Papà mi
tiene in braccio, una mano sullo stomaco, il pollice aperto come un punto di
pressione che concentra l’abbraccio.
Forse le mie gambe sono intorno alla sua vita, o le mie ginocchia affondano
in lui. La foto non lo dice e ogni volta che tengo in braccio mia nipote, Ava,
noto le sue gambe da cherubino contro il mio corpo.
Appoggia la fronte contro i miei capelli, un viso la miniatura dell’altro;
è di aspetto bello, sembra qualcuno uscito da un film di Visconti o di
Antonioni, il suo viso la replica di antichi busti del museo Capitolino di
Roma. Un rapido sguardo all’indietro agli uomini di cui sono stata innamorata
mi fa pensare con sorpresa: non ho mai conosciuto qualcuno di simile bellezza.
Esistono ancora uomini così? In Canada?
I suoi occhi scuri e penetranti, che fanno pensare a un pericolo ignoto,
guardano dritto in avanti, mentre il mio sguardo non è rivolto alla macchina
fotografica. Le mie labbra sono contratte; il suo sorriso rivela spazi vuoti
tra i denti. Avevo
dimenticato questi spazi vuoti.
Non ce la faccio a guardare a lungo il
suo viso, specialmente quegli occhi, così il mio sguardo vaga verso la sua mano
destra. Le dita arrotondate sono molli e rilassate come se fossero senza peso.
Le cuticole ombreggiate sembrano sporche come se fosse stato a lavorare nel
garage con i fratelli. Ma allora non doveva esserci alcun garage, solo il
negozio di fiori. Il dito indice è sospeso sul medio, dove avrebbe dovuto
esserci una sigaretta. Il mio braccio sinistro è avvinto goffamente al suo
collo, come se stessi per cadere dalle sue braccia.
Ho due cerchietti per orecchini, e un vestito bianco con le maniche a
sbuffo. La sua camicia è … blu, marrone? I miei capelli sono corti, riccioli
ribelli che si espandono verso i bordi dell’immagine. Il suo viso è ripreso
proprio dall’inizio dei capelli e dell’orecchio sinistro, le sue mani sono la base della fotografia.
La
foto sgualcita, in bianco e nero, presa a Montreal in una cabina per foto
istantanee nel 1969 quando avevo due anni, mi sta in tasca. Non ho immagini
precedenti di mio padre e me. Ero appena tornata dalla Sicilia dove avevo
passato buona parte dei miei due anni affidata ai nonni paterni, perché mamma e
papà erano sopraffatti da quanto c’era da fare per aprire il negozio di fiori,
e c’era un altro bambino in arrivo. Ho imparato a parlare in Sicilia, a
camminare in Sicilia. Ho imparato ad amare in Sicilia.
Non riconobbi i
miei genitori quando fummo riuniti, mi hanno detto. Ho pianto per mesi i miei
nonni, mi hanno detto. L’occasione della foto servì da momentanea distrazione,
mi hanno detto.
Gli
inizi del rapporto con mio padre, così
come esiste in forma concreta, qualcosa che posso vedere e toccare adesso,
quando così tanto del resto è svanito, sono contenuti in questi pochi
centimetri quadrati.
II
Papà è morto di un attacco cardiaco il 3 giugno 1998.
Mamma lo trovò nel giardino dietro casa, vicino alle pianticelle di verdura che
avevano appena comprato al Mercato Jean Talon.
In quieta solitudine, dopo pranzo se ne era andato vicino al prezzemolo ancora
nei vasetti di plastica, gli spuntoni di lattuga dalle foglie rosse arricciate
nei contenitori, i pomodorini non ancora maturi, le melanzane non ancora
arrotondate. Il basilico, portato al riparo in inverno, cominciava già a
profumare in una botte che era stata segata a metà.
Mi piace pensare che l’ultima cosa che vide è stata mamma, attraverso la finestra della cucina,
le tendine di pizzo tirate indietro per rivelare il suo viso concentrato sui
piatti.
