente tracce indelebili di ciò che deve e ciò che
non deve continuare ad esistere. Una delle questioni contro le quali reagisco
visceralmente è l’ascesa del fervore nazionalistico. Può darsi che sia dovuto al fatto che i miei genitori, che sono partiti da
un’Italia piagata dalla guerra, mi hanno insegnato a diffidare di qualunque
sentimento nazionalista. Forse perché sono nato all’interno di una minoranza
(italiana) dominata da un’altra minoranza (francese) che si sentiva colonizzata
da una prepotente maggioranza (britannica). Che la ragione sia reale o
immaginaria, sono diventato allergico a qualunque cieca fedeltà ad un’identità
che si fonda su sentimenti nazionalisti.
Fin dalla Guerra del Golfo mi sento sotto pressione.
Non ne conosco la causa, ma per qualche motivo mi sono convinto che bisogna
affrontare in modo diverso le istanze relative alla lingua, la letteratura, la
cultura, la cittadinanza e la nazionalità. Non mi vanto di aver trovato la soluzione alle domande che mi sono
posto o che mi sono state chieste. Tuttavia sento che è arrivato il momento di
fare un passo avanti nella nostra analisi dell’identità e della cultura, anche
se rischiamo di inciampare in alcuni concetti complessi e contraddirci nel
cammino verso quella che chiamo identità
conscia.
Le idee crescono e cambiano nel tempo. Le immagini
che una volta erano appropriate, diventano inopportune o addirittura sbagliate.
Ci sono idee che si allacciano naturalmente ad altre idee e convergono nella
formazione di concetti più forti. Infine ci sono immagini che, invece di
collegarsi ad altre in un flusso scorrevole, si congelano in inquadrature fisse
profondamente allarmanti. Sono cosciente che molte teorie articolate in questo
volume daranno fastidio ad un certo numero di lettori. Questi saggi non
costituiscono un attacco a singoli individui o convinzioni. Nelle prossime
pagine troverete i percorsi, finora non intrapresi da nessuno, che ho seguito
per arrivare al punto in cui mi trovo oggi. Da giovane ero chiassoso ed
eternamente in discussione con gli amici su qualunque argomento venisse affrontato. Anche quando la mia posizione era
incerta o perfino sbagliata continuavo a
sostenere il mio punto di vista, non perché non volevo perdere la
faccia, ma perché sentivo che era mio dovere spingere la conversazione fino al
punto cruciale in cui ci potessimo trovare tutti a riconsiderare ogni singolo
fatto anche se era, come dicono i francesi, coulé
dans du roc.
Una delle cose che ho imparato da tutti questi
bisticci insignificanti è che quel che conta non sono i fatti e le cifre di per
sé, ma la maniera di interpretare fatti e cifre in modo che l’orrore nascosto
sotto queste «verità» possa essere rivelato più
violentemente. Una cosa è sedersi intorno ad un tavolo e parlare delle guerre
mondiali e del numero dei caduti, ben altra cosa è cominciare a tirar fuori le
fotografie dei mutilati. Queste pagine espongono immagini di vittime di altro
genere. Per la prima volta nella storia dell’umanità un numero crescente di
persone ha rifiutato l’assimilazione di massa. Il nazionalismo ha soltanto un
modo di trattare gli stranieri e le minoranze: distruggerli. Io volevo unirmi
agli uomini e alle donne che protestano gridando
contro la prassi delle soluzioni definitive.
Anche se a volte appaio nichilista quando parlo
duramente di come le istituzioni culturali non siano tanto democratiche quanto
pretendono di essere, quando vengono confrontate da
istanze che riguardano i diritti individuali e collettivi, non ho alcuna
intenzione di chiedere formalmente la chiusura di queste istituzioni. Quello
che bisogna fare per rimediare alla mancanza di comprensione sensibile e
intelligente da parte dell’«altro» non deve portare a tattiche accusatorie o
alla caccia alle streghe. L’etica in questione non ha nulla a che fare con la
ricerca di supremazie etniche o religiose. Il potere deriva da complicati
intrighi storici e, paradossalmente, da battaglie spesso giustificate. Ciò che
critico non sono gli strumenti del potere, ma la maniera in cui il potere ha
minato i campi in cui in circostanze normali dovrebbero verificarsi scambi,
cooperazione e compromessi. Credo che molte istituzioni sociali e culturali
abbiano la tendenza a cristallizzarsi nei divoranti robot privi di pietà
ritratti negli anni ’20 nel film Metropolis
di Fritz Lang e Thea von Harbou.
