DUE LIBRI, UNA PAGINA (57)
Letture di Fabio Brotto
Stanno accadendo cose strane nei libri, ora che l’informatica domina, e
il vecchio correttore di bozze non esiste più. Cose strane che emergono anche
in edizioni costose e curatissime come quella del pregevole (e costoso: 48
Euro), fondamentale studio di Quirino Principe Il teatro d’opera tedesco (II, 1830/1918) (L’EPOS, Palermo 2004),
in cui troviamo, solo per fare un esempio, a pag. 28
un pericolo in luogo di periodo, e a pag. 41 un testo in luogo di teatro. Il computer corregge, in modo non sempre opportuno,
l’errore nelle singole parole, ma non è in grado di cogliere e giudicare la
sensatezza di una frase complessa. E ormai è ben
difficile leggere un libro, e in particolare un romanzo, potendo contare su di
una scrittura perfettamente corretta. Non parliamo poi delle traduzioni. Anche
case come Einaudi ci danno traduzioni, anche da lingue comunissime come
l’inglese, di affidabilità malcerta. Non in tutto è
progresso.
Così nell’interessante, ma fallito, romanzo
di Maurizio Maggiani Il viaggiatore notturno (Feltrinelli, Milano 2005), troviamo qualche passaggio che lascia perplessi. Frasi
stilisticamente ambiziose come “Nel cibarsi tenevano un comportamento
austero anche i ragazzi; la leggiadria sciorinava da un improvviso brillio di orecchini nella penombra, lampeggiava per un solo attimo
dal biancore di un sorriso scaturito dal viola cupo della notte”. Dove il verbo sciorinare appare usato in modo talmente fuori
dall’ordinario da far nascere qualche sospetto, mentre a pag. 30 il
lettore è certo di una confusione: “E i loro sensi di colpa le inducevano a
subornare vaghe insidie e malcelati
pericoli…” sfiora un involontario
effetto di comicità nonsense. A parte
ciò, l’ultimo romanzo dell’autore del Coraggio
del pettirosso non è, come si diceva,
privo di interesse. Intanto perché in esso troviamo il ripresentarsi dell’interlocutore islamico
(qui è un Jibril che ha il ruolo di narratario), come
se lo scrittore avesse il bisogno di proiettare la narrazione del narrante
(anche qui un io, come al solito) entro una dialettica di diversi davvero
diversi. Solo che, esattamente come avviene nel romanzo di Nigro
Malvarosa,
il narratario islamico, rimanendo piuttosto passivamente tale, non si può porre
come interlocutore reale, e la sua islamicità risulta infine un dato
abbastanza epidermico. Il secondo elemento piuttosto interessante è la figura
della Perfetta, strana ombra carnale che si aggira nei Balcani
insanguinati dalle guerre, bogumilla che rimanda a quel catarismo ogni tanto presente
nella narrativa contemporanea, con esiti solitamente non eccelsi. Sembra che
gli scrittori siano affascinati dall’elemento folclorico-esoterico
e non vogliano impegnarsi nella penetrazione del residuo dualistico-cataro
presente e operante in profondità nell’Occidente (e che si può cogliere, in
forma più o meno travestita—ad esempio in Kierkegaard
e in Simone Weil…). Ambientato nella regione dell’Assekrem, tra i Tagil, il romanzo
vive dell’incombente presenza-assenza di père Foucauld,
che si proietta sopra la coscienza del narratore, che là si trova come irundologo, in attesa di un arrivo delle rondini migranti dall’Europa
verso il cuore dell’Africa. E il narrante narra, del suo presente e del suo passato,
della visita al postribolo africano e dell’assedio di Tuzla,
dell’armeno Zingirian e dei suoi vagabondaggi,
dell’orsa quasi-antropofaga Amapola
in fuga dalla guerra e dell’uomo misterioso che da millenni cammina per
giungere ad assistere alla nascita del Profeta, oscillando tra realismo e
realismo magico, ma la sua narrazione sembra infine chiudersi con troppa carne
al fuoco per sole 193 pagine.
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I Tedeschi
sono stati “…finora incapaci di far emergere gli orrori della guerra
aerea nella coscienza collettiva attraverso raffigurazioni storiche o
letterarie”. Questa,
sintetizzata a p. 95, è la tesi
centrale del libro di W.G. Sebald Storia naturale della distruzione (Luftkrieg und Literatur, 2001, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano
2004). Un libro bellissimo, scritto da una persona che non
distoglie lo sguardo, così che esso possa cogliere le altezze e le profondità,
e la tragicità del quotidiano, e la significazione contenuta nei piccoli
oggetti. Come alle pp. 76-77.
Del resto in Corsica, e precisamente nella chiesa
di Morosaglia sovraccarica di polverosi ornamenti pseudobarocchi, ho visto ancora qualcos’altro,
ovvero — mi sia consentita la digressione — il
quadro appeso nella camera da letto dei miei genitori: un’oleografia
raffigurante, sullo sfondo dell’orto del Getsemani illuminato dal fievole
chiarore della luna, un Cristo di nazarena bellezza immerso nei suoi pensieri
la notte che precede la Passione. Per molti anni questo quadro era rimasto là,
sopra il letto matrimoniale dei miei genitori, finché un bel giorno scomparve — probabilmente quando fu deciso di cambiare la
mobilia della stanza. E adesso quel dipinto, o per lo meno una sua copia, stava
in un angolo buio nella chiesa di Morosaglia,
il villaggio natio del generale Paoli, appoggiato
allo zoccolo di un altare laterale. I miei genitori mi avevano raccontato di
averne fatto acquisto nel 1936, poco prima del loro matrimonio, a Bamberga, dove mio padre era sottufficiale addetto ai
veicoli nello stesso reggimento di cavalleria in cui, dieci anni prima, aveva
iniziato la sua carriera militare il giovane Stauffenberg.
Tali sono gli abissi della storia: tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo
sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore
e di vertigine.
Ma il nucleo più profondo della vertigine
della storia è l’antisemitismo. Inestirpabile, implacabile, risorge
sempre nuovamente, ovunque, non è mai spento. Ricordo che nel mio liceo,
durante le discussioni sull’intervento della NATO nei Balcani, un insegnante di greco, che era anche un pope
ortodosso, sosteneva che l’intervento a favore dei Kossovari
musulmani contro i Serbi cristiani fosse stato architettato dagli Ebrei. Perciò io, a differenza di Sebald,
avrei subito creduto ai miei occhi leggendo quel che lui ha letto (p. 99).
Per finire, mi resta ancora da commentare una lettera che,
attraverso la redazione della «Neue Zürcher Zeitung», mi è arrivata
a metà giugno dello scorso anno da Darmstadt e che
rappresenta, al momento, l’ultimo scritto da me ricevuto sul tema della guerra aerea. Uno scritto che
dovetti leggere e rileggere più volte perché, sulle prime, non credevo ai miei
occhi. La tesi ivi sostenuta era che, con la guerra aerea e la
conseguente distruzione delle città, gli Alleati avrebbero perseguito
l’obiettivo di troncare le radici e il retaggio dei tedeschi, al fine di
preparare quell’invasione culturale — compresa l’indistinta americanizzazione del paese —
che in effetti si produsse poi nel dopoguerra.
Questa strategia, deliberatamente perseguita — continua
la lettera da Darmstadt —, sarebbe stata escogitata dagli ebrei che vivevano all’estero, e
ciò grazie alle particolari conoscenze in fatto di
psiche umana, di culture e mentalità straniere da essi notoriamente acquisite
durante i loro continui spostamenti.
19 maggio 2005