Tre mesi prima del suo sessantesimo compleanno; papà cominciava a passare
la direzione del negozio di fiori, uno dei più grandi di Montreal, a mio
fratello. Questo ultimo dettaglio – mio padre era un siciliano purosangue che
aveva lavorato come un cane porca miseria come un cane sin dall’infanzia
– ci ha resi inconsolabili, porca miseria.
I miei ricordi della veglia funebre
sono confusi. Ricordo i fiori, cinquantanove orchidee Cattleya spedite per
aereo da Vancouver che ricadevano fino ai piedi della cassa da morto, un CARO
PAPA’ incorniciato di raso blu e con uno sprazzo di pom pom arancione in alto,
tutto intorno gigli rossi, piante tropicali, uccelli del paradiso, calle,
zenzero, gladioli, crisantemi. Dal lato opposto della bara, all’altro estremo
del salone, una magnifica ghirlanda di duecento rose rosse si innalzava nella
stanza. Era difficile respirare tra le centinaia di persone venute a porgere le
condoglianze, strette di mano, baci, condoglianze, bbeddamatri,
bbedda-matri, condoglianze, segni di croce, abbracciare, agguantare,
ghermire, abbrancare – agguantareagguantareagguantare; la mancanza d’aria, il
loro fiato, e l’odore dei fiori un miscuglio da far star male. La sorella di
papà, zia Carmela, venuta in volo dalla Sicilia, era ipnotizzata da tutte
quelle facce del suo passato, così tanti vecchi Giancaxiesi con i quali era
cresciuta; intonò un lamento in dialetto siciliano che, otto anni dopo, ancora
rieccheggia: u munnu unu paisi, il mondo un paese, il mondo un villaggio,
ilmondounvillaggio.
Il mio sguardo passava da papà nella bara aperta alla ghirlanda di rose di
un rosso ridondante, e poi indietro: papà, le rose rosse, papà, le rose rosse,
la ghirlanda, il mio cuore.
In
mezzo alla cantilena del Rosario coglievo delle storie, storie senza fine in
cantilena, mormorii, lamenti, gemiti, sospiri, come un far parlare il defunto.
“Non riuscivo a fargli usare il portacenere” diceva la figlia di
Sebastiano, Sandra. Mio padre prendeva il suo espresso e un cornetto
all’albicocca ogni mattina nella loro Pasticceria San Marco, in fondo
all’isolato dov’è il negozio di fiori San Remo, sulla Jean Talon Est.
Sebastiano era morto due anni prima.
“Era là tutte le mattine, nervoso, una sigaretta dopo l’altra, e non
riuscivo a fargli usare il portacenere. Così lasciava tracce del suo passaggio
ovunque”, diceva Sandra, che ha la mia età. Ci sono bruciature su tutto il
bancone dove “aveva dimenticato la sigaretta ancora accesa”.
L’uomo di queste storie non mi era
familiare. C’era stata una tale tensione tra noi, non potevamo parlare. Con
quest’altro uomo avrei potuto parlare – un uomo cui piaceva la musica reggae e
di Haiti (trovammo le cassette nella sua vecchia Buick) e che qualche volta
andava al museo o a vedere i filmi americani da solo, un uomo che negli
affari era diventato amico di gente non italiana mentre altri, compresi i suoi
fratelli, erano più legati alle radici insulari – c’era stato Williams, l’uomo
di colore che gli aveva dato quelle cassette, e molti ebrei, che lo avevano
aiutato a cominciare su Queen Mary, specialmente Sam, un grossista, quello che
aveva mandato la ghirlanda e aveva fatto
arrivare in volo le orchidee Cattleya. Era l’uomo che, da ragazzino, era
scappato dal seminario di Sciacca e aveva camminato fino a casa a Ioppolo
Giancaxio (Agrigento); l’uomo la cui delicata arte floreale stonava con la sua
generale rudezza; l’uomo che era essenzialmente un solitario e la cui
indipendenza aveva rappresentato una ferita profonda nella sua vita familiare.
