Per favore non chiedetemi di scrivere
Bruce Henry
Sono in una brutta
situazione: la cosa risale alla mia infanzia. Il fatto di scrivere qualcosa di
diverso da una lettera, o un resoconto, o un discorso per un’altra persona, mi
fa star male. Ho fatto queste cose, ne ho fatto persino il mio modo di
guadagnarmi la vita, ma esprimere me stesso in modo coerente, piacevole, mi fa
sentire come se dovessi attivare muscoli e legamenti rimasti in letargo così a
lungo che si sono calcificati, induriti come cicatrici. Sospetto che non
fossero fatti per essere usati, come l’appendice.
Di fronte al linguaggio
mi sento insicuro: Mi piace l’espressione “avido lettore”, mi si confà. Sono
grato a mia madre per avermi fatto cominciare a leggere presto, e ad ambedue i
genitori per aver formato in me l’abitudine di leggere, per tutta la vita.
Conosco la grammatica. Il mio insegnante delle superiori, il signor Blandford,
ci fece capire – apparentemente senza sforzo – le proposizioni incidentali, e
come fare l’analisi logica delle frasi,
oltre a farci imparare vocaboli come “verbo copula”.
Tuttavia, l’approccio
alla letteratura fatto a scuola e al college mi convinse che sono difettoso: mi
condizionarono a credere che nessuna opera di poesia, di narrativa, di
saggistica, di teatro di un certo valore sia accessibile direttamente. C’è
bisogno di una autorità che la spieghi. Oh, si poteva leggere un libro da soli,
o perdersi nei fumetti preferiti. Si poteva restare ipnotizzati nel leggere a
se stessi le rime e il ritmo di una poesia come L’altalena di Robert Louis Stevenson: “Cosa mi piace nell’andare in
altalena/ su nel cielo così blu?/ oh, penso sia la cosa più bella/ per un bimbo
andar su e giù …” Non era il modo in cui si parlava, ma era piacevole da pronunciare,
e la si poteva capire senza intermediari. Da un lato fare esperimenti con il
linguaggio era divertente e, dall’altro, era l’attività avventurosa e
leggermente pericolosa del trovare delle rime giocando gli uni con gli altri.
Ma questo non era letteratura. Non era la cosa autentica, di cui si poteva fare
esperienza soltanto in una situazione educativa, con intermediari estremamente
preparati che facevano in modo che la si capisse.
Il tipo di scritti che
ho prodotto – pubbliche relazioni, discorsi, resoconti – sarebbe giudicato dal
mio professore di letteratura lavoro da scribacchino. Stantìo, giornalistico,
frettoloso. Penso che la maggior parte di ciò che ho letto crescendo appartenga
a questa categoria. La loro principale caratteristica è che li si pensa tali da
poter essere digeriti dai non iniziati, come il cibo per lattanti. Così forte era il senso della
gerarchia, così arcano il materiale che richiedeva capacità che io pensavo non
avrei mai posseduto, così complesso e ingigantito l’accedervi, da farmi sentire
colpevole e senza valore nello scrivere ciò che scrivevo. Mi sono sentito
tuttavia fortunato per essere capace di funzionare pur a un livello così basso
della scala dello Scrivere.
I dilemmi della
comunicazione verbale sorsero prima che la letteratura – e lo studiarla –
entrassero nella mia vita. L’estate dopo la scuola materna la mia famiglia
partì per una vacanza, e fu allora che il rapporto tra me e il linguaggio subì un attacco maggiore. Fino
a quel momento si era trattato di assorbire intuitivamente il modo di parlare
di mia madre o di qualcun altro. In
quella occasione tutto sembrò crollare. Un confronto con una incrinatura: è
questa l’immagine che mi viene in mente. Non so perché, sto cercando di
capirlo, ed è come se in me il linguaggio assomigliasse a un iceberg. La parte
emersa era il linguaggio che adoperavo, che si udiva quando parlavo, o si
vedeva se scrivevo qualcosa, benché a quell’età avrei scritto in stampatello,
con una matita, perché le penne erano proibte, cose da adulti.