Queste pagine sono state scritte avendo in mente
uomini e donne che non vogliono cancellare o abbandonarsi dietro le spalle ciò
che erano e che considerano parte di sé, soltanto per abbracciare il miraggio
di un compiacente crogiolo delle razze e delle etnie. Questa disgustosa
metafora gastronomica ha sempre evocato in me immagini di cannibalismo. Quando
si tratta delle politiche relative ai diritti delle minoranze, bisogna imparare
ad essere vegetariani. È triste notare quanti
intellettuali moderni (e anche post-moderni) continuino
a ridurre la società a questo atto di barbarie. Sono giunti a concepire metodi
senza cuore e senza precedenti per scegliere ciò che meglio si addice alla
pentola dove bolle la zuppa nazionale. È arrivato il momento di chiedere loro:
«Che cosa è successo ai cadaveri scartati?». Agli uomini e donne smembrati che
hanno detto no quando tutti quelli
che li circondavano urlavano un diabolico sì.
Ci sarà sempre un manipolo di individui esasperati che continueranno a
mormorare: «Riciclate i corpi e trasformateli nei cucchiai e nelle forchette
che rimestano i contenuti della nostra grande nazione!».
La nazione è morta. E se non è morta, preghiamo per
una sua rapida sparizione, perché se la nazione persiste non avrà nient’altro
da offrire che varie forme di camere a gas e campi di concentramento culturale.
L’impresa più difficile che la società contemporanea
dovrà affrontare è il superamento delle sue macchine «uniformanti» che si
creano da sole. Con questo, non voglio invocare l’eliminazione del diritto di
proprietà, della legge o della religione, né considero implicito lo
schiacciamento dei diritti individuali da parte dei diritti collettivi ed il
soffocamento della vita collettiva da parte delle tirannie individualistiche.
La mia mancanza di conoscenza delle leggi dell’economia mi impedisce di
sostenere soluzioni ideologiche. Infatti è probabile
che non ci siano soluzioni a lungo termine, soltanto una restituzione a breve
per le ineguaglianze che si sono realizzate a causa della cattiva amministrazione.
Questo libro presenta una ricerca profondamente
personale sulle direzioni che potrebbero prendere coloro che vogliono
collaborare alla creazione di una società giusta basata non sulla cancellazione
delle etnie o la territorializzazione, ma su identità coscienti. C’è la
speranza che un maggior numero di persone qualificate voglia continuare ad
elaborare metodi per collegare futuri centri, disparati e discreti, di attività
economiche, culturali, educative e politiche. I più letali nemici della democrazia
sono l’ignoranza e la disinformazione. Ci sono in giro molti libri «che fanno
tendenza» dedicati allo studio della cultura. Mi fanno inarcare la schiena come
quella di un gatto pronto ad attaccare. Sono meravigliato di trovare tanti
studiosi e intellettuali, apparentemente importanti, che la fanno franca
malgrado offrano un’enorme quantità di incomprensibile farfugliare razzista e
di analisi piene di odio razziale che vengono accolte
come pietre miliari nel campo della ricerca sociologica.
Ovviamente sarebbe del tutto sbagliato da parte mia
il non riscontrare in questi lavori necessari un qualche tipo di validità. Il
diritto alla libertà di espressione permette ad ognuno di noi di imparare molto
dal talento impressionante di un autore famoso nel descrivere le più delicate
istanze razziali o dall’affascinante capacità di un rispettato teorico di
dedurre teorie limpide come il cristallo da caotici dettagli empirici. Ciò che
la libertà di espressione non è ancora riuscita a fornire è l’abilità di far
conoscere gli scrittori meno noti del ventesimo secolo e di quelli precedenti.
