DUE LIBRI,
UNA PAGINA (100)
Letture di
Fabio Brotto
Grande,
grandissima scrittura quella di Julien Green in Suite
inglese (Suite anglaise,
1972, trad. it. di R. Lucchese,
Adelphi 1994). Cinque sintetiche biografie, in cui nessuna parola è di troppo,
e cinque scrittori sono presentati nella loro vita. Sono Samuel Johnson, William Blake,
Charles Lamb, Charlotte Brontë e Nathaniel Hawthorne.
Tra i
cinque mirabili ritratti, quello che preferisco è quello di Charlotte Brontë, che mi pare un microromanzo
di assoluta bellezza. Comincia così:
Haworth, nello Yorkshire, è un malinconico villaggio situato in una delle province più tristi d’Inghilterra. Le sue case basse hanno quell’aria tozza e corrucciata che si ritrova nei contadini della regione; ammassate intorno a una chiesa dal campanile quadrato, esse coronano una collinetta e conferiscono a questa altura l’aspetto severo di una fortezza. Il luogo più tetro di Haworth è certamente la canonica, che gli abitanti non hanno esitato a costruire ai margini di un cimitero fitto di tombe. Da due lati della casa grigia lo sguardo cade inevitabilmente sulle pietre sepolcrali, e l’occhio allenato di chi vi risiede potrebbe quasi leggerne le iscrizioni, tanto sono vicine alle finestre.
Occorre un’anima stoica per vivere in quella casa, un carattere sereno capace di tenere a freno l’immaginazione e di non turbarsi dei rintocchi funebri né delle lugubri processioni che sfilano sotto le finestre. Quest’anima impassibile e padrona delle proprie emozioni i figli del reverendo Patrick Brontë l’avevano ereditata dal padre, e ne avevano bisogno.
Patrick Brontë aveva trentatré anni quando
fu nominato pastore a Haworth. Era un irlandese dal
viso regolare e dalla statura imponente, con qualcosa nello sguardo e nel
portamento che faceva pensare a una forza indomabile.
Sua moglie era piccola e delicata ma piena di coraggio, e si stabilì senza
lagnarsi a Haworth con i sei figli, il maggiore dei
quali aveva sette anni. Minata da un male crudele, si rendeva conto del suo
stato ed era rassegnata a morire. Appena giunta a Haworth,
si mise a letto e visse il resto dei suoi giorni nella sua camera, da cui uscì
in capo a un anno. I figli non ebbero modo di
conoscerla: sapendo di doverli presto lasciare, essa preferiva non vederli
spesso. Una sorella di Patrick Brontë
prese il posto di sua moglie e si assunse il compito di allevare le cinque
bimbe e il maschietto. Miss Branwell era una zitella
energica, piena di pregiudizi, ma buona, nonostante
una certa durezza. Piccola di statura, vestiva in modo bizzarro e portava
enormi cappelli in stile Direttorio che lasciavano scoperta una fila di
riccioli bruni sulla fronte. Fiutava tabacco con ostentazione e con il segreto
desiderio di scandalizzare chi le stava accanto. Era cresciuta in una cittadina
della Cornovaglia, dove la terra è carica di fiori e di piante, dove il cielo
clemente consente di vivere all’aria aperta quasi tutto
l’anno. Quando arrivò a Haworth,
storse il naso. Non un albero in vista, immense pianure desolate tutt’intorno al villaggio, e come rifugio,
come focolare, una casa in un cimitero. Ma era
intrepida e vi entrò risolutamente. (pp. 95 - 96)
* * * * * * *
L’eterna
dialettica dei pochi e dei molti, di questo si tratta qui, nel Trattato del
ribelle di Ernst Jünger (Der Waldgang,
1980, trad. it. di F. Bovoli, Adelphi 1990, 10ª
edizione 2007). Waldgang è la via del bosco,
Wald, e il titolo italiano non mi piace, rende
scolastico ciò che appartiene ad un’altra orbita. Un’orbita fortemente
germanica, e profondamente reazionaria (dove reazionario non è
connotato negativamente).
