DUE LIBRI,
UNA PAGINA (105)
Letture di
Fabio Brotto
Ne Il tenente Sturm (Sturm, 1923,
trad. it. A. Iadicicco, Guanda
2000) Ernst Jünger mostra
bene come il senso dell’annullamento, e in particolare quello della propria
destinazione al nulla, sia strettamente e
originariamente connesso alla violenza scatenata. Come percezione, intendo, non
certo come concetto filosofico. La morte di massa nel 1914 - 18 assume il carattere dell’annientamento, vi si attua un
passaggio decisivo nella comprensione della guerra e della morte (che ciò non
salvi da altre guerre è un dato pacifico).
L’esperienza del Fronte Occidentale nella Prima Guerra
Mondiale ha carattere rivelativo ed iniziatico, ma
ciò cui inizia, il sapere indicibile che comunica agli epopti,
è il sapere del nulla. Trovo molto significativi i
seguenti due passi. Nel primo Sturm fa il cecchino, e
spara ad un soldato inglese. La cosa è normale, ovvero è normale,
in guerra, che due che forse avrebbero qualcosa da comunicarsi e magari
potrebbero essere amici, si uccidano freddamente. Tra la condizione di guerra e
quella di pace si apre un abisso incolmabile. In guerra il sé non è più quello
che era in pace.
Anche quel giorno era accaduto
l’incredibile. Se ne era stato disteso all’interno
della sua conca ardente, immobile, per un’ora, senza vedere altro che un’aspra
curva della lunga e sottile linea di terra che, dall’altra parte, si staccava
nettamente dall’erba. Là c’era un posto dove, ogni due ore, si poteva vedere il
cambio di guardia di una sentinella inglese. Proprio così,
anche quella volta non era stato là disteso inutilmente, un guizzo
giallo era appena passato sulla cresta di terra. Sturm
prese ancora una volta la mira, tolse la sicura e puntò il fucile. Adesso era
là: una testa sotto un elmo grigioverde, sovrastato dalla bocca del fucile
messo a tracolla. Sturm esitò
quando la testa si trovò al centro della croce di collimazione del
cannocchiale di puntamento.
La campagna si distendeva di nuovo tranquilla e morta, solo le bianche ombrelle della
cicuta tremolavano di luce. Lo aveva colpito? Non lo sapeva. Ma la questione
non era se adesso, dall’altra parte, quell’uomo tingesse di rosso il fango sul
suolo della trincea oppure no.
Ciò che pareva sorprendente era il fatto che lui, Sturm,
freddo, lucido ed estremamente cosciente, aveva appena cercato di uccidere un
altro. E continuava a chiedersi con insistenza: era
ancora lo stesso di un anno fa? L’uomo che ancora di recente stava scrivendo
una tesi di dottorato su « La riproduzione dell’ameba proteus per sezione artificiale »? Si poteva pensare un
contrasto più grande di quello tra un uomo che si sprofonda
amorosamente negli stati in cui la vita, ancora allo stato fluido, si raccoglie
in minuscoli nuclei, e uno che, a sangue freddo, spara sulla creatura più
sviluppata? Perché quel tale dall’altra parte poteva benissimo aver studiato a Oxford, così come lui aveva studiato a Heidelberg.
Già, era assolutamente diventato un altro, diverso non solo nei fatti, ma - quel che era essenziale - anche nel sentimento. Perché il fatto che non provasse, nemmeno per un attimo,
alcun rimpianto, ma piuttosto gratificazione, era la prova di una moralità profondamente
trasformata. Ed era lo stesso per moltissimi che da
tempo si avvicinavano di nascosto alla smisuratezza del fronte. Laggiù una
stirpe nuova dava vita a una nuova interpretazione del
mondo, passando attraverso un’esperienza antichissima. La guerra era una nebbia
originaria di possibilità psichiche, carica di
sviluppi; chi tra i suoi effetti riconosceva solo l’elemento rozzo, barbarico
coglieva, di un complesso gigantesco, un solo attributo, con l’identico
arbitrio ideologico di chi vi vedeva soltanto il carattere eroico e
patriottico.
Dopo questo intermezzo, Sturm era di nuovo strisciato nelle trincee di combattimento e non aveva trascurato di gridare a tutti i vivandieri e a tutte le sentinelle che incontrava sulla sua strada mentre ritornavano dopo il cambio di guardia: « Ne ho appena ammazzato un altro ancora ». Nel dir ciò aveva fatto molta attenzione all’espressione dei volti: non ce n’era stato nemmeno uno che non avesse fatto un sorriso di approvazione. (pp. 25 - 26)
Nel
secondo passo Sturm contempla l’insensatezza della
guerra, dal punto di vista del singolo che ne è
travolto, e in rapporto dialettico con la visione universale delle catastrofi
cosmiche, annientanti anch’esse, che si succedono senza tregua nell’Universo.