L’arroganza con la quale i nostri giornali, radio, televisioni e scuole
difendono il canone «di moda» non è più per me ragione di polemica, è diventata
una barzelletta privata e personale per la quale rido
più sonoramente del solito per evitare di
piangere. La televisione, per esempio, non riflette mai le realtà
quotidiane della città da cui trasmette. La monolitica Toronto presentata in TV
non è la Toronto vibrante nella quale viviamo: la nostra è più interessante.
Non c’è da meravigliarsi che la gente odii Toronto.
Ogni persona studia tipi diversi di teorie per
raggiungere il suo obiettivo individuale. Ogni persona può imparare da ogni
libro od opera d’arte e concepire la propria visione del mondo, a prescindere
da quali idee buone o cattive abbia trovato lungo il tragitto. Alla fin fine
quello che conta è essere capaci di distinguere le delicate sfumature che si
presentano durante l’evoluzione del ragionamento. In ultima analisi quello che
conta è il paragonare le idee più che studiare a fondo una sola idea
particolare.
Ecco perché desidero dissociarmi dall’attuale
esigenza di diffondere nel mondo l’ignoranza attraverso la censura. E per
censura non intendo soltanto l’atto di bandire «opere oscene o non grate», ma
più precisamente il silenzio su opere che non si collocano nell’ambito della
«moda letteraria» del momento e il «riconoscimento» di altre, perché che cos’è
«la canonicità della moda letteraria» se non l’artificiale ripetizione di nomi
e stili di vita? Non si tratta del fatto che alcune opere siano più appaganti
di altre. Potrebbero anche esserlo. Ciò che è sbagliato e costituisce un atto
di censura è la maniera in cui il sistema educativo e i mass media decidono di
dare rilievo soltanto ad alcuni scritti senza mai menzionare, e men che meno
offrire agli studenti la possibilità di scoprire e studiare, altre opere meno
conosciute.
Fino a quando
vengono negati i diritti dell’individuo e fino
a quando le collettività vengono asservite da questa sorta di forme consentite
di censura non potrà mai esserci alcun tipo di democrazia nel mondo. È la
sintesi intelligente di questi due livelli (l’individuale e il collettivo) di
interazione sociale che porterà alla creazione di solide fondamenta per una
società giusta. La libertà di scelta è più importante di
qualunque legge che agisce come coprifuoco della volontà delle persone.
Allevato come cattolico italiano sono rimasto sorpreso nello scoprire che ci
sono molte cose buone da ricavare da quanto viene
considerato cattivo e molte cose cattive in ciò che consideriamo buono. Ma per
tutta la vita mi sono attenuto ad una verità molto semplice, ben definita da
Camille Paglia: evitare «la nuova tirannia del gruppo, che afferma di parlare
per il bene dei singoli individui, mentre in realtà li schiaccia».(1)
*
Ciò che il lettore scoprirà nelle prossime pagine è
un lungo processo di presa di coscienza. Spesso scherzo sulla maniera in cui
sono diventato italiano, non alla nascita, ma a trentadue anni. Che la gente
prenda o no sul serio quest’affermazione non mi da più
fastidio. Quando scrivo un saggio non ho in mente idee preconcette. Di solito
scrivo come reazione a qualcosa che ho letto o sentito. Lo scrivere (ed il
riscrivere) è il metodo mediante il quale i miei pensieri acquistano una forma
definitiva.
Molte idee di cui parlo sono state fraintese quando
sono state pubblicate per la prima volta. Riunendo i testi spero di riuscire a
rendere più chiara la direzione in cui si muovevano le mie idee. Non parlo a nome di alcun gruppo. Parlo soltanto per me stesso. La
principale contraddizione che tento di sanare è capire la reazione
dell’individuo che si trova seduto in una platea che ospita altri individui che
gli assomigliano.