Questo perché la penna
biro era appena apparsa sul mercato; non era considerata strumento legale per
firmare un assegno. Si cominciava a usare la penna con il pennino che si
intingeva nell’inchiostro tra la quarta e la quinta elementare. Quando si
poteva assumerne la responsabilità si poteva ricevere in regalo una bella penna
stilografica. Strumenti per scrivere con la punta di feltro e Bic da gettare
erano un barlume su un lontano orizzonte. Sono passati molti anni da quando ho
scritto con una penna che usava inchiostro “vero”, come avevo imparato, e a
volte penso che sarebbe stato meglio se avessi tenuto la buona penna
stilografica, sempre piena. Avrei dovuto portare con me carta assorbente da
premere con cura sull’ inchiostro per farlo asciugare dopo aver scritto
qualcosa. Immagino avrei dovuto portare con me un astuccio con il necessario
per scrivere, troppo grande per una tasca, che forse avrebbe richiesto un
contenitore speciale con una cinghia per appenderlo al collo o a una spalla.
Non sarebbe stato più d’impiccio che portare in giro un telefonino. Penso che
potrei trovare una borsa con tasche per la penna e per la bottiglietta
d’inchiostro, o per le cartucce. (Le cartucce erano contenitori sigillati con
lo stesso inchiostro di quello delle penne stilografiche e delle bottigliette.
Apparvero sul mercato quando ero ancora alla scuola elementare. Rappresentarono
un progresso perché sporcavano meno e le cartucce vuote si potevano gettare. La
prima penna stilografica di mia sorella era una penna a cartucce, ma lei era la
preferita).
Regalare una penna
stilografica era una occasione per i genitori di insegnare come una cosa
funzioni e come averne cura, e la necessità di farlo se si voleva che
continuasse a funzionare. Ci insegnarono che avrebbe funzionato per sempre, non
era previsto che cadesse in disuso. Imparammo come ripulirla, e come proteggere
il pennino di grande valore. I genitori possedevano l’autorità del sapere, e la
condividevano con i figli sull’argomento dello scrivere.
La vacanza, circa cinque
anni prima dell’epoca delle penne stilografiche, portò una nuova realtà nella
mia povera giovane testa. Il processo dell’apprendimento del linguaggio mi
sembra tanto ricco quanto la vita stessa, e so che i filosofi dubitano che ci
sia alcun pensiero in mancanza del linguaggio, così siamo ora sul terreno della
mente, del suo risvegliarsi e svilupparsi. Ha a che vedere con i nomi. Stavamo
“andando in vacanza”, “andando in un luogo di soggiorno estivo”. Io sapevo
leggere; avevo un nome, mia sorella aveva un nome: Judy. Il nome della mamma
era Mamma, quello di papà era Papà, quello della nonna era Nonna, e così via.
La mamma chiamava papà “Alex” e lui la chiamava “Mildred”, ma questo andava
bene perché era cominciato prima che io mi rendessi conto delle cose. Abitavamo
a Toronto, benché io sia nato sul Mount Royal di Montreal, nel padiglione
femminile dell’ospedale Royal Victoria, che penso suoni come essere nato in una
poesia. C’era un tunnel sotto la montagna per andare a casa nostra nella
municipalità di Mount Royal.
Mia madre era la più
giovane di sei figli e i suoi genitori, già sulla quarantina quando lei era
nata, morirono prima che io entrassi in scena. Nonna e Papà Jim erano i
genitori di mio padre. Mia mamma e mio papà avevano traslocato a Montreal da
Toronto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale a causa del lavoro di mio
padre in una ditta che si trasformò in una industria bellica con l’inizio delle
ostilità. Mi presero a Montreal (sono figlio adottivo) e poi procrearono qui
mia sorella. Traslocammo a Toronto quando avevo quattro anni, un paio di anni
dopo la fine della guerra. La maggior parte dei membri delle famiglie dei miei
genitori abitava a Toronto, e per noi essere là significò socializzare con
loro, specialmente con la famiglia di mio padre.
