DUE LIBRI,
UNA PAGINA (107)
Letture di
Fabio Brotto
Da un mondo povero ed epico, alla Modernità
dei commerci, del profitto e della tecnologia: è questo il passaggio
dell’Islanda di Halldór Laxness,
che accompagna la formazione dell’io narrante nel romanzo Il concerto dei
pesci (Brekkukotsannál, 1957, trad. it.
di Silvia Cosimini,
Iperborea 2007). Il giovane Álfgrímur vive nel casale
di torba dei suoi “nonni”, in una situazione del tutto premoderna,
con ospiti fissi e altri che vanno e vengono, poiché un giaciglio non viene rifiutato neppure agli sconosciuti, neppure ad una
vecchia che viene dal nord per morire lontano dagli occhi dei familiari. Il
“nonno” Björn fa il pescatore stagionale di lompi. E il ragazzo questo
desidera essere da grande: un pescatore di lompi
(brutto, sgraziato pesce che gli Islandesi catalogano in due categorie, “saltaerba” e “panciarossa”).
Si tratta evidentemente di un desiderio
minimale, del tutto estraneo alla natura del desiderio moderno che si è declinato nella letteratura romanzesca e nella realtà
storica. Questo desiderio minimale è attraversato però dalla fascinazione per
un personaggio abbagliante ed equivoco, il cantante lirico Garðar
Hólm, che rappresenta il grande
mondo, la musica, tutto ciò che non è puramente islandese, e anche una
dimensione mistica, la ricerca dell’ unica nota pura.
Nel casale di Björn
di Brekkukot passano personaggi che vengono dal
profondo Nord, e sono narratori di storie, recitatori
di saghe.
Le storie erano innumerevoli, ma quasi tutte avevano in comune una cosa: che venivano narrate in maniera diametralmente opposta al metodo che attribuiamo ai romanzi danesi; la vita del narratore non entra mai a interferire con la storia, meno che mai le sue opinioni: l’argomento parla da sé. Non avevano mai fretta di concludere il loro racconto, quegli uomini. Ogni volta che arrivavano a un punto che il pubblico trovava entusiasmante, spesso si mettevano a recitare lunghissime genealogie; poi si lanciavano in qualche digressione, sempre in grande dettaglio. La storia stessa viveva di vita propria, fresca e remota e ignara delle tecniche narrative, libera da qualsiasi sentore umano, un po’ come la natura, dove gli elementi soli regnano su tutto. Cos’era un piccolo uomo raggrinzito in qualche alloggio fortuito paragonato alla grandezza del mondo dell’età eroica, il mondo dell’epica con i suoi grandi eventi che accadevano una volta e per sempre? (p. 79)
L’entrata dell’Islanda nella Modernità pone
fine al modo di vivere povero-epico, e introduce una nuova dimensione del
tempo. La pendola di Brekkukot non era un orologio
segnatempo nel senso moderno, ma un marchingegno animato, una cosa che rimandava
alla dimensione del sempre nuovamente uguale a se stesso che è propria
dell’epica, di ciò che si può eternamente ascoltare perché cambia sempre ed è
sempre se stesso.
Da tempo nessuno sentiva più la nostra
pendola, come se neppure esistesse. Ma in questi
ultimi giorni la stanza era silenziosa, e allora sentii che ticchettava ancora.
Non si lasciava sgomentare. Lenti, lenti procedevano i
secondi negli ingranaggi di mio nonno, e dicevano come un tempo: e-ter-ni-tà, eter-ni-tà. E
ascoltando attentamente si distingueva come una nota cantata nel ticchettio; e
i rintocchi della campanellina d’argento. Com’era
bello sentire ancora una volta la nota di questa pendola in cui viveva una
strana creatura; e aver potuto vivere qui a Brekkukot,
in questo piccolo casale di torba che era la giustificazione di tutte le altre
case sulla terra; nella casa che dava un senso alle
altre case. (p. 342)
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Un’autobiografia di Anthony Trollope (An autobiography,
trad. it. di A. Manserra, Sellerio 2008), si potrebbe anche intitolare Il
romanziere come produttore disciplinato. Il fecondo Trollope
intese la scrittura come un mestiere da svolgere con metodo e disciplina
ferrei, con una programmazione dei tempi e del numero delle parole da scrivere
ogni giorno. Qualcosa di davvero affascinante, il contrario
dell’artista come genio e sregolatezza.