Mio fratello Angelo racconta questa storia: “Qualche giorno prima della
festa della mamma, in una delle settimane più piene dell’anno, potevamo
arricchirci o essere rovinati, migliaia di fiori in magazzino … il frigorifero
principale si rompe! Madonna, che pasticcio, mamma si comporta in modo
irrazionale, ‘O Diò, perderemo tutto’. Papà urla con tutti. Ben, che si occupa
dei frigoriferi, è in vacanza. Papà, disperato, manda a chiamare qualcuno che è
sulle Pagine gialle.
‘C’è un grosso problema con il compressore’, dice il tizio. Posso
ripararlo, sostituire questo pezzetto qui, ma costerà caro. Paga in contanti e
…’
‘Pensa a ripararlo’, dice papà.
Una settimana dopo il frigorifero smette di nuovo di funzionare. Sapete già
quello che succede: mamma si comporta in modo irrazionale, papà urla a tutti …
Ben aggiusta il frigorifero, niente di grave, un tubicino del sistema di
scarico si era allentato. Papà gli chiede di guardare il compressore. ‘Non ci
vedo niente di diverso. Probabilmente l’altra volta era la stessa cosa, questo
tubicino’. Ben dovrebbe saperlo, è lui che ha installato l’originale.
Papà diventa estremamente calmo,
sapete che quando diventava così calmo faceva quasi paura?
Naturalmente il tizio viene subito. Papà lo porta
nella stanza d’ingresso al piano di sotto, chiude la porta, dice con grande
calma: ‘L’ultima volta mi hai fregato, mi hai fregato sul serio. Voglio che pensi
a quello che mi hai fatto’.
Papà lo chiude dentro, aspetta esattamente per
sessanta minuti. Ritorna nella stanza, dà un telefono al tizio delle Pagine
gialle: ‘puoi fare una telefonata’. Il tizio è terrorizzato.
Papà appariva sempre un po’ disordinato, con i
peli del naso che mamma cercava di tagliare appena possibile. Le sue dita erano
macchiate e sfregiate in permanenza per aver maneggiato fiori e piante per
oltre trent’anni.
Il tizio fa la telefonata e papà lo chiude dentro
di nuovo. Venti minuti dopo appare un altro tizio con una busta piena di
biglietti di banca.
Papà non ha mai alzato un dito su nessuno, ma ha
avuto indietro i suoi soldi”.
Un tale uomo di mondo, un vero uomo, in completo
contrasto con l’altro uomo che avevo conosciuto, il cui pianto lamentoso per la
morte della madre avevo risentito come una sofferenza costante …
III
Era il 1995, in Sicilia.
Mio padre e io eravamo entrati in ospedale con suo fratello Carmelo, un
dottore, il solo professionista della famiglia. La nonna era collegata a
diversi macchinari. Stavamo dietro un divisorio di vetro ed era come se
l’Atlantico ci separasse ancora. Mio padre, il primogenito di mia nonna, era
stato il primo dei suoi cinque figli ad andarsene, salpando da Napoli a
quattordici anni per raggiungere il padre che aveva appena conosciuto e che
lavorava in Canada.
Non
potevo guardarla direttamente in viso. Vedevo tubi, ciuffi di capelli,
biancheria, macchinari. Ma non potevo guardarla in viso, l’Atlantico era tra noi;
mio padre allungò una mano per toccarle il viso, ma il vetro rifletteva le sue
dita sui nostri volti.
Lei morì
qualche ora dopo. Aveva settantadue anni. Ero arrivata in Sicilia in volo, con
mio padre e i suoi fratelli, appena zio Carmelo aveva chiamato per dirci
dell’emorragia cerebrale.