Una visione quasi leopardiana. Infelicità, sofferenza e sventura non sono
causate solo dalla malvagità degli uomini. È anche su questo punto che il
pensiero girardiano (e fornariano) mi lascia
insoddisfatto, o meglio mi lascia con una sensazione di “non è abbastanza”.
Che senso aveva tutto lo splendore di cui gioiva, se
era destinato a sprofondare in un gelido nulla, a frantumarsi senza scopo in
fondo a un abisso come un calice levigato? Certo, questa distruzione non era affatto un’eccezione nel
grande slancio del cosmo. La guerra era come la tempesta, la grandine e i
lampi, si avventava sulla vita, senza badare dove colpiva. Ai tropici c’erano
vortici di vento che infuriavano come animali selvaggi attraverso le enormi
foreste. Spezzavano le palme piumate o le strappavano con tutta la radice e le
abbattevano al suolo insieme agli altri alberi. Spazzavano via dai rami le
grandi orchidee che profumano di vaniglia e
sterminavano stormi di scintillanti colibrì. Cancellavano lo smalto dalle ali
di farfalle indicibilmente colorate e gettavano fuori dai
nidi i piccoli pappagalli. Ma questa poteva forse
essere una consolazione per il singolo? Costui viveva una sola volta nella luce
e, quando trapassava, l’immagine del suo mondo si dissolveva insieme a lui. (p. 53)
* * * * * * *
Reca come
sottotitolo Indagine sul Vangelo di Giovanni il bel libretto di Rudolf Pesch Antisemitismo
nella Bibbia? (Antisemitismus
in der Bibel? , 2005, trad. it. di M. Faggioli, Queriniana 2007). Il
testo giovanneo, cui sono state nel tempo attribuite
forti valenze gnostiche e un antisemitismo addirittura virulento, viene
finemente analizzato da Pesch, che arriva alla
conclusione che 1) Giovanni non è affatto gnostico; 2) non solo non è
antisemita, e semmai è interno alla logica del profetismo
biblico, ma appartiene pienamente alla tradizione ebraica, dalla quale il
Cristianesimo scaturisce.
Le 160 pagine di Pesch sono ricche
di riferimenti e fortemente argomentate. Riporto un passo che mi sembra molto significativo.
L’ODIO CHE COLPISCE ISRAELE, COLPISCE ANCHE LA CHIESA
La chiesa, che soccombe o rimane prigioniera dell’antigiudaismo, espelle l’ebreo Gesù - come gli avversari di Gesù in Israele lo volevano espellere dal popolo di Dio come falso Messia. Nella storia, a partire dalla morte di Gesù è diventato chiaro che la radice più profonda dell’antigiudaismo o dell’antisemitismo è la resistenza contro la presenza del vero e unico Dio nel nostro mondo, presenza che mette in questione ogni autodivinizzazione.
L’odio, che ha colpito e colpisce Israele, non è un normale odio dello straniero, ma è la ribellione contro una misura - che non dipende da noi - di diritto, giustizia e fedeltà alla comunità, il rifiuto di una volontà assoluta di legarci al Creatore e Signore, l’ostacolare la luce sull’invidia e la falsità nel mondo, una luce in cui ognuno appare come colui che è. E l’odio, che colpisce Israele, colpisce sempre anche la chiesa - sia dall’esterno, sia dall’interno.
L’ANTISEMITISMO “CRISTIANO”
È UNA PARTICOLARE PERVERSIONE
L’antisemitismo “cristiano” se la prende con gli ebrei perché hanno donato il Messia al mondo. Era un caso che i teologi cristiani durante il cosidetto Terzo Reich cercarono di portare la prova che Gesù era un ariano e non un ebreo? e che il movimento Pamjat in Russia oggi parli di Gesù come un assiro e che la teologia della liberazione palestinese ne faccia un palestinese?
L’antisemitismo cristiano è una
caduta dal cristianesimo, si traveste con la menzogna e si snatura. È dello
stesso genere della caccia agli eretici e alle streghe. Come può un albero
desiderare che marciscano le stesse radici che lo
sostengono?
Non si può venire a capo di un tale fenomeno in maniera razionale, data la sua
infondatezza. I teologi di Israele lo avevano messo in
luce già da lungo tempo, quando nei Salmi 35,19 e 69,5 avevano parlato di “odio
senza motivo” contro i giusti nel popolo di Dio. La tradizione ebraica ha
chiamato anche l’odio senza motivo tra gli ebrei stessi
come motivo per la distruzione del tempio - il luogo della riconciliazione con
Dio.
Il Gesù di Giovanni parla seguendo completamente questa linea: «Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: “Mi hanno odiato senza ragione”» (15,24-25).
( pp. 77 - 78 )
4 settembre 2008