DUE LIBRI, UNA PAGINA (54)
Letture di Fabio Brotto
Julien Green, Se fossi in te… (Si j’étais vous…,
1947-1970), trad. it. di Clio
Pizzingrilli, Quodlibet,
Macerata 2003. La storia narrata è
quella di un patto col diavolo, dal quale il protagonista riceve il dono di
poter entrare, col solo recitare una formula all’orecchio di un’altra persona,
nel corpo di questa, sloggiandone l’io, e sostituendolo col proprio, mentre
l’io dell’altro, a sua volta, viene infuso nel corpo
del protagonista. Uno scambio fulmineo, che non è che il
punto di partenza di una catena di scambi, potenzialmente infinita. Ho
scritto io, ma in realtà ciò che Fabien prende dagli altri in successione non è solo il
corpo, ma anche le attitudini, le pulsioni, insomma la psiche. Cosa dunque passa dall’uno all’altro? Questo romanzo, il più
problematico tra tutti quelli scritti da Green,
evidenzia tutte le difficoltà di un’antropologia dualistica, che divide
radicalmente nel concetto l’anima dal corpo. In effetti, soprattutto in alcune
di queste successive incarnazioni, i confini tra le identità appaiono quanto
mai labili, e “Fabien” tende a svanire, perfino il
ricordo della formula si annebbia progressivamente in “lui”. Visionario e
soffocante, come tutti i romanzi del Green precedente
la grande trilogia della vecchiaia, che io chiamo della conciliazione, ci
presenta nella figura della giovane Élise, vanamente
innamorata, una degli avatara
di Adrienne Mesurat. Questo
è un romanzo della vanità, nel senso dell’Ecclesiaste. Vano è l’amore di Élise, vano è lo scontento iniziale di sé, che porta Fabien, pencolante tra una sensualità che lo alletta ed un
cattolicesimo di formalistico rigore, a porgere orecchio a Brittomart,
ambigua figura del Tentatore. Vane sono le successive incarnazioni. Vano è
anche il ritorno a se stesso, come mostra il nebbioso finale, poiché lo stesso non è mai stato veramente
tale. Questo è un libro del vuoto.
E c’è una senso di
vecchio cattolicesimo, quello poi che fornisce il quadro generale ai grandi
scrittori francesi che vengono etichettati come cattolici—Bernanos,
Mauriac, Green, ecc.—un cattolicesimo ossessionato
dal senso del peccato (un peccato tutto legato ai sensi) e dalla perdizione
dell’anima, e assetato di grazia, e insieme atterrito dalla difficoltà
dell’ottenerla e del conservarla. Ma qui infine ci si
chiede: che cosa c’è di sostanziale che possa perdersi, stante la fragilità
dell’io, la sua tendenza a farsi altro e a svanire? Dove
sta l’anima? Cosa c’è di veramente unico e stabile nel
tempo, che possa essere graziato?
Fabien è un intellettuale annoiato di sé.
E ancora una volta gli venne lo strano pensiero di non voler più essere se stesso; in modo
inesplicabile sentiva che questo pensiero lo avrebbe arricchito. (p. 65)
E Brittomart
demonio sa parlare, come sempre, in un
modo che l’intellettuale trova irresistibile.
Essere
eternamente gli stessi non è sopportabile per spiriti affinati dalla
riflessione. Uscire da sé, divenire un altro, non è uno dei sogni più
intelligenti che l’uomo abbia custodito in sé? (p.75)
* * * * * * *
Gustaw Herling, La notte
bianca dell’amore (biała noc miłości,
1999), a cura di Marta Herling, L’ancora del mediterraneo,
Napoli 2004. Dostoevskji , Čechov e e Pirandello sono gli ispiratori
dell’unico (breve e tardo) romanzo di Herling. Si
tratta di una narrazione densissima, in cui sono conflate
in uno quasi tutte le tematiche fondamentali della
Modernità e Postmodernità: dall’impossibilità dell’amore di coppia, che insieme
rappresenta l’orizzonte ultimo di senso dell’uomo occidentale, all’assoluta
relatività di tutti i significati; dalla teatralità (il protagonista Luca è un
uomo di teatro, e il sottotitolo è romanzo
teatrale) come ri-presentazione della vita al
testo come fonte insieme sacra e manipolabile; dalla visione fisica a quella
mentale (il protagonista diventa cieco in tarda età); dal senso di colpa (forse
l’amata Ursula è la sorellastra, forse per lei Luca ragazzo ha lasciato morire
affogato il rivale) alla fuga dalla realtà nel sogno; dal viaggio (a Venezia)
alla scrittura come riscrittura senza fine; dalla crisi della famiglia alla
maschera che copre ogni volto… e via enumerando. Questo è anche un romanzo
sulla letteratura, un metaromanzo, come i
numerosissimi riferimenti ad opere e scrittori testimoniano ad ogni passo. Mi
colpisce, in particolare, l’ostinazione di Luca regista nel voler correggere i
finali di Dostoevskji, di cui ha adattato per il teatro
Le notti bianche, e Čechov. In fondo, chi corregge si pone su di un piano più
alto, in qualche modo, e per correggere i due grandi russi ci vuole un bel
coraggio, una sorta di hybris… o una incapacità di capire fino in fondo. Propendo per la
seconda ipotesi. I due epiloghi, l’uno più desolato dell’altro, che infine il
romanzo propone, sono un ulteriore tributo alla
relatività del tutto e all’indifferente Postmodernità da cui stiamo forse,
molto faticosamente, uscendo. Trovo molto bello l’epilogo secondo.
Nei giorni di
bel tempo, quando l’angolo sotto gli olmi era deserto, si disponevano in
cerchio attorno alla tomba, tenendosi per mano e cantando sottovoce. Che cosa cantavano? Nel canto infantile ricorreva un
ritornello inglese: «They remarried
on the mortal carpet». Mary
li accompagnava con un ritornello in dialetto indu,
probabilmente originario di una parte dell’India dove per le vedove vigeva
ancora l’obbligo della concremazione. Come poi risultò, era più lungo della versione inglese:
I defunti, uniti in nuovo matrimonio sul tappeto funebre, si amino nei
secoli dei secoli. I vivi che li onorano danzando intorno al rogo finché non
si consumi, continuino a vivere in nome di un amore eterno, che la morte non
può spezzare. In nome di un amore che apre la porta di una
vita nuova e diversa. (p. 129)
25 marzo 2005