Vacanza familiare. Un
villino. Mamma, che cosa significa “villino”?, probabilmente avrò domandato. Si
trovava a Meaford. È “un” Meaford? Meaford è sulla Georgian Bay. Mi resi conto
alla fine che il villino apparteneva a zio George, il fratello maggiore di mio
padre, e a zia Rita.
Quando arrivammo, Nonna
e Papà Jim erano già là, così come zia Jean. E anche zio Bill, il fratello
vedovo di Nonna. Abitava a Toronto, in fondo alla strada dove abitava Nonna,
insieme a zia Georgie, la loro sorella. Come si diceva allora, zia Georgie
teneva casa per zio Bill. Zia Georgie era al villino; era la matriarca.
Immagino fosse lo stadio
della mia consapevolezza, o l’atmosfera emotiva che fluiva da mia madre che
stava uscendo dalla macchina per far fronte a tre generazioni di Henry. Ero
eccitato: luce, sole, acqua, novità, stranezza. La nube
mai-troppo-lontana-dalla-supeficie di mia madre era sospesa su tutto questo,
creando un’atmosfera emotiva che mi faceva pensare allo stridìo di un’unghia
sulla superficie di una lavagna, o al rumore della gamba di una sedia di
metallo trascinata su un piano di cemento.
Come prime impressioni
ricordo sole, un prato brunastro, gerani, non molta vegetazione, e pochi
edifici bianchi. Il villino principale era dall’altra parte della strada da
dove avevamo parcheggiato, e davanti a noi c’era una specie di edificio
secondario, una bianca struttura a tre piani dove noi avremmo abitato. Qualcuno
lo disse mentre ci salutavano. Probabilmente zia Rita, sempre di natura
amabile.
L’edificio in cui dovevamo
dormire aveva un nome: “Starete a Roseneath”, disse qualcuno. Sembrava parte
dello stesso linguaggio in cui mi sentivo già sicuro, ma immagino non sapessi
che della gente può abitare o dormire in qualcosa con un nome diverso da
“casa”, o “viale Van Dusen n. 44”. Nostra madre ci aveva fatto imparare a
memoria il nostro indirizzo e il numero di telefono: Murray 2-0-7-3. Ma un
“Roseneath”? Ero confuso, perché non capivo come si potesse “abitare in un
Roseneath” quando ciò che vedevo davanti a me era un edificio bianco. E
“Roseneath” non era neanche una parola, per quanto ne sapevo. Era un vocabolo
straniero, ma io sapevo che cosa fosse uno straniero perché un sacco di gente
stava immigrando in Canada in quel periodo, in conseguenza della seconda guerra
mondiale, e veniva ad abitare nel nostro quartiere. Non avevo una categoria per
questo. Forse mi faceva sentire stupido. Tutti lo usavano come se fosse una
cosa normale, così non era “straniero”. Penso che nostra madre emanasse segnali
di pericolo in direzione dei suoi due figli: Roseneath doveva essere di livello
inferiore. Mi sembra di ricordare che dicesse “trappola in caso d’incendio”,
cosa che un bambino capisce facilmente.
Nel villino Meaford
Trappola-in-caso-di-incendio scoprii qualche cos’altro. La cugina Barbara,
tredici anni più di me, aveva la stessa nonna che io e mia sorella avevamo, ma
per lei la nonna non era Nonna, era Nana. Barbara si chiamava Barbara Ann come
la grande pattinatrice che aveva portato medaglie al Canada nelle Olimpiadi
invernali del periodo in cui lei era nata. Ma non solo lei chiamava la nonna
Nana, per la qual cosa temevo che io sarei stato punito, chiamava anche mio
papà “zio Alex” quando ci serviva la colazione, dato che lavorava al villino.