Ci
spinsero via in fretta, in fretta, in una stanza senz’aria con il pavimento di
cemento. Lungo una parete un lavello, strumenti chirurgici. In mezzo alla
stanza un tavolo di marmo e un lavandino insanguinato.
Il dottore
e l’infermiera sistemarono il corpo della nonna sul marmo. Il nonno, mio padre,
e gli zii distolsero lo sguardo. Il dottore controllò le bende sul retro della
testa della nonna. Zia Carmela cominciò a lamentarsi; baciò la nonna, le
accarezzò il viso, le braccia, le ginocchia. Il nonno stava dietro la testa
della nonna, la baciò sulla fronte, sulle tempie, sulle guance, sulle labbra,
le accarezzò le guance. Zio Onofrio stava alla sua sinistra, le baciò la mano,
le lacrime gli cadevano sulle dita. Zio Giuseppe era alla sua destra. Zia
Carmela cercava di stirarle il vestito con le mani, e continuava, e continuava,
e continuava. Mio padre le accarezzava le gambe. Io stavo ai suoi piedi, vicino
al lavandino sporco.
Zio Carmelo
parlò con il dottore vicino alla porta a voce bassa, piano, piano. Due addetti
alla sicurezza portarono nella stanza una bara dove gli uomini misero
delicatamente la nonna. Zia
Carmela coprì il corpo con un bianco lenzuolo di lino, ricamato, stirato
perfettamente. L’addetto chiuse la bara e noi portammo via la nonna da
Agrigento a casa nostra, a Ioppolo Giancaxio, caro paese.
Gli
abitanti del villaggio vennero a rendere omaggio. La cassa da morto era in mezzo al soggiorno,
scoperta. Fiori coprivano il
corpo della nonna dalla vita in giù. Aveva una corona del rosario tra le mani,
la croce riposava sul ricamo del lenzuolo che le arrivava al petto. Le persiane
chiudevano fuori il resto del mondo. La famiglia era in piedi intorno alla
bara, dalla parte della testa. Gli ospiti stringevano la mano a tutti noi e
baciavano la nonna sulla fronte. Sembrava che tutto Giancaxio fosse lì. Il
sacerdote era in piedi dalla parte opposta; noi pregavamo.
Il nonno
accarezzava il viso della nonna, le tempie, le guance. Gridava: “Cinquantotto
anni, cinquantotto anni da quando ci siamo sposati! Avevi quindici anni, una
ragazza di quindici anni. Un mal di testa, hai detto di avere mal di testa. Hai
detto che era solo un mal di testa! Torna indietro, torna indietro, torna
indietro!” Sembrava uno di quei vecchi uomini avvizziti della serie di
fotografie di Giacomo Pirozzi La
Sicilia che scompare. Rigide e granulose immagini in bianco e nero di donne e uomini anziani,
affaticati, abbandonati, vestiti a lutto, alcuni sorridono rivelando larghi
spazi tra i denti cariati, donne incurvate con una peluria sul labbro, i
fazzoletti neri legati stretti sotto il mento, uomini rugosi con la coppola in
testa e la pipa, a cavallo dei loro muli.
Il flusso
dell’andirivieni era continuo, uno scambio costante di partecipanti al nostro
dolore diventato pubblico. Zia Carmela guidò lontano dalla bara il nonno che
singhiozzava, gli sistemò il berretto di lana sulla testa calva.
Mio
padre si lamentava: “Non avrei mai dovuto lasciarti, dovevo tornare qui quando
era ancora possibile. Non avrei mai dovuto lasciarti, mamma. Non ti ho neanche
conosciuta”. L’accarezzava teneramente,
piangendo come un bambino.
IV
Nel 2006 vendemmo la casa
di mattoni a due piani che papà aveva costruito. E nacque mia nipote Ava.