Questo non è un libro che tratta di politica. Questi
sono saggi sull’essere umano, sulla cultura e sul modo in cui la cultura di una
società influisce sul singolo individuo. Questi testi avevano lo scopo di
guidare il lettore ignaro in ambiti mai toccati dai giornali: al di là dell’immagine
stereotipa delle minoranze e dentro l’ologramma della realtà vissuta ai sensi
di un altro tipo di spirito. Diventerà ovvio al lettore attento che, quando si tratta di democrazia etnica, la mia tesi primaria
è che senza «esperienza dall’interno» non potrà mai esserci libertà di parola.
Non ha importanza né porta conseguenze la risposta alla domanda se un uomo
bianco possa scrivere di una donna afro-americana e
viceversa, se un’ebrea possa scrivere di un mussulmano e viceversa, se un indù
possa scrivere di un indiano nordamericano e viceversa. La questione vera è il
fornire a tutte le minoranze metodi per produrre en masse e per controllare i mezzi di produzione delle opere del
proprio immaginario (l’imaginaire).
Il problema per quanto riguarda maschere, voci e
appropriazione della cultura sta nel fatto che spesso trascuriamo l’obiettivo
principale: in che misura i nostri strumenti culturali
sono accessibili a tutti? Proprio come i valori della morale puritana sono
fondamentali per il benessere di alcuni, così i piaceri nichilisti della
decadenza possono essere assoluti per altri. E cosa dire della qualità e dei
meriti delle opere delle arti figurative? Parlando a titolo personale, ammetto
che quelle che molti considerano grandi opere d’arte mi hanno spesso lasciato
del tutto indifferente, mentre, al contrario, opere
che molti giudicano minori e di seconda categoria mi hanno generalmente
sollevato a nuovi livelli di comprensione dello spirito umano.
Se non altro, la comunicazione di massa e le nuove tecnologie
hanno ampliato la portata di quanto, in passato, veniva
etichettato come «grande». Il ventesimo secolo ha reso possibile leggere le
lettere di Seneca mentre si guarda un film di Frank Capra con Frank Sinatra
alla televisione e si ascolta Broadway
the Hard Way di Frank Zappa. Più di quanto sia mai
successo prima sta a noi collegarci a piani paralleli del tempo e dello
spazio senza farci prendere dalle vertigini. All’individuo si chiede di
decidere da sé che cosa è «grande» nel mondo dell’arte.
Ovviamente, e su questo mi trovo d’accordo con il
filosofo francese Alain Finkielkraut, un paio di stivali non è paragonabile a
un dramma di Shakespeare. Tuttavia devo confessare che a scoprire le liriche di
Dante o di Baudelaire mi ha incoraggiato molto meno la «cultura alta» del
Canada che non le canzoni di Willie Dixon, Muddy Waters, B. B. King, John
Lennon/ Paul MacCartney e Mick Jagger/Keith Richards. Ascoltare, suonare e
ballare i blues, il rhythm ‘n’ blues,
il rock ‘n’ rock ha aperto la mente,
confusa ma piena di curiosità, del giovane che ero in modo così immediato e
permanente che la mia sete di conoscenza mi ha portato a leggere i numerosi
autori che gli artisti pop citavano nelle loro «sciocche canzoni d’amore».
Il primo album di Leonard Cohen mi è capitato fra le
mani nella pila di dischi di stelle del pop che la sorella più grande di un
amico teneva vicino al giradischi. Ho sentito parlare per la prima volta di Léo
Ferré che cantava i poemi di Rutebeuf, Baudelaire, Verlaine e Rimbaud in casa
di un nazionalista quebecchese. Sebbene a scuola ci insegnassero a leggere
poemi ed opere teatrali nulla sembrava infiammarmi quanto il matrimonio ideale
di musica e poesia che tanti chansonniers,
come Jacques Brel e Georges Brassens, riuscivano a stringere in Francia e in
Belgio.