Era come se lei possedesse un pezzo di mio padre.
Quando mi vengono in
mente queste e altre invasioni di linguaggio-e-realtà nella mia anima
tenerella, mi sento abbattuto. Mi arrendo. Temo che non capirò mai. Il
linguaggio mi fluirà via per sempre di tra le dita Stavo scoprendo che il linguaggio era più
grande di me e che io non ero così degno di fiducia come credevo, e non
importava quanto potessi contarci. Sento allo stesso modo anche oggi. Come
posso pretendere di lavorare con
qualcosa come questo? Sarebbe come lavorare con cemento fresco che non si
asciuga mai e che cambia forma mentre dormi.
(traduzione di Elettra Bedon)
Bruce Henry lavora a Montreal come archivista,
curatore letterario part-time e traduttore.
Please Don't Ask Me to Write*
by
Bruce Henry
I'm in a bad position. It goes back
to childhood. The act of writing anything other than a letter or report or a
speech for another person to give, hurts. I've done these things, even made a
living at them, but expressing my Self in a coherent, pleasing way feels like
trying to activate muscles and ligaments that have lain dormant for so long
they have calcified and become scar tissue. I suspect they were not meant to be
used, like the appendix.
My footing in language is insecure. I
like the term "avid reader," and it applies. I am grateful to my
mother for getting me started reading early and to both parents for modeling
life-long reading habits. I know grammar. My grade 6, 7 and 8 teacher, Mr.
Blandford, with apparent effortlessness got us to understand clauses and parse
sentences and learn terms like "copula verb."
However, the approach to literature
in school and college had the effect of convincing me that I am defective: no
worthwhile poetry, fiction, non-fiction, or drama, I was conditioned to
believe, was directly accessible. You needed an authority to explain it. Oh,
you might read a book on your own or get lost in your favourite Classic Comic.
You might be mesmerized by reading to yourself the rhyme and rhythm of a poem
like Robert Louis Stevenson's "The Swing": (How do you like to go up
in a swing,/Up in the air so blue?/Oh, I do think it the pleasantest thing/Ever
a child can do!) This wasn't how we talked, but it was enticing to get your
tongue around it, and it could be understood without an intermediary. It was
fun to experience language, on the one hand, and, on the other, the
adventurous, slightly dangerous activity of swinging playing with each other.
But these were not literature. They were not the real thing. You could only
experience that in an educational setting with highly trained intermediaries
who made sure that you got it.
The types of writing I have
done—public relations, speeches, reports—were termed hack-work by my literature
professors. Potted, journalese, hasty. I think most of what I read growing up
was in that category. The salient characteristic is that it is designed to be
easy to digest by non-initiates, like baby food. So strong was the sense of
hierarchy, so arcane the material, requiring keys I did not think I would ever
possess, so complex and magnified the access, that I have felt guilty and
worthless for doing that sort of writing. Nonetheless, I have felt lucky to be
able to function on so low a rung of the Writing ladder.
Verbal communication dilemmas arose
long before literature and its study came into my life. The summer after
kindergarten, my family went on a summer vacation and a big assault on
me-and-language took place. Up to now it had been a question of intuitively
absorbing a speech habit from my mother or someone else. Now there was a ravagement. It was a confrontation with a fissure; that is
the image that comes into my imagination. I can't say why, but I am trying to
understand this and it is as though language-in-me was comparable to an
iceberg. The part that's exposed is the language I used, that you would have
heard when I spoke, or seen if I wrote you a note, although at that age I would
have printed in large letters, with a pencil, for pens were still forbidden,
adult territory.
That was because the ball-point had
barely come into existence. It was not considered a legal instrument for
signing a cheque. You only started using nib,
straight pens that were dipped into an ink well around Grade 4 or 5. When you
could handle the responsibility, you would receive a beautiful fountain pen as
a present. Felt-tipped writing instruments and disposable Bics
were a gleam on a distant horizon. It has been many years since I wrote with a
pen that used "real" ink, the way I first learned, and sometimes I
think it would be better if I got just the right fountain pen and kept it full.