C’è poco in questo libro (ma molto
interessante) della vita personale, per lo più legato al lavoro per le Poste
Reali, ma molto dell’arte e della scrittura. Con pagine assai
gustose, con i rapporti con gli editori e la critica del tempo. Queste
righe per i giovani scrittori mi piacciono molto.
Ma falliscono anche molti giovani, perché si
affannano a raccontare storie quando non hanno nulla
da raccontare. E ciò è la conseguenza della pigrizia piuttosto che di una innata incapacità. La mente non è stata abbastanza all’opera quando si è iniziata la stesura della storia, né la si
tiene sufficientemente in esercizio nel procedere col racconto. Non mi sono mai
dato molta pena per la costruzione di una trama, e ora non voglio insistere in
modo particolare sulla precisione in un settore lavorativo in cui io stesso non
sono stato molto preciso. Non sono sicuro che la
costruzione di un intreccio perfetto sia mai stata alla mia portata. Ma il romanziere ha altri obiettivi oltre a quello di
svelare una trama. Desidera far conoscere ai propri lettori i suoi personaggi
così intimamente da far sì che le creazioni della sua mente siano
per loro esseri umani che parlano, si muovono, vivono. Questo non lo potrà mai
fare a meno che egli stesso non conosca bene quei
personaggi fittizi, e non li potrà mai conoscere bene se non riesce a vivere
con loro nella piena realtà di una radicata intimità. Devono essere con lui quando va a dormire e quando si sveglia dai sogni. Deve
imparare a odiarli e ad amarli. Ci deve conversare, litigare, li deve perdonare, e si deve persino sottomettere a loro. Deve
sapere se sono freddi o passionali, se sono sinceri o falsi, e quanto sinceri e
quanto falsi. Di ognuno di loro deve essergli chiara la profondità e
l’elevatezza d’animo, la meschinità e la superficialità. E
così come sappiamo che, nella realtà, gli uomini e le donne cambiano -
diventano peggiori o migliori a seconda che la tentazione o la coscienza li
guidino -, allo stesso modo dovrebbero cambiare le sue creature, e ogni
cambiamento dovrebbe essere da lui rilevato. L’ultimo giorno di
ogni mese raccontato, ogni personaggio del suo romanzo dovrebbe essere
di un mese più vecchio. Se l’aspirante romanziere ha
tali attitudini, tutto ciò gli riuscirà senza troppo sforzo; ma in caso
contrario credo che egli potrà scrivere solo dei romanzi legnosi. È così che ho
vissuto con i miei personaggi, e da ciò è arrivato il successo, quale che sia,
che ho ottenuto. Esiste una galleria di miei personaggi, e di ognuno posso dire
di conoscere il tono della voce e il colore dei capelli, ogni fiamma degli
occhi e persino i vestiti stessi che indossano. Di ogni uomo sarei in grado di dire se potrebbe aver
pronunciato tali o tal’altre parole; di ogni donna,
se in un dato momento avrebbe sorriso o si sarebbe accigliata. Quando mi
renderò conto che è cessata questa intimità, allora
saprò che è venuto il momento di mandare il vecchio cavallo a pascolare. Che
riuscirò a rendermene conto quando arriverà il
momento, non lo posso proprio dire. Non so davvero se sono molto più saggio del
canonico di Gil Blas; ma so
che senza questa capacità un romanziere non può raccontare storie con buoni
risultati. (pp. 243 - 244)
5 dicembre 2008