Più la
casa era vuota, più sentivo la presenza di mio padre. La camera matrimoniale
rimase immutata, salvo per un altarino di ricordi. Mamma aveva dormito al primo piano da quando papà
era morto. Mentre mettevo via
le cose della camera da letto mi ricordai di quello che lei mi aveva detto il
giorno del funerale: “Quando ci siamo sposati eravamo così giovani. Eravamo
cresciuti quasi senza padre. Così ciascuno di noi si aspettava che l’altro
fosse l’adulto”.
L’arrivo
di Ava in agosto ci distrasse dal trasloco. Nata in buona salute finì nel
reparto di cure intensive dell’ospedale dei bambini pochi giorni dopo, per un
eccesso di sodio nel sangue e per una grave disidratazione. A dicembre
sorrideva tra le mie braccia mentre il sacerdote le versava l’acqua sulla testa
e la battezzava. Io ero la sola madrina di Ava – Ava dal temperamento
tranquillo, Ava dai capelli biondi e dagli occhi azzurri malgrado le sue radici
siciliane e filippine (mia cognata è belga di origine filippina).
Dopo la
cerimonia la mia famiglia si riunì in un ristorante greco. Ava se ne stava
tranquilla tra le mie braccia, la calzamaglia di cotone increspato tesa sul
sederino. Mio fratello e sua moglie, Geraldine, giravano tra gli ospiti e mi
domandavo quando sarebbe stato il momento giusto per dar loro il mio regalo: un’unica
perla, accompagnata da una citazione di Fellini su un biglietto: Ogni arte è
un’auto-biografia. La perla è l’autobiografia dell’ostrica. Avevo pensato
di dare ad Ava un’unica perla ogni anno fino al suo diciottesimo compleanno,
quando avrebbe potuto farne un gioiello, o una composizione artistica, o
lasciarle sciolte.
Notavo
tracce della fisionomia di papà nei miei zii, e di me nei loro figli,
specialmente nei miei cugini dai capelli ricci Angelo, Francine, Franchina,
Joey e Carmelina. Non li vedevo spesso: io ero la più vecchia e la meno
tradizionale – nubile, vivevo da sola in
città, artista, con pochi amici italiani. Il pensiero che avessimo così poco in
comune, oltre alla famiglia, mi rattristava.
Nascosta sotto
il tavolo c’era una capsula del tempo che avevo preparato per Ava, una scatola
di ricordi (oggetti, foto, ricordini, lettere) che mi ero fatta dare da
ciascuno nella stanza perché lei l’aprisse quando avesse compiuto sedici anni. Avevo chiesto alla mamma di darmi una
lettera che parlasse di papà, così Ava avrebbe potuto conoscerlo. Qualche giorno prima mamma mi aveva chiamato in
ufficio, al McGill-Queen’s University Press. Era un momento febbrile, perché
stavo lasciando il mio lavoro alla fine dell’anno per scrivere il mio primo
libro. Non lo avevo ancora detto in famiglia.
“Fra’, ho
finito. Ho messo tutto in una busta, il medaglione che tuo padre mi ha dato
quando eravamo sposini, fotografie, la lettera. Sono sette pagine …”. Cominciò a leggere. “Mamma,
non adesso, non posso …”. Lei non tenne conto della mia supplica e io guardai,
sfiduciata, la lista infinita delle “cose da fare” sulla mia scrivania, tra la
pila di documenti e gli schedari. Stavo per tagliar corto quando qualcosa nel
suo tono di voce mi sorprese: era realistica, non si sforzava di fare un
ritratto esclusivamente positivo, pur non dicendo niente di negativo. Presto mi
ritrovai a seguire il suo racconto della vita e del carattere di mio padre.
Non ero
preparata alla sua conclusione: “Ava, tesoro, non ci sono parole che
possano far giustizia a tuo nonno. Se vuoi sapere com’era guarda la tua
madrina: lei ha i suoi occhi, la sua intelligenza, la sua creatività. Ed è
segreta come lui, sta sempre nascondendo
una parte di se stessa… ma penso che con te nasconderà poco. Va dalla
tua madrina Francesca, e conoscerai tuo nonno Gaetano.”