La libertà
piena è dei pochi, e quella dei molti ne è derivazione
secondaria, questo è il senso di questo libro. Non è un caso che il modello
della libertà che qui Jünger tematizza sia quello del
proscritto dell’antica Islanda, dell’uomo bandito che diviene eroe selvatico,
che vive fra gli animali e nella natura. Imboscato, che in Italia,
terra anti-silvana per eccellenza, suona negativissimo, non può avere senso
spregiativo nella lingua dei popoli che, come ha meravigliosamente scritto
Elias Canetti, hanno negli alberi della foresta la
prima intuizione della moltitudine (mentre gli Inglesi nelle onde del mare, wunderbar!). Va da sé che, nella mia visione, solo l’uomo
cacciatore, colui che saluta ed è salutato con il weidmannsheil!, gode della libertà
primigenia.
La dottrina del bosco è antica quanto la storia dell’uomo, e forse
persino più antica. Se ne rinvengono le tracce in
testimonianze venerabili che in parte soltanto oggi riusciamo a decifrare: è il
grande tema delle fiabe, delle saghe, dei testi sacri e dei misteri. Se
riconduciamo la fiaba all’età della pietra, il mito all’età del bronzo e la
storia all’età del ferro, sempre ci imbatteremo in questa
dottrina, purché il nostro occhio sia pronto a individuarla. La ritroveremo
infine nell’epoca odierna dell’uranio, che potremmo
chiamare età delle radiazioni. Sempre e dovunque c’è qui la consapevolezza che
il mutevole paesaggio nasconde i nuclei originari della forza e che sotto
l’apparenza dell’effimero sgorgano le fonti dell’abbondanza, del potere
cosmico. Questo sapere non rappresenta soltanto il fondamento simbolico-sacramentale delle Chiese, non soltanto si
perpetua nelle dottrine esoteriche e nelle sètte, ma costituisce il nucleo dei
sistemi filosofici che si propongono fondamentalmente, per quanto distanti
possano essere i loro universi concettuali, di indagare il medesimo mistero:
inteso come idea, monade originaria, cosa in sé, esistenza nell’oggi, è un
mistero palese a chiunque sia stato iniziato a esso
almeno una volta nella vita. Se uno ha toccato l’essere anche una volta
soltanto, ha varcato il margine lungo il quale hanno
ancora peso le parole, le nozioni, le scuole, le confessioni. Ma in compenso ha imparato a venerare ciò da cui esse
traggono vita (p. 70).
Ma esistono due poli:
il libero vagare nei boschi e la salda centralità dell’oikos,
della casa inviolabile. Che diviene violabile e violata quando lo
Stato è fatto troppo forte, e si insinua
ovunque, o quando è troppo debole, e lascia spazio alle scorrerie dei ladroni. O quando è l’una cosa e l’altra, come lo Stato italiano
contemporaneo. Giorni fa, alle 5 del mattino, la mia vicina di casa si è
svegliata di colpo, gli occhi colpiti dal raggio di una torcia elettrica. Nella camera da letto uomini estranei, venuti a saccheggiare.
Urla, e terrore della famiglia. La mia è stata salvata dalle sbarre di
ferro e dalle porte blindate che anni fa ho fatto
installare. A casa mia ho fucili da caccia a profusione, ma se li usassi in
simili circostanze sarei subito indagato per omicidio
o tentato omicidio. La reazione deve essere proporzionata all’offesa, se un
uomo appare di notte accanto al mio letto, prima di sparare debbo
aspettare che mi accoltelli. Problemi inestricabili, morali e legali.
Lunghi periodi di pace favoriscono l’insorgere di alcune
illusioni ottiche. Tra queste la convinzione che l’inviolabilità del domicilio
si fondi sulla Costituzione, che di essa si farebbe
garante. In realtà l’inviolabilità del domicilio si fonda sul capofamiglia che,
attorniato dai suoi figli, si presenta sulla soglia di casa brandendo la scure.
Ma non sempre questa verità è evidente, né dev’essere invocata come pretesto per attaccare la
Costituzione. È proprio vero che l’uomo è garante della sua parola e non la parola dell’uomo che la pronuncia - una delle tante ragioni
per cui la nuova legislazione incontra così scarso favore tra il popolo. La
formula dell’inviolabilità domiciliare suona bene, ma noi viviamo in tempi in
cui i funzionari dello Stato sono bravissimi a giocare a scaricabarile. (p. 104)
5 maggio 2008