Molti insegnanti semplicemente non hanno la capacità
di trasmettere il senso della bellezza della letteratura ai loro studenti. Ho
imparato di più sul modo di scandire un verso ballando senza scarpe in una
palestra di scuola al soul beat di
James Brown che ascoltando le noiose spiegazioni su Pope o Donne fatte da
docenti abulici con sterili dottorati di ricerca. Gli insegnanti dovrebbero
consigliare di leggere Sylvia Plath o Maria Luisa Spaziani soltanto dopo averle
affiancate a Patti Smith o Gianna Nannini.
Il gusto del bello si acquisisce, sì, ma questo è
vero anche del gusto di imparare. Molti miei insegnanti e professori non mi
hanno mai fatto venire la voglia di imparare. Tutto quello che ho imparato ho
dovuto trovarlo da me: attraverso la cultura popolare, dato che quella era la
cultura più a portata di mano. Da bambino non ho avuto un papà o una mamma che sapessero suonare Bach o Chopin al pianoforte. Tuttavia, nel
loro modo privo di pretese mi hanno insegnato ad apprezzare le arie che per
caso si trovavano in un’opera del grande Verdi.
L’arte sublime deve essere resa attuale. Ascoltando
le canzoni «inebriate» di Dean Martin e il jazz di
Frank Sinatra e di Tony Bennett con i miei genitori ho capito per la prima
volta come la mia italianità potesse interagire in modo vivo e vitale con il
mondo anglofono che mi circondava. Il «rumore» delle parole italiane nel testo
inglese di una canzone mi dava coscienza che anch’io potevo essere vivo e
vitale in questo continente americano. Il valore e il peso del genere umano,
grazie al cielo, non sta più nelle mani di pochi esseri fortunati.
Vorrei far notare che c’è una continua rivalutazione
di termini chiave dall’inizio alla fine di questo libro. Tanto per cominciare,
se abbandono la definizione canadese
a favore di italo-canadese e, più
avanti, quest’ultima a favore di italo/americano
e italiano fuori d’Italia è perché
l’esperienza etnica acquista un senso lato ed universale quando viene incorporata nel più ampio contesto americano. Limitare
l’etnicità ad un solo paese equivale a minimizzare la più alta componente del
suo significato, vale a dire che l’etnicità è cresciuta ed è diventata
un’esperienza così complessa di superamento di confini che le
parole emigrato ed immigrato non riescono più a
contenerla.
Tolgo il trattino e al suo posto uso la barra, come
proposto per la prima volta da Anthony Julian Tamburri nel suo indispensabile
saggio To Hyphenate Or Not to Hyphenate.
(2) La barra unifica i due termini invece di dividerli semanticamente, come
invece fa il trattino nella sua specifica maniera ipocrita. Tamburri ritiene,
giustamente, che il trattino di fatto «castri» uno o ambedue i termini, mentre
la barra crea un confronto attivo che mantiene vibrante il significato dei
termini sia individualmente che congiuntamente.
*
Per ogni gruppo di artisti etnici, la battaglia che
vale la pena di combattere è quella per il diritto di produrre con i propri
mezzi di produzione un corpus di opere artistiche e teoriche in tale abbondanza
che il loro senso di etnicità non possa più essere
confinato dalla cultura di moda a questioni di «contenuto appropriato». Ciò che
ogni individuo ed ogni collettivo deve cercare di raggiungere è l’espressione
di un complesso spirito di differenza piena di dignità.
Che cos’è la grandezza? È l’emozione suscitata da
qualunque oggetto che, anche per un solo istante, cattura l’atto dell’oggetto
in sè mentre supera se stesso, passivamente o attivamente e, così facendo,
diventa il contenitore di ciò che illumina lo Spirito dell’Essere, qualunque
cosa esso sia. E non c’è nulla di più grande che notare un oggetto, fatto
dall’uomo o no, che rifiuta di arginare questo straripamento di espressione
entro i limiti di qualsiasi preconcetta ipotesi di «grandezza» accettata da
scienziati o da stolti.