Faceva
caldo nel ristorante, il profumo dei polipi alla griglia era come un lieve
rumore di risacca che chiamava i ricordi. Affondai il viso nel collo di Ava, la
coprii di baci leggeri aspirando il suo odore; il mescolarsi dei profumi e del
dialetto siciliano parlato dalla mia famiglia mi portarono indietro, indietro,
indietro. La mia testa era colma delle immagini del libro che stavo scrivendo, I
giganti di Agrigento: una storia magico-realistica situata in un panorama
mediterraneo di rocce vulcaniche e miniere di sale, fiori di mandorlo, arance
sanguigne, fichi d’India e pecore, un vecchio asino saggio che sorveglia pupi
che si impennano, una tarantola che ci morde tutti portandoci a un’isterica
tarantella, e giganti che governano tra rovine antiche …
Titolo
originale: The Disappearing Sicily
Tradotto da Elettra Bedon
Montreal, 2007
CANADA
Maria Francesca LoDico è una scrittrice e giornalista di
Montreal. Suoi lavori sono stati trasmessi dalla radio CBC. Uno è apparso su
diverse pubblicazioni, tra cui
Maisonneuve, en Route, Canadian Geographic e National Post, nonché sulle
antologie Mamma Mia! Good Italian Girls Talk
Back, e
Ribsauce: A CD/ Anthology of Words by Women. "Tarantella" è arrivata in finale del concorso per racconti del
2002 di PRISM International. "The Disappearing Sicily" ha vinto il
primo premio nel concorso letterario del 2007 di Accenti Magazine. Insegna scrittura creativa al Dawson College e
sta attualmente lavorando al suo primo romanzo basato sulla sua infanzia in
Sicilia.
II
Papa died of a
heart attack on
He had been puttering away in quiet solitude, the parsley still in plastic planters, juttings of curly red-leaf lettuce in styrofoam, the cherry tomatoes not yet bursting, aubergines not yet pregnant. The basil, taken indoors in winter, was already releasing its sweet fragrance in a wine barrel that had been sawed in half.
Papa could probably see mamma through the kitchen window, lace curtains drawn to reveal her face concentrated on the dishes.
Three months short of his sixtieth birthday, he was starting to
relinquish management of the flower shop, one of the largest in
My memories of the wake are hazy. I
do remember the flowers, fifty-nine Cattleya orchids flown in from
My eyes jumped from papa in the open coffin to the wreath of roses, 200 luscious reds, and back: papa, reds, papa, reds, the wreath, my heart.
Amid incantations of the Rosary I overheard stories, countless stories in singsong, murmured, moaned, wailed, whispered, a bereft ventriloquism:
“I could not get him to use an ashtray,” said Sebastiano’s daughter, Sandra. My father had his espresso and an apricot cornetto every morning at their pastry shop, Pasticceria San Marco, just down the block from San Remo Florist. Sebastiano had passed away two years earlier.
“There he was in the mornings, jittery, chain-smoking, and I could not get him to use an ashtray. So he’d leave trails of himself everywhere,” said Sandra, who is my age. “There were burn marks all over the counter where he’d forget his cigarette still burning.”
The man in these stories was unfamiliar. He had been so tense around
me, his bookish, untraditional daughter, that we couldn’t really talk. I could have
talked to this other man – a man who loved reggae and Haitian music (we found
the cassettes in his old Buick) and occasionally went to the museum or i filmi Americani by himself; a man who
had befriended non-Italians in business when the others, including his
brothers, were ethnically insular (there was Williams, a black man who had
given him those cassettes, and there were many Jews, they gave him his start up
on Queen Mary Road, especially Sam, a wholesaler, he was the one who sent the
wreath and flew in the Cattleya orchids). This was a man whose delicate floral
artistry was at great odds with his general gruffness; a man who ran away from
the seminary in a faraway city and walked home to Giancaxio, Ioppollo,
My brother Angelo’s story: It’s a few days before Mother’s Day, one of THE busiest weeks of the year for the flower shop, it can make or break us, thousands of buds in stock…
Such a man’s world, a man’s man, a stark contrast to this other man I had known whose plaintive wail to his dead mother I felt like a constant dull ache....
