DUE LIBRI,
UNA PAGINA (101)
Letture di
Fabio Brotto
C’è
qualcosa di inquietante nel romanzo di Kader Abdolah Ritratti e un
vecchio sogno (Portretten en een oude droom,
2003, trad. it. di E. Svaluto Moreolo,
Iperborea 2007). Anzi, le cose che mi inquietano sono
due. Anzitutto la solita modernistica e postmodernistica
difficoltà imposta al lettore: i personaggi non sono
in alcun modo presentati, ma fiondati in rapida
successione in un bailamme di note che li rendono difficilmente distinguibili
l’uno dall’altro: un gruppo di Iraniani uomini e donne che si ritrovano nel
Sudafrica post-apartheid, in un viaggio che vorrebbe essere un intreccio di
esili e di convivenze difficili; e bianchi e neri sudafricani, col problema
della salvezza della cultura afrikaans,
eccetera.
Un
progetto ambiziosissimo di uno scrittore persiano-olandese.
Troppa carne al fuoco, a mio giudizio. Ma quel che inquieta
maggiormente è il fatto che nel gruppo dei viaggiatori
alcuni siano morti. Sono proprio dei morti, che normalmente stanno al
cimitero. E non si capisce come siano in viaggio, e si
comportino in tutto e per tutto come dei vivi, e non sapremmo che sono morti se
non ce lo dicesse il narratore. Ora, è vero che siamo nell’era del crollo delle
differenze, ma sappiamo che una loro cancellazione assoluta è del tutto
impossibile, pena la caduta del senso stesso della narrazione. E la differenza fondamentale, che è alla radice stessa del
narrare, è quella tra i vivi e i morti. E’ ben vero che nelle storie che gli
umani si raccontano i morti possono parlare, e talvolta persino agire, ma
sempre come morti, essendo ben chiaro il loro status radicalmente
differente. Un morto, ad esempio, può apparire come fantasma passando
attraverso le pareti, perché appartiene ad un altro regno. Ma
un morto non mangia e non beve. E qui i morti mangiano
e bevono e vanno in giro. Caduto questo vero e
proprio tabù narrativo, si aprono le porte del caos, e si tende
all’insensatezza. E’ quello che inficia il romanzo di Abdolah, narratore tecnicamente dotato ma qui troppo
audace. Si veda questo breve passo esemplare:
Eravamo preoccupati soprattutto per Soraya. Soffriva di dolori allo stomaco. Era dalla notte in cui la guardia l’aveva colpita con un pugno allo stomaco e lei era caduta a terra morta che soffriva di quei dolori. Ogni tanto di notte, quando c’era silenzio al cimitero, la sentivamo singhiozzare dal male. L’ho già spiegato prima, ma voglio dirlo un’altra volta: Soraya è sepolta nello stesso cimitero dove siamo sepolti Malek e io. Per essere precisi, tredici tombe più avanti, in alto a destra rispetto a me. A volte vedo un pezzetto dei suoi piedi, a volte no.
* * * * * * *
La
casa del gelsomino (Bayt al-Yasmin,
1986, trad. it. di F. De Angelis, Jouvence 2006) è un
romanzo di Ibrahim ‘Abd al-Magid dalla struttura abbastanza singolare. Ognuno dei
10 capitoli è preceduto da un brevissimo testo che è quasi un sintetico
racconto: e sono testi differenti per stile e senso e collegamento al flusso
narrativo principale. Questo espone le vicende di un
personaggio, il mariuolo Shagara, che ad Alessandria
conduce una vita eticamente bassa, vivendo di furberie su di un
incerto confine tra sindacato e malavita. Interessante, tra le altre cose, per
un lettore occidentale, è l’immagine di un Egitto sostanzialmente laico. Sembra
qui che la pervasiva e sotterranea presenza dei Fratelli Musulmani non sia
neppure avvertita. Ho l’impressione che molti intellettuali e scrittori
egiziani se la cavino semplicemente rimuovendo l’Islam
radicale dal loro mondo intellettuale e narrativo.
Mi piace
citare un passo che rimanda al dibattito sui cambiamenti climatici.
Siamo alla fine degli anni Settanta. Fa freddo, molto più freddo del consueto,
e i media dell’epoca parlano di ritorno dell’era
glaciale. Come sempre, si cercano dei responsabili umani: la logica è
evidentemente sempre quella.
I giornali sostenevano che i cambiamenti
avvenuti nell’atmosfera fossero le conseguenze delle esplosioni atomiche praticate, apertamente, dalle grandi potenze e,
segretamente, dai piccoli paesi. Alcuni scienziati prevedevano che saremmo
ritornati all’era glaciale e che la civiltà moderna sarebbe scomparsa. La
televisione fece vedere le immagini della pioggia in Europa, della neve che
ricopriva le strade e le case, di collisioni fra treni, dei morti per il
freddo. Gli impiegati dicevano che Dio aveva scatenato la sua ira su una
comunità in cui le donne andavano in giro nude e gli
uomini erano diventati ladri. Un impiegato recentemente tornato dalla Libia
diceva che il motivo di tutto quello fosse Gheddafi,
perché il libici provocavano, artificialmente, le piogge.
Sosteneva di aver visto con ì suoi occhi gli
aerei alzarsi in volo e scaricare materiali chimici sulle nuvole, facendole
sciogliere sulle coltivazioni delle aree desertiche. Inoltre gli aerei andavano
in cerca di nuvole, in zone molto distanti, per poi spingerle, come un gregge
di pecore, sui campi che volevano innaffiare. Questa
operazione prodigiosa, col tempo, avrebbe causato la scomparsa delle nuvole sul
Nord Africa; esse sarebbero state spinte verso di noi dalle zone circostanti
per riempire l’enorme vuoto che si era formato nel cielo; non c’è niente di più
vicino a noi dell’Europa. Il risultato di tutto questo è che stiamo
quasi per annegare… Il mondo funziona come i vasi sanguigni: se muore uno in
Giappone ne nasce un altro negli Stati Uniti!! (p. 124)
13 maggio 2008