Ovviamente, alcune istanze politiche verranno sollevate dall’inizio alla fine di questo libro,
come è tipico di tutti gli scritti che trattano di realtà ipotetiche. Ma non ci
sarà mai una discussione politica fine a se stessa. Il principale obiettivo qui
è investigare i ruoli fondamentali che la cultura e l’identità rivestono o
rivestiranno nella società di oggi e di domani, e come i ruoli possano aiutare
ciascuno di noi ad acquisire significato come persone. Una battaglia contro i
mulini a vento, questa impresa? Può darsi. «Ma», come il Signore de La Mancha
di Cervantes ci ricorda: «non v’è cosa più folle che vedere la vita com’è e non
come dovrebbe essere».
I’m tired of
being told to Sono stanca di
sentirmi dire di
shut up and assimilate star
zitta e assimilarmi.
I’m tired of
being stirred around Sono stanca di
essere rimestata
in a melting pot as though in un crogiolo come se
I’m not a
human being, non
fossi un essere umano,
but a plum tomato. ma un pomodoro napoletano.
Rose
Romano
Vendetta
____________________________________________________________________________________
(1) Camille Paglia, Sex, Art, and American Culture (New York: Vintage Books, 1992),
pag.29.
(2) Anthony J. Tamburri, To
Hyphenate Or Not to Hyphenate: The Italian/American Writer: An Other American
(Montreal: Guernica Editions,
1991).
*Antonio D’Alfonso è nato a Montréal il 6 agosto 1953. Ha studiato
dal 1970 al 1975 a Loyola College, dove ha conseguito la laurea B.A. in Arte della
Comunicatione. In seguito ha frequentato l’Università di Montréal e conseguito
la laurea Master’s Science Degree negli Studi della Comunicazione,
specializzandosi in Semiologia con una tesi sul film Mouscette di Robert
Bresson. Nel 1978 ha fondato la Casa Editrice Guernica Editions, dove sono
stati pubblicati oltre trecento libri di autori da tutte le parti del mondo.
Autore egli stesso, ha pubblicato una serie di libri propri in francese ed
inglese. Egli ha pure contribuito con diversi scritti di critica letteraria in
diverse riviste attraverso il Canada, sia in inglese che in francese. Inoltre
ha prodotto tre cortometraggi e ha collaborato alla ripresa e al montaggio di
altri film. Ha tenuto frequenti conferenze su temi di letteratura, cinema e
multiculturalismo in Canada, Stati Uniti ed Europa. Nel 1982 insieme ad altri tre scrittori ha fondato la rivista trilingue Vice
Versa. Nel 1986 insieme ad altri tre scrittori ha
fondato l’Associazione di scrittori Italo-Canadesi. A partire dagli anni ’80 ha
scritto e pubblicato/tenuto centinaia di articoli/conferenze attraverso il
mondo in difesa della sua idea della Cultura Italica, di una Comunità di gente
Italica. Nel 2002 la sua raccolta di poesie Comment ça se passe / Come va è
stata finalista al premio Trillium Award, premio che ha poi vinto nel 2005 con
la sua opera Un vendredi du mois d’août.
Egli è membro del Consiglio di Redazione della rivista di lingua francese Virages.
Egli vive a Toronto.
L’autre rivage (1987): finalista al premio
Prix Émile Nelligan.
1998: L’apostrophe qui me scinde:
finalista al premio Prix Saint Sulpice.
2000: Fabrizio’s Passion: vincitore
del premio Bressani Award.
2002: Comment ça se passe: finalista
al premio Trillium Award.
2003: La passione di Fabrizio
vincitore del premio internazionale Emigrazione in Italia.
2005: Un vendredi du mois d’août,
vincitore del Trillium Award. (27 Avril 2005)
La chanson du shaman à Sedna (poems, self-published, 1973)
Queror (poems, Guernica Editions,
1979) 2-89135-000-6
Black Tongue (poems, Guernica
Editions, 1983) 0-919349-07-2
Quêtes: Textes d’auteurs italo-québécois
(anthology, avec Fulvio Caccia, Guernica Editions, 1983)
2-89135-006-5
Voix off: Textes de dix poètes
anglophones au Québec (anthology, Guernica Editions, 1985) 2-89135-009-X
The Clarity of Voices by Philippe
Haeck (prose poems, translator, Guernica Editions, 1985) 0-919349-56-0
The Other Shore (prose and poems,
Guernica Editions, 1986, 1988) 0-919349-66-8/0-920717-32-2
L’autre rivage (prose and poems,
translation of The Other Shore, VLB éditeur, 1987) 2-89005-248-6 Finaliste du
Prix Emile-Nelliagn.