I cannot look directly at her face. I see tubes, wisps of hair, linen, machines. But I cannot look at her face, the Atlantic lies between us, and my father reaches out to touch her face but the glass casts a reflection of his fingers onto our faces.
She dies a few hours later. She is seventy-two years old. I had flown to Sicily with my father and his brothers as soon as Zio Carmelo called to tell us of her cerebral hemorrhage.
We are spirited away, hush, hush, to a room with no windows. The cement floor is bloodstained. Along one wall, a sink, surgical instruments. In the middle of the room, a marble table with a bloody sink.
The doctor and nurse arrange nonna’s body on the marble. Nonno, my father and uncles look away. The doctor checks the bandages on the back of nonna’s head. The nurse removes the hospital gown.
Zia Carmela begins to wail. I stand next to her unrolling a pair of new nylons. She kisses Nonna, she caresses the face, the arms, the knees. The nurse binds nonna’s feet with cotton. Zia Carmela takes the nylons from my hands, she covers one foot, then the other, she rolls the nylons up nonna’s legs, I lift her torso, she rolls the nylons up to the waist. Nonno, my uncles, my father huddle in a corner, they look away. I unfold the black dress, it has been ironed. A wailing Zia Carmela and the nurse lift nonna, the doctor holds the bandaged head. I slip the dress onto the body.
Nonno stands over Nonna’s head, he kisses the forehead, the temple, the cheeks, the lips. He caresses her cheeks. Zio Onofrio stands to her left, he kisses her hand, his tears spilling onto the fingers; Zio Giuseppe is to her right. Zia Carmela smoothes out the dress, she keeps smoothing it out, smoothing it out. My father caresses her legs. I stand by her feet, by the dirty sink.
Zio Carmelo speaks
with the doctor by the door in low tones, hush, hush. Two security guards carry
a coffin into the room. The men gently place nonna in the coffin, Zia Carmela
covers the body with a white embroidered linen sheet, perfectly pressed. The
guards seal the coffin and we spirit nonna away from
The villagers pay their respects. The coffin is in the middle of the living room, unsealed. A spray of red roses covers the lower part of Nonna’s body. A rosary falls over her hands, the cross resting on the embroidery of the sheet that comes to her chest. Window shades shut out the rest of the world. The family stands at the head of the coffin. The guests shake all of our hands and kiss nonna’s forehead. It seems as if the entire village is here. The priest stands at the foot of the coffin and we recite the Litany of the Blessed Virgin Mary.
Nonno caresses nonna’s face, her temples, her cheeks. He shouts: “Fifty-eight years, fifty-eight years we were married! You were fifteen, a girl of fifteen. A headache, you said you had a headache. You said it was only a headache! Come back, come back, come back!” He looks like one of those withered old men from Giacomo Pirozzi’s photo series, La Sicilia che scompare (The Disappearing Sicily). Stark and grainy, black and white, clichéd images of ancient men and women, weary, abandoned, clad in mourning attire, some smiling to reveal large gaps between rotting teeth, crooked women with moustaches, their black handkerchiefs tied tightly under their chins, the rugged men with their coppolas and pipes riding their mules.
There is a steady stream of comings and goings, a steady supply of participants in this public spectacle. Zia Carmela leads a sobbing nonno away from the coffin, she adjusts the woolen cap covering his bald head.
My father’s lament: “I should never have left you. I should have come back when it was possible. I should never have left you, mamma. I never even knew you.” He is shaking, crying like a baby, his body slouched over the coffin. He caresses her tenderly with his fingers.
