DUE LIBRI,
UNA PAGINA (112)
Letture di
Fabio Brotto
Smirne come Troia, come
Corinto, come Cartagine: una città splendida data
alle fiamme, cancellata nella sua parte antica, nella memoria di una convivenza tra stirpi, lingue e
religioni differenti. Bisogna ammetterlo: l’Oriente antico e medievale, fino ai
primi del Novecento, era infinitamente più variegato e tollerante culturalmente
e religiosamente di quanto sia oggi. E ciò che ne ha
cambiato il volto è stato il nazionalismo, la peste del mondo.
La lettura del romanzo di
Antonia Arslan La
strada di Smirne (Mondadori 2009), compimento
del precedente La masseria delle allodole (di cui qui) genera in me due pensieri. Il primo riguarda gli
imperi. Essi si creano mediante la forza, e la loro costruzione esige sangue e
vittime. Una volta costruiti, però, solitamente
garantiscono pace e tolleranza, a causa del loro fondamento nella molteplicità.
Così il sogno della pace universale è sempre un sogno imperiale. Quando un impero si dissolve, la violenza cresce in modo
esponenziale.
Il secondo pensiero riguarda la città. La
distruzione di Smirne antica, la “bella infedele” come
è chiamata nelle tragico-elegiache pagine della Arslan,
evoca altre distruzioni di splendide città, e la weiliana
idea che una città sia infinitamente più della somma dei suoi abitanti. Il
mostruoso espandersi degli aggregati urbani della nostra epoca è l’altro volto
della distruzione militare delle città. In entrambi i casi è l’anima della città ad essere annientata, e con essa le
anime di coloro che vivono nelle sue case.
* * * * * * *
Sono solo cinquanta pagine, e si leggono in
fretta, ma sono piene, e lasciano molto. La storia dell’Albania letta
attraverso Dante. Si rimane sconcertati e pensosi. Sconcertati
ad esempio alla scoperta che molte donne albanesi si chiamano Beatrice.
Il saggio di Ismail Kadaré Dante, l’inevitabile (Dante, l’incontournable, 2006, trad. it. di
F. Spinelli, Fandango 2008) pone tante questioni, ad
esempio quella delle lingue e di come siano soggette a oppressione a volte più
delle fedi religiose e politiche. E’ accaduto all’albanese sotto il dominio
turco. E anche la questione di come sia possibile che popoli
vicini come l’italiano e l’albanese conoscano così poco l’uno dell’altro
(soprattutto gli Italiani degli Albanesi).
Tutte le epoche inseguono qualcosa che sembrano non possedere (o che effettivamente non
possiedono), una sorta di ipertempo, di visione
suprema, in altre parole un’anima.
Tra coloro che più di altri incarnano l’oggetto di questa aspirazione, ai quali ci capita di affidare le nostre speranze, c’è naturalmente Dante Alighieri. Da lui ci aspettiamo qualcosa. Un’assoluzione, una riparazione, oppure – più realisticamente – di poter soffrire davanti allo specchio che ci porge. (p. 46)
Naturalmente Dante Alighieri rimane sempre Dante,
ma ci sono epoche in cui è due, tre volte se stesso. Così, nel Novecento,
quando sembrava aver raggiunto il culmine di una gloria insuperata,
nell’immensa steppa comunista Dante diventò Bidante, Tridante.
Raccontando
il suo viaggio solitario nel mondo dei morti, rivelava ai suoi confratelli
poeti – che fossero russi, albanesi, baltici o cinesi – che la condizione
naturale di un grande scrittore consiste per l’appunto nel viaggiare vivo tra i
morti. Davanti a lui giacciono inanimati regni, assassini, tiranni, risaie,
tornado e perfino l’aria che li genera. Ovunque incombono mostri e pericoli, ma
lo scrittore ha un vantaggio: contrariamente a loro, è
vivo. Per questo l’invito di Virgilio a non temere le tempeste morte
dell’inferno rappresenta la formula salvifica di ogni
scrittore. Tutta l’essenza del suo “stato”, e di conseguenza del suo destino, è racchiusa nella fede o nell’assenza di fede
in questa formula. (p. 48 )
21 giugno 2009