DUE LIBRI, UNA PAGINA (55)
Letture di Fabio Brotto
L’imminente caduta del Secondo Impero riverbera
una luce sanguinosa sui personaggi de La
bestia umana (La Bête
humaine, 1890, trad. it. di
L. Collodi, Newton Compton,
Roma 2003). Insieme al loro desiderio scatenato (sessuale anzitutto, e anche di
denaro, di felicità e autoaffermazione – la chimera, lo sfuggente frutto che
per tanti rami va perseguendo la fame dei mortali) è posta qui in scena la
Modernità travolgente, travolta e sanguinante. Il suo segno è la ferrovia, il
treno che passa come una folata di vento, portando con sé centinaia di persone,
folla i cui volti appaiono per un attimo al casellante che vive isolato, uomini
e donne trascinati nel gorgo della vita. E il treno si
muove, è la macchina semovente, che annulla le distanze, che per la prima volta
nella storia sembra rendere insignificante ciò che separa gli umani, lo spazio.
Jacques Lantier il
macchinista e la sua amante possono incontrarsi spessissimo, e godere della loro passione, grazie alla macchina che in poco
tempo copre la distanza tra Le Havre e Parigi: una
storia d’amore del tutto impossibile solo pochi anni prima, prima del trionfo
della techne. È un amore mediato
dalla locomotiva, a sua volta oggetto d’amore e vivente di una sua vita, di una
sua personalità. La macchina che si muove appare animata, e con lei s’instaura
un rapporto di devozione, una relazione con sfumature erotiche (fin dagli inizi
dunque: è qualcosa di legato al movimento, le macchine che stanno ferme non
suscitano vero amore come sanno fare locomotive, navi, automobili, aerei…). Nel narrare l’incidente ferroviario in cui muoiono molte persone e
muore anche la Lison, la locomotiva, Zola attinge un
livello espressivo di forte impatto emotivo (che dovrebbe indurre, come molti
altri passi zoliani, i redattori dei testi scolastici
ad una maggior prudenza, e forse a leggere i libri di cui parlano…).
Quel climax era già stato anticipato nel racconto del primo incidente della Lison, fermata da un muro di neve.
Jacques si avvicinò e si chinò a sua volta. Aveva già
notato, esaminando con cura la Lison, che era ferita.
Nello spalare, si erano accorti che alcune traversine di legno, lasciate dai cantonieri lungo la scarpata, erano scivolate, sotto
l’azione della neve e del vento, sbarrando le rotaie, e anche la brusca
fermata, doveva dipendere in parte da quell’ostacolo, poiché la locomotiva ci
aveva urtato contro. Si vedeva l’ammaccatura sulla scatola del cilindro, nel
quale il pistone era leggermente spostato. Apparentemente sembrava
il solo danno, il che, in un primo momento, aveva rassicurato il
macchinista. Forse, però, erano state causate anche gravi
lesioni interne: non c’è nulla di più delicato del complicato meccanismo dei
cassetti di distribuzione, dove batte il cuore, vive l’anima della locomotiva. Jacques risalì, fischiò, aprì il regolatore, per
controllare le articolazioni della Lison. Fu lenta a
mettersi in moto, come una persona, indolenzita da una caduta, che ritrova a fatica l’uso delle membra. Finalmente, con
doloroso affanno, si mosse, girò le ruote, ancora
stordita, pesante. Poteva andare, sarebbe riuscita a camminare, avrebbe fatto il viaggio. Jacques,
però, scosse la testa: lui che la conosceva a fondo la sentiva strana sotto le
mani, cambiata, invecchiata, ferita da qualche parte da un urto fatale. In
mezzo alla neve aveva ricevuto quel colpo al cuore, nel freddo mortale, come
quelle donne giovani, solidamente piantate, che se ne vanno in pochi mesi di
mal di petto, per essere rincasate una sera dal ballo, sotto una pioggia
ghiacciata. (p.184)
Se le potenti locomotive sono la cifra della techne dilagante, anche il desiderio non
ha limiti e, non controllato, tende, quasi per intima necessità, a farsi
omicida. Roubaud
uccide l’antico amante di sua moglie Séverine, a
coltellate, durante un viaggio in treno, aiutato dalla stessa
; Séverine, che ha partecipato a quel delitto,
desidera che suo marito sia ucciso, e spinge il suo amante Jacques
all’omicidio; Jacques ha in sé fortissima la pulsione
a uccidere le donne, è un serial killer in potenza: sta per uccidere Flore che
desidera, infine uccide Séverine; Flore causa una
strage facendo deragliare il treno per uccidere Jacques,
di cui è innamorata, e l’odiata Séverine; l’avido e
miserabile Misard uccide la meschina avara Phasie mettendole del veleno per i topi nel liquido
destinato al clistere; Pecqueux tenta di uccidere Jacques scaraventandolo giù dalla locomotiva e muore
cadendo con lui.
* * * * * *
Il generale dell’armata morta
di Ismail Kadaré (Le général de l’armée morte,
1970, trad. it. di A. Donaudy,
Corbaccio, Milano 2004). Bisognerebbe coniare la
categoria di romanzo di
esumazione, per poter collocare questo romanzo di Kadaré in un sottogenere adeguato. La storia narrata è
quella di un generale italiano, che in compagnia di un prete che ben conosce
gli Albanesi e i loro costumi (e che di cristiano sembra avere ben poco, e pare
un semplice funzionario), a vent’anni dalla fine dell’ultima guerra trascorre
molti difficili mesi nel paese delle aquile, per recuperare e poi riportare in
Italia i corpi di migliaia di caduti. Non è un compito facile, e la popolazione
non è amichevole. La storia è quanto mai desolata e lascia nel lettore un
profondo senso di vuoto e di estraneità. Il
personaggio del generale non è simpatico, è un uomo rigido e ligio al dovere, e
non molto portato alla comprensione dell’altro, che qui è davvero altro per usi, costumi, senso della vita,
della morte e dell’onore. Basti pensare alla vicenda della morte di Nik Martini, che il giorno dello sbarco italiano sulle
coste albanesi prende il fucile e da solo si reca a combattere gli invasori. Questo
è un romanzo per tutti coloro che vogliono fuggire i
luoghi comuni e pensare l’alterità tra gli umani.
“È sorprendente” disse il generale (…) che un uomo solo possa pensare di combattere contro un esercito.”
“Ritengono un onore
combattere isolati”, replicò il prete. “È una loro antica tradizione.” (pp.140-141)
8 aprile 2005