IV
In 2006 we sold the two-storey brick house papa had built. And my niece, Ava, was born.
The emptier the house, the more I felt my father’s presence. The master bedroom remained unchanged except for a shrine of mementos. Mamma had been sleeping in another room since papa’s death. As we packed up the bedroom I was reminded of something she said to me the day of his funeral: “When we married we were so young. We mostly grew up without fathers. So we each expected for the other to be the adult.”
Ava’s arrival in August distracted us from the move. Healthy at birth she ended up in the ICU at the Children’s Hospital a few days later with too much sodium in her blood and severe dehydration. By December she was smiling in my arms as the priest sprinkled her head with water and ministered the baptismal blessing. I was sole godparent to Ava – Ava of the calm temperament, Ava of the blond hair and blue eyes despite her Sicilian and Filipino roots.
After the ceremony my family gathered at a Greek restaurant. Ava was content in my arms, the cotton ruffled tights straining against her diapered bum. My brother and his wife, Geraldine, were making the rounds and I wondered when it would be the right moment to give them my present: a single pearl accompanied by a Fellini quotation on the card: All art is autobiography. The pearl is the oyster’s autobiography. I planned to give Ava a single pearl every year until her eighteenth birthday when she could turn the disparate gems into a piece of jewelry or a work of art or leave them loose.
I saw traces of papa in the faces of my uncles and myself in their children, especially my kinky-haired cousins Angelo, Francine, Frangina, Joey and Carmelina. I was the oldest and least traditional – unmarried, living on my own, an artist – and I didn’t see them often. The thought that we had so little in common besides family saddened me.
Stashed under the table was a time capsule I had organized for Ava, a box of memories (objects, photos, souvenirs, letters) gathered from everyone in the room for her to open when she was older. I had asked my mother to contribute a letter about papa so Ava could know him. A few days earlier mamma had called me at work. It was hectic because I was leaving my job to write a first novel. I hadn’t officially told my family because, terrified about my decision, I didn’t want to deal with their questions about the risk I was taking in giving up a stable job.
“Fra, I finished. It’s all in an envelope, the locket your father gave me when we were sposini, photos, the letter. It’s seven pages…” She began to read.
“Mamma, not right now, I can’t…” She ignored my pleas and I stared hopelessly at the endless “to do” list on my desk among the piles of documents. I was about to cut her off when something about her tone surprised me: it was unsentimental. I was quickly drawn into her narrative about my father’s life and his character.
I was unprepared for her conclusion: “…Ava, tesoro, no words can do your nonno justice. If you want to know him look to your godmother. She has his eyes, his curiosity, his creativity, his strength. And she is secretive like him, self-protective, always withholding a part of herself. But I suspect that with you she will hold little back. Go to your godmother, Francesca, and you will know your grandfather, Gaetano.”
It was warm in the restaurant, the smell of grilled octopus a gentle undertow towards memory. I nuzzled the nape of Ava’s neck, covered her with butterfly kisses, breathing her in, the clash of smells and my family speaking our Sicilian dialect pulling me back, back, back. My head was filled with images from the novel I was writing, The Giants of Agrigento, a magic realist fable set in a landscape of volcanic rock, salt mines, the Mediterranean, almond blossoms, blood oranges, cactus pears, a wise old donkey watching over prancing marionettes, a tarantula biting us all into an hysterical tarantella and giants ruling amongst the ancient ruins….
~~~
Maria Francesca LoDico is a Montréal writer and cultural
journalist. Her work has aired on CBC Radio One and appeared in many
publications including Maisonneuve, enRoute, Canadian Geographic and the
National Post and in the anthologies
Mamma Mia! Good Italians Girls Talk Back and Ribsauce: A CD/Anthology of Words by Women. "Tarantella"
was shortlisted for the 2002 PRISM International Short Fiction Contest.
"The Disappearing Sicily" won first prize in the 2007 Accenti Magazine Literary Awards.
She teaches creative writing at