DUE LIBRI, UNA PAGINA (47)
Letture di Fabio Brotto
È un’opera preziosa quella svolta dalle Edizioni Lavoro, che pubblicano narrativa difficilmente accessibile, scritti di
autori marginali rispetto ai grandi circuiti internazionali. Tra questi testi,
emergono i racconti di Bessie Head (nata in Sudafrica
nel 1937, da una bianca ricca e da uno stalliere nero) pubblicati sotto il titolo La donna dei tesori (The Collector of Treasures,
1977, trad. it. M.A.
Saracino, Roma 2003). Sono interessanti anche dal punto di vista antropologico,
per la visione che aprono sui modi di vita, sui rapporti sociali – e di genere –
nei villaggi africani stretti nella
morsa tra tradizionalismo opprimente e sfrenata
modernizzazione. Molte sono le contraddizioni che si manifestano nella vita
africana, e coloro che le patiscono maggiormente sono le donne, che nella
narrativa della Head sono le attrici principali. Il
quadro è variegato, v’è molta umanità e solidarietà, ma vi sono
anche orrore e violenza. Di grande interesse è l’aspetto religioso, con i
complessi rapporti tra cristianesimo e religioni ancestrali,
e la credenza nel malocchio, che può diventare un incubo collettivo dalle
conseguenze devastanti. Ad esempio, il bellissimo racconto
La stregoneria (p. 83) ci mostra come
la vita nel villaggio possa essere condizionata tragicamente dalla credenza nei
baloi, “le
persone con il cuore cattivo” – la cui
identità non si rivela, sicché tutti possono essere sospettati –, persone che
guardano agli altri con malignità, e che si rivolgono agli stregoni per far
morire questo o quello. Il clima in un villaggio africano può essere dunque
quello del sospetto omnium erga omnes, che determina un
clima invivibile, e che ovviamente può dar luogo a
conflitti devastanti, con ricerca del capro espiatorio. Una delle tante
illustrazioni della teoria girardiana. Non può mancare la soluzione originaria di ogni umano problema, il sacrificio. In Cercando un dio della pioggia (p. 99), racconto breve e intensissimo,
vediamo una famiglia ricorrere al principe di tutti i rimedi, con l’oggetto
sacrificale individuato all’interno della famiglia stessa. Imperversa la
carestia…
Alla fine, un antico ricordo si risvegliò nel vecchio Mokgobja. Quando era molto giovane e le usanze degli antenati ancora governavano il paese, aveva assistito a una cerimonia per propiziare la pioggia. Ed egli si rianimò nello sforzo di richiamare alla memoria dettagli che erano stati sepolti sotto anni e anni di preghiere in una chiesa cristiana. Non appena la nebbia si diradò un poco, l’uomo consultò a bassa voce il figlio più giovane, Ramadi. Esisteva, disse, un certo dio della pioggia che accettava in sacrificio soltanto corpi di bambini. Allora la pioggia sarebbe caduta; allora sarebbero cresciuti i raccolti, disse. Raccontò il rituale, e man mano che parlava il ricordo diventava certezza ed egli cominciò ad esprimersi con ferma autorità. I nervi di Ramadi erano distrutti dal lamento notturno e ben presto i due uomini cominciarono a parlottare sottovoce con le due donne. Le bambine nel frattempo continuavano a giocare: «Tu, stupidina! Come hai fatto a perdere i soldi mentre andavi al negozio! Devi esserti rimessa a giocare!».
Quando fu tutto finito e le membra delle due bimbe
furono sparse per i campi, la pioggia non cadde. Al suo posto ci fu invece un
silenzio mortale durante la notte, e di giorno il calore divorante del sole. Un
terrore, profondo ed estremo, sommerse l’intera famiglia. Essi allora raccolsero
le loro cose, arrotolando le coperte di pelli e riponendo il vasellame, e in
tutta fretta guadagnarono la via del villaggio. (pp. 102-103)
* * * * * * *
Il grande
massacro degli Armeni del 1915, la loro espulsione
dall’Impero Ottomano, è lo sfondo dell’epico romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh di F. Werfel, che lessi molti anni
fa, e che ricordo benissimo. Ritrovo lo stesso sfondo storico in un’opera
dolcissima e struggente, La masseria delle
allodole, di Antonia Arslan (Rizzoli, Milano 2004).
Questo libro mi pare espressione di una grande
sapienza di scrittura, e di una grande sapienza in generale, esattamente ciò
che io voglio trovare in un romanzo (quante opere inutili e imbecilli vengono
stampate, un inevitabile profluvio da cui ci può salvare solo l’intelligenza,
forse…). E la storia che narra ci porta nel centro dolente dello sviluppo
storico della nostra civiltà, al problema degli stati nazionali, che solo nel
sangue si possono forgiare, e che pretendono al loro interno l’omogeneità
linguistica, religiosa, ecc., e spesso anche
richiedono la persecuzione, in una forma o nell’altra, e l’espulsione di
gruppi, di intere stirpi. (Espulsione di marrani e moriscos
per la Spagna, di dissidenti religiosi per l’Inghilterra, di Ugonotti
per la Francia, di Israeliti per molti paesi, di Armeni
per la Turchia, di…). La Modernità, come ben sapeva Simone Weil,
sta sotto il segno dello sradicamento.
Yerwant, saggiamente “diffida delle folle dagli umori
eccitati, dai fumosi impeti nazionalisti: sa bene, da sempre, che ogni folla
può uccidere, e ogni folla cerca una vittima sacrificale, e gode
del sangue” (p. 40). La Arslan
scrive senza risentimento nei confronti dei Turchi. In
particolare, mostra come il massacro degli Armeni,
con la terribile marcia senza meta nel deserto siriano, non sia stata determinata
da motivi religiosi ma dal nuovo movimento nazionalista laico, che voleva
modernizzare l’Impero. “L’idea della deportazione nel deserto appare
dunque agli ideologi del partito come un rito di purificazione, un sacrificio
propiziatorio di animali macellati per l’onore e la
gloria di un Dio laico, impassibile e geloso” (p. 129). I persecutori non
agiscono secondo l’Islam, ma secondo la loro idea di nuovo stato nazionale.
Quando la miseranda folla dei deportati si avvicina a Konya, la città dei
dervisci, gli abitanti la soccorrono e l’imam grida “Questa non è la volontà
del Profeta, che il suo nome sia benedetto. Nutrite e
alloggiate questa gente, perché il suo grido ridiscende contro di noi dai cieli
dell’Altissimo, e reca maledizioni” (p. 161).
20 agosto 2004