DUE LIBRI,
UNA PAGINA (104)
Letture di
Fabio Brotto
Ho scambiato alcune battute via internet col mio amico Alberto Astolfi sul
romanzo di V.S. Naipaul Semi magici (Magic
Seeds, 2004, trad. it. di
G. Ferrara degli Uberti, Adelphi 2007). Eccole qui.
A. Cosa pensi di questo libro di Naipaul?
B. Siccome è una
continuazione di Una vita a metà, che avevo trovato fiacco, quando ho
iniziato a leggerlo ero predisposto a trovarlo similmente fiacco, ma mi sono
ricreduto. Qui Naipaul dà il meglio di sé, non tanto
nella figura del protagonista, che continua a sembrarmi un erede dell’uomo
vuoto novecentesco tipico, ma nella delineazione degli ambienti, e del clima
storico. E tu che ne pensi?
A. Sono d’accordo con te. Sai che io non sono un
grande amante di Naipaul, anche se ho letto parecchi
suoi libri, ma mi pare che questo sia molto interessante. Forse
anche perché la parte sulla guerriglia comunista in India può soprendere chi ne conosce poco. Infatti
c’è stato un comunismo indiano virulento nelle campagne di certi stati, e molti
morti, e fatti di cui in Occidente si sa poco.
B. Guarda che il comunismo naxalita
in India c’è ancora, anche se ha subito molti rovesci. Il lato moderno e
tecnologico dell’India odierna qui in Naipaul non
appare affatto. C’è il suo aspetto poco attraente degli altri libri di Naipaul sull’argomento: la sporcizia, l’irrazionalità, le
conseguenze perverse della dominazione straniera (non tanto inglese quanto
islamica). L’avversione di Naipaul per l’Islam è
davvero patente. Ad un certo punto lo chiama semplicemente la “fede
dell’Arabia”.
A. Quello che mi ha maggiormente colpito è il
tipo dell’uomo scricciolo, cioè il contadino
piccolo e gracile creato da secoli di denutrizione delle masse contadine
imposta dai dominatori (islamici). Per Naipaul
l’Islam è il grande artefice della decadenza culturale dell’India, anzi, della
sua perdita di identità. Ma
oltre alla mancanza dell’aspetto moderno dell’India, manca anche qualsiasi
accenno al fondamentalismo indù, che oggi è un fattore potentissimo.
B. Sì, però bisogna tener conto che gli anni in
cui il protagonista si trova tra le file della guerriglia comunista non sono
questi ultimi. Ma certo l’Induismo
aggressivo non è nato adesso.
A. D’altra parte quando Willie
Chandran torna a Londra, non è che
la situazione lì sembri particolarmente allettante. Soprattutto i rapporti tra
i sessi appaiono estremamente problematici.
B. Willie è nato in India, poi è stato a Londra, poi anni in Africa,
poi in Germania, poi in India a fare il guerrigliero, infine di nuovo a Londra…
A. Mi viene in mente Peer Gynt, ma non so se a proposito…
B. Ma sì, è sempre la ricerca
dell’identità, che non si trova da nessuna parte, col soggetto
individuale che annaspa e le tenta tutte, fino all’adesione ad un Movimento, al
tentativo di trovare il senso facendosi mera cellula di un organismo più
grande, il quale sa dove va (lui e la storia). Una parabola che è stata di
moltissimi.
A. È stata anche mia, in qualche modo, quando
dopo il Sessantotto mi proclamavo comunista e vedevo il male assoluto
nell’America. Adesso ci vivo e ci lavoro, e non tornerei più in Europa, neanche
se mi pagassero uno stipendio uguale a quello che
prendo qua a Grousehunting.
B. Come molti continuano a fare, di vedere il
male assoluto nell’America. Pensa che ci sono degli intellettuali che
sostengono che le Torri Gemelle se l’è buttate giù Bush…
A. C’è una frase per questi qui nel libro di Naipaul, che mi è piaciuta molto.
“Nessuno è più vanesio e perverso di chi sta in basso e vuole raddrizzare il
mondo” (97).
B. Sono sempre più convinto che il tipo idealista abbia arrecato all’umanità infinitamente più danni del tipo cinicamente realista. Concordo con la conclusione del romanzo: “È sbagliato avere una visione ideale del mondo. È qui che cominciano i guai. È qui che ogni cosa comincia a sfasciarsi” (p. 329).
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Sono due i racconti di Ernst Jünger tradotti da A. Vigliani e pubblicati sotto il titolo del più lungo di essi, Visita a Godenholm (Adelphi 2008). Quest’ultimo è dello Jünger che mi piace meno, il narratore esoterico cui dell’autentico narratore manca la forza di creare personaggi vivi, veri caratteri.
Quello che davvero è bello, nella sua concentrata brevità, è il racconto più breve, un pugno di pagine: La caccia al cinghiale, di algida perfezione. Narra di un giovane che ha sempre bramato diventare un cacciatore perché si è innamorato di un fucile, e lo ha quasi ipostatizzato. La prima volta però che si trova fra cacciatori autentici, e ha la ventura di abbattere, fortuitamente, un poderoso verro, viene spiritualmente a sua volta abbattuto dal gesto compiuto, dall’uccisione di un essere così vitale, e dallo squartamento che, secondo il rito, ne fanno gli uomini.
“Quella fu la
prima sera in cui Richard si addormentò senza aver
pensato al fucile, e fu il cinghiale a prenderne da allora il posto nei suoi
sogni” (p. 23). In verità, è malsano l’approdo alla caccia che viene
dall’innamoramento per le armi. Solo il cammino opposto, dall’innamoramento per
gli animali alla loro caccia è saggio e divino.