DUE LIBRI, UNA PAGINA (58)
Letture di Fabio Brotto
Si inseguono e si intrecciano, ma non dialogano fra loro, i pensieri e i
ricordi dei cinque personaggi di Transit, romanzo di Abdourahman A. Waberi (Transit, 2003,
trad. it di A. Belli, Morellini
Editore, Milano 2005). Sono tutti in fuga dall’Africa, i personaggi, e passano
poche ore nella zona transit
dell’aeroporto Charles De Gaulle.
C’è l’intellettuale schiacciato dagli eventi, Harbi,
c’è la moglie bretone Alice, c’è il figlio giovane Abdo-Julien,
c’è il vecchio Awaleh ancora legato alle radici culturali-mitiche africane, e soprattutto c’è il guerriero Bashir Bin Laden,
il cui nome di battaglia è già promessa di massacro
senza fine. È proprio quest’ultimo ad apparire ad una coscienza occidentale
come il soggetto più interessante, uno che esprime una visione della vita
durissima, sconvolgente, davvero totalmente altra rispetto al politicamente
corretto, ai buoni sentimenti, alla stessa cultura democratico-progressista
contemporanea (e altra rispetto anche a molte altre
cose). I pensieri di Bashir Bin
Laden sono resi in un linguaggio spesso sgrammaticato
e terribilmente mimetico, dal quale emergono tutte le pulsioni dalle quali
l’Occidente ha scelto di distogliere lo sguardo. Non è il solito libro di
denuncia anticolonialista antimperialista terzomondista,
questo, né Waberi vuole invocare una non
responsabilità degli Africani per ciò che in Africa è accaduto e continua ad
accadere. L’odio per l’Altro africano da parte dell’africano stesso (qui Wadag e Walal provano un odio ancestrale gli uni verso gli altri) è una realtà terribile
con cui fare i conti. A Bashir Bin
Laden la guerra piace moltissimo, e il kalashnikov è lo strumento di lavoro amato,
l’irrinunciabile mezzo della realizzazione di sé.
Nella pace, confessa, non si è felici.
Senza kalashnikov
non si può più arraffare le ricchezze che sono dappertutto. Non è carità,
questa. E poi ‘sta vita civile è triste, non sei più
feroce con nessuno. Le belle ragazze, ti boicottano.
Le brutte ragazze, si girano dall’altra parte quando passi davanti alla loro
faccia. I perenni disoccupati, gridano “ecco guarda un nuovo disoccupato”
mentre prima facevi: pum! un
calcio in pancia tieni stronzo beccati questo e porta
a casa. Anche i polli ridono di te. La città, lei
dice: la guerra non è bella, non è bella, come il cantante congolese.
Io non sono d’accordo. Io dico la guerra è troppo
bella. (p. 35)
La
guerra è qui scatenamento di tutte le pulsioni. Bashir
e compagni si drogano, rapinano, stuprano, vedono morire senza alcun patema
d’animo bambini-soldato gettati in battaglia, massacrano bestie e umani allo
stesso modo. Sperimentano una esaltazione della
virilità come potenza illimitata e senza legge. Una sorta di orgasmo marziale
permanente, si