L’Amour panique (prose poems, Lèvres
Urbaines, 1988) ISSN 0823-5112
Avril ou L’anti-passion (novel, VLB
éditeur, 1990) 2-89005-405-5
Julia (long prose poem, L’édition du
Silence, 1992) 2-920180-25-8
Panick Love (prose poems, translation
of L’Amour panique, Guernica
Editions, 1992) 0-920717-63-2
Fabrizio’s Passion (novel, Guernica,
1995) 1-55071-023-0
In Italics: In Defense of Ethnicity (essays, Guernica, 1996)
1-55071-016-8
Il volume sarà
presto pubblicato in Italia, col titolo:
Cursivi italici, presso Cosmo Iannone Editore, Isernia.
The Films of Jacques Tati (by Michel Chion, translation, Guernica, 1997).
L’apostrophe qui me scinde (Le Noroît, 1998). 2-89018-398-X.
Finaliste du Prix Saint Sulpice.
Duologue: On Culture and Identity
(with Pasquale Verdicchio) (Guernica, 1998). 1-55071-072-9
L’autre rivage (Le Noroît, 1999)
2-89018-438-2
En Italiques: Réflexions sur l’ethnicité
(essais, Balzac, 2000).2-921468-21-2
La paysage qui bouge (translator of
the poems by Pasquale Verdicchio, Le Noroît, 2000) 2-89018-435-8
Fabrizio’s Passion (Guernica, 2000)
1-55071-082-6. The Bressani Award 2002.
Comment ça se passe (Le Noroît,
2001). Finaliste du Prix Trillium.
La passione di Fabrizio. (Traduit par
Antonello Iannone Editore. Italia: Isernia, 2002.) The Premio internzaionale
Emigrazione, 2003.
Getting on with Politics (Exile Editions, 2002.)
On Order and Things (by Stefan
Psenak, translator, Guernica, 2003)
Dreaming Our Space (by Marguerite
Andersen, translator, Guernica, 2003)
Antigone (Lyricalmyrical Editions,
2004)
Bruco (Lyricalmyrical Editions, 2005)
En Italiques: Réflexions sur l’ethnicité
(essais, L’Interligne, 2005).
Gambling with Failure (Exile, 2005)
Un homme de trop (Noroît, 2005)
One Friday in the Month of August
(Exile, 2005)
The Blueness of Light )(by Louise
Dupré, translator, Guernica, 2005)
L’Ampoule brûlée (short
16mm, black and white, 1973)
La Coupe de Circé (short 16mm, black
and white, 1974)
Pour t’aimer (one-half hour 16mm
black and white, 1982-1987)
The Minotaur (one-hour film project,
1992)
Antigone (feature film project)
Consent (unproduced screenplay
co-written with Jennifer Dale, Feature film, funded in part by Telefilm).
My Trip to
Bruco (feature, video, 90 minutes,
2005)
Night Talks (1997, CD 50:49 minutes)
Songs, with Dominic Mancuso.
Passione e po’ di vino (poetry and music, 2001)
Antonio D'Alfonso's Official Website. (http://www.antonio-dalfonso.com/
)
Guernica Editions (http://www.guernicaeditions.com/
)
"Fabrizio's
Confusion" by Licia Canton. (http://www.athabascau.ca/writers/fabrizio.html
)
Global Baroque: Antonio D’Alfonso’s
Fabrizio’s Passion by Lianne Moyes (http://www.athabascau.ca/writers/barocque.html
)
LETTERATURA CANADESE E ALTRE CULTURE