DUE LIBRI, UNA PAGINA (49)
Letture di Fabio Brotto
Erotic Faith di Robert M. Polhemus (The
University of Chicago Press, Chicago 1990) è un testo molto ricco e
raffinato. Attraverso un’accurata e
sottile analisi di alcuni capisaldi della narrativa inglese dal 1813 al 1928,
Polhemus delinea i caratteri di quella fede che dà il titolo all’opera, cioè la
fede nell’amore erotico (che nel corso del Novecento diventerà in molti casi
puramente sessuale) come unico luogo
del compimento dell’essere umano, unica e insuperabile forma della umana felicità.
I libri che l’autore considera sono: Orgoglio e pregiudizio (1813) di Jane
Austen, La sposa di Lammermoor di
Walter Scott (1819), Cime tempestose
di Emily Brontё (1847), Villette
di Charlotte Brontё (1853), Grandi
speranze di Charles Dickens (1861), Il
mulino sulla Floss di George Eliot (1860), Phineas Finn di Anthony Trollope (1869), Via dalla pazza folla di Thomas Hardy (1874), L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence (1928). Polhemus
dedica inoltre un capitolo all’amore in James Joyce, e qualche pagina a
Virginia Woolf e Samuel Beckett. La definizione che all’inizio del suo volume
l’autore dà di fede erotica è la
seguente:
…la convinzione emozionale, in definitiva di natura religiosa, che senso, valore, speranza, e perfino trascendenza possano essere trovati mediante l’amore – amore concentrato sull’eros, il tipo di amore che intendiamo quando diciamo che due persone sono innamorate (…) Uomini e donne dominati dalla fede erotica sentono che l’amore può riscattare la vita personale e offrire una ragione per il proprio essere al mondo. (p. 3, traduzione mia)
L’assurgere della relazione amorosa a
stella polare religiosa della vita
delle persone in Occidente è strettamente connessa alla creazione della società
di massa, in cui tutti gli individui si trovano sullo stesso piano, con
differenze sostanzialmente marginali. Questo risulta con grande chiarezza anche
nel libro di Pohlemus. L’idea di amore contemporanea è stata modellata
anzitutto dai grandi romanzi dell’Ottocento, e nel Novecento essenzialmente dal
cinema. Essa ha molto a che fare con la struttura delle società occidentali, in
cui l’individuo deve poter credere nel proprio valore e nel proprio potenziale
di autorealizzazione. “…nelle storie d’amore gli innamorati, a prescindere da
chi siano, sono le star, e così la
logica delle storie d’amore implica che chiunque si innamori possa essere una star – uno degli eletti” (p. 4). Come le
analisi di Eric Gans hanno posto in luce, essenziale alle nostre società è
l’idea che chiunque possa occupare il centro.
La logica che sta alla base dei reality
show è esattamente questa.
Estremamente
stimolante anche per la capacità che l’autore dimostra di illuminare il senso
di un testo mettendolo in relazione ad un’opera pittorica (bellissima ad
esempio la discussione dell’Ophelia
di John Millais a pag. 171 e sgg.), il saggio di Polhemus trova il suo limite
teoretico, a mio avviso, nel suo mancato coglimento della dialettica del
desiderio nelle società avanzate. Il lettore ha infatti l’impressione che
Polhemus non sia ancora uscito dall’illusione modernista che il desiderio sia
in sé sempre e soltanto buono, e che questo impedisca allo studioso di sondare
quelle profondità che le sue splendide pagine spesso rasentano.
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Davvero pregevole è
l’edizione de L’eredità di Mario
Pratesi che l’editore Liguori ha pubblicato nel 1990. Edizione strepitosa nella
sua sobrietà, per una prosa leggiadra e gustosissima, datata Toscana 1888.
Verismo toscano, lingua variegata nei toni e nello stile di un autore sepolto
nell’oblio. Nella accurata introduzione G. Bertoncini fa addirittura cogliere
momenti di pre-espressionismo. Descrizioni da assaporare. Siena.
Le prime colline, e quella pure del
cimitero, girano e si sprofondano nelle vallette tutte folte d’alberi e case,
ma poi le crete bigie s’estendono oltre per largo spazio, interrotte solo da
qualche macchia isolata o dal campanile di qualche oscuro paesetto, finché
quella smorta regione non si rianima in fondo alle montagne azzurre e
serpeggianti nel cielo chiaro. Singolari anche le porte dei poderi tinte d’un
rosso cupo, sulle stradelle romite col vecchio muro da una mano, e dall’altra
il tufo selvaggio e cavernoso, da cui pendono i lunghi roghi giù dalle siepi
continue. Dove il muro s’abbassa, ecco aprirsi la campagna in vario prospetto,
e gli ulivi imbiancar le pendici, i cipressi nereggiare attorno le ville
secolari, selvette di agili pini cantare al vento lassù al sole, nella
bell’aria del colle, i tralci ridere e brillare effusamente esultanti nel
piano, e la turrita città balenare lungi dall’alto come imperante ancora, nella
sua maestà religiosa e repubblicana, il vago paese: poi la via romana si perde
deserta fra quelle crete aride quasi vi fosse passato a desolarle uno di quei
demoni cornuti dall’ali di pipistrello, come il Signorelli dipinse nel duomo
d’Orvieto. Tanta varietà e contrasto di toni e colori, e la mano venerabile
degli antichi che qui pure apparisce dovunque; apparisce nelle ville severe,
ne’ castelli, ne’ monasteri sparsi, nelle badie dei villaggi solitari, danno a
questa campagna un incanto che altrove non si ritrova: un incanto quale avrebbe
una musica indefinibile dove la giocondità fosse immedesimata con una tristezza
di morte. Il vento non vi cessa mai intieramente, ma pare sempre dire qualcosa
che le piante innumerevoli ripetano l’una all’altra scotendo i rami su per
quell’ampio e continuo andare di poggi.
Guardando questo paese dal cimitero, sembra quasi strano che tanti defunti che un dì lo videro anch’essi, oggi non lo possano più vedere, simili a polvere o fumo disperso: nondimeno, quelli sotterrati di sopra ove spira l’aria serena, si direbbero meno al buio di quegli altri infelici che dormono nel sotterraneo così umido e cupo!
Ma tanto di sopra all’aperto come nel sotterraneo, v’accompagna sempre il silenzio: non c’è caso che mai lo turbi il rumore della città vicina da cui non viene che il suono delle campane: quel suono così armonioso e solenne in Toscana!
Né meno taciturna è la porta della città che è lì a due passi, con la
sua meridiana scalcinata, lo stemma del Comune, e la panchina di pietra, su cui
talora viene a sedersi il gabelliere ozioso. Se non fosse il passeggio
de’visitatori del cimitero, quella sarebbe una porta affatto remota: sembra
riguardare indietro verso altri tempi: i tempi che si dileguarono per sempre
dalle sue mura quando la libertà comunale cessò nel sangue de’ cittadini. La
tristezza di quella fine, con la quale cessa pure un’intiera costituzione
civile, sembra regnare ancora su quelle mura di mattoni rugginosi e consunti,
dalle cui radure escono, come da bocche sdentate, fiori e ciuffi d’erba
vetriuola. In questo luogo Stefano era venuto con la moglie Giovanna e due
figli, l’uno detto Domenico, ma tutti lo chiamavano Filusella per soprannome, e
l’altro, che era il minore, Amerigo. (pp.
10-11)
23 novembre 2004