I would need to carry blotting paper as well to carefully press over the ink to
dry it after I wrote something. I guess I would need to carry a writing kit,
too big for a pocket, perhaps requiring a special container with a neck or
shoulder strap. That wouldn't be any more trouble that carting a mobile phone
around. I think I could find a case with pouches for a pen and perhaps one for
an ink bottle or cartridges. (Cartridges were sealed containers of the same ink
used in fountain pens and ink wells. They came on the market while I was still
in elementary school. They represented progress because they were less messy
and the empty cartridge was disposable. My sister's first fountain pen was a
cartridge pen, but she was the favourite.)
Receiving a fountain pen was an
occasion for the parents to teach how things work and how to look after them,
and the necessity of looking after them if you wanted them to keep working. We
were taught that they would work indefinitely, no planned obsolescence. We
learned how to wash them, and how to protect the very valuable nib. The parents
had the authority of knowledge and shared it intimately with the children in
this writing situation.
The vacation, about five years
pre-fountain pen, drove a new reality into my poor young head. The process of
learning language seems to me as rich as life itself, and I know philosophers
doubt whether there is any thought without language, so we are in the territory
of mind here, its awakening and development. It has to do with names. We were
"going on holidays," "going to a summer resort." I was able
to read. I had a name, my sister had a name, Judy.
Mommy's name was Mommy, Daddy's was Daddy, Gramma's
was Gramma, and so forth. Mommy called Daddy
"Alex," and he called her "Mildred," but that was okay
because it started before I was conscious of anything. We lived in
My mother was the youngest of six
children, and her parents, already in their forties when she was born, were
dead before I came on the scene. Gramma and Papa Jim
were my father's parents. My mom and dad had moved to
It's a family vacation. It's to a
lodge. "Mommy, what does "lodge" mean?" I probably asked.
It is in Meaford. Is it "a" Meaford? Meaford is on
When we arrive, Gramma
and Papa Jim are there, as well as Auntie Jean. So is Uncle Bill, Gramma's widowed brother. He lived in
I guess it was the stage of my
consciousness, or the emotional atmosphere oozing from my mother, who was
getting out of the car to face three generations of Henry's. I was excited:
light, sun, water, novelty, strangeness. My mother's never-far-from-the-surface
cloud hung over it all, giving it emotional undertones that make me think of a
fingernail scraping down a blackboard, or the feet of a metal chair being
dragged across a cement floor.
As first impressions I remember sun,
brown lawn, geraniums, not much greenery, and a few white buildings. The main
lodge was across the way from where we parked, and in front of us was a kind of
annex, a three-storey white frame building where we are to stay. Someone points
this out as they greet us. Probably Auntie Rita, forever
sweet-natured.
The building we were to sleep in had
a word: "You're staying in Roseneath," the
person said. It sounded like part of the same language I was already entrenched
in, but I guess I didn't know people could stay or sleep in something with a
name, other than "house" or "
In Firetrap Roseneath
Meaford lodge I discovered something else. Cousin
Barbara, thirteen years older, had the same grandmother as my sister and I, but
for her, Gramma wasn't Gramma,
she was Nana. Barbara was named Barbara Ann, after the figure skater Barbara
Ann Scott who had brought laurels to
As I recall these and other
language-and-reality invasions of my tender soul, I droop. I surrender. I fear
I'll never get it. Language will forever ooze out between my fingers. I was
discovering that language is bigger than I am and not as reliable as I
believed, no matter how much you may depend on it. I feel that way to this day.
How can I stake a claim to work in something like that? It would be like
working in wet cement that never dries and falls out of shape when you sleep.
*First appeared in Carte Blanche 7, the literary review of the Quebec Writers’
Federation.
Bruce Henry works as an archivist and
part-time literary editor and translator in