DUE LIBRI, UNA PAGINA (43)
Letture di Fabio Brotto
Ha una grandiosità balzacchiana questo Ottavio Muret, che vive per
la sua grande impresa commerciale, un grande magazzino che deve diventare
sempre più grande, che fagocita vecchie case con vecchie botteghe espellendone
gli artigiani obsoleti, i vecchi commercianti legati ad una vecchia idea di
commercio "personale" e ristretto. Pensa in grande Muret, anticipatore dei tempi. Il suo grande
magazzino, vero e proprio centro commerciale ante litteram, in una Parigi che
fermenta, si chiama "Al paradiso delle signore". Intorno a questa
ciclopica impresa commerciale si svolge la storia narrata nell'omonimo romanzo,
di cui non voglio dire nulla. O quasi (trad. A. Jeri – la prima uscita è del 1959, e si sente – Rizzoli, Milano
2003).
Voglio soffermarmi su quello che è l'aspetto certamente più
interessante del romanzo: il rapporto tra la merce e la donna. Nella narrazione
di Zola vi sono scene potenti che raffigurano la libidine del comprare, lo shopping scatenato delle donne che
affluiscono a migliaia nei giorni delle grandi vendite, che instaurano con le
merci un rapporto quasi carnale. Qui si ha la rappresentazione del carattere
fondamentale dell’epoca presente, siamo già nella consumer society, in cui il conflitto sempre latente tra gli umani viene
mediato dalla abbondanza e desiderabilità delle merci. E
senza le donne la società del consumo è impensabile, lo shopping è anzitutto questione femminile. Mi sono sempre chiesto
donde provenga la particolare voluttà con cui le donne
si recano alle vetrine scintillanti, ai centri commerciali, nei mercati e
mercatini, ecc. Penso che ciò abbia a che fare con l’origine della specie:
all’uomo la caccia, alla donna la raccolta. Un punto da investigare, le
relazioni tra raccoglitori sono necessariamente differenti da quelle tra
cacciatori.
Il mercato consumistico come succedaneo della religione: questo mi
sembra il senso più profondo di questo romanzo di
Zola, distante anni luce dalle coeve prove del verismo italiano. Sia Mouret che Denise (Dionisia nella traduzione) vivono in modo religioso il proprio lavoro, come una
missione che trova il suo fondamento assoluto in se stessa. E il passo più significativo mi
pare quello in cui Mouret riflette sull’opportunità
di far venire l’arcivescovo nel suo centro commerciale per una benedizione. Per
la donna contemporanea l’unico paradiso è nell’atto
dell’acquistare ciò che la dialettica del desiderio pone come suo proprio
oggetto.
Ma soprattutto
s’arrabbiava di non aver avuto la bella idea di Bouthemont: quel buontempone s’era fatto benedire il
magazzino dal curato della Madeleine col seguito di
tutto il clero! Una cerimonia bellissima, una pompa religiosa
di prim’ordine, dalle sete ai guanti. Il Signore capitato fra le mutande
e i corsetti da donna; la qual cosa non aveva impedito il rogo del tetto, ma
che valeva di per sé un milione di annunci, tanto la
cosa aveva fatto colpo sulla clientela di rango. Mouret,
da quel momento, stava argomentando di far venire l’arcivescovo. (440 – 441)
* * * * * *
Ogni destino è un destino, ogni uomo è un uomo, e
tutti i destini degli uomini hanno una loro grandezza, perché anche il più
meschino degli uomini è, a suo modo, grande. Ma questa
grandezza è passeggera, e sospesa sul nulla. La narrativa di Göran Tunström è
delicatamente postmoderna, il suo nichilismo è quasi danzato,
lievemente. La prova che ne dà nel suo romanzo Uomini famosi che sono stati a Sunne (trad. it. M.C. Lombardi, Iperborea,
Milano 2003) tocca il sublime, nella
versione nordico-crepuscolare. Uno dei personaggi, ora ridotto a clochard sporco e ubriaco, è stato un astronauta, è stato sulla Luna. Ora è a Sunne. Ha con sé una parte delle ceneri di sua madre. L’altra
parte l’ha sepolta nel suolo della Luna.
La madre di Ed fu la prima donna sulla Luna.
Mentre le telecamere dell’Eagle
ruotavano da un’altra parte, Ed aprì il guanto, si chinò e seppellì nella polvere
lunare la scatolina che un tempo aveva contenuto la sua vera nuziale. Ora le
ceneri di sua madre riposavano là e il suo cuore
batteva: se mai fosse arrivato sulla terra
il giorno della resurrezione, lei sarebbe stata la sola a non potervi
partecipare, almeno non con tutto il suo essere. Forse non
con la sua coscienza, se quel giorno un
qualche dio aveva intenzione di radunare tutti gli esseri cremati, uccisi,
decapitati che la terra aveva usato. No, Ed non era religioso. Che lui nell’Eagle avesse fatto la comunione
era una concessione sia alla NASA sia a colei di cui si apprestava a esaudire il desiderio a metà. A metà perché aveva diviso le sue
ceneri in due parti,
una per la Luna e l’altra per la Terra,
e la seconda era quella che aveva nel portafoglio.
Sua madre avrebbe potuto presto riposare anche a Sunne.
Ma lassù aveva premuto delicatamente
il piede sulla scatolina perché andasse più in profondità: la ghiaia
lunare turbinò scintillando, cadde senza
far rumore e dentro di lui si fece uno strano silenzio. Un silenzio diverso. Un’assenza di tempo che si diffondeva per tutto il suo corpo. Lei
era sepolta fuori dal
tempo, lì non c’erano stagioni, né settembre né luglio né rintocchi di campane né occhi. Solo la parola Nulla
aveva una presenza. Nulla aveva presa.
Nulla era ormai una parte di se stesso, sosteneva. (162)
Ogni
tanto, Tunström se ne esce con dei veri e propri aforismi. Ne
riporto uno che mi è piaciuto molto.
Perché i preti sospirano più degli altri? Sospirano perché
troppo grande è l’abisso tra quello che predicano e quello che è il mondo. A meno che non sia il contrario: che si sono fatti preti perché avevano una certa facilità a
sospirare sullo stato del mondo. (183-184)
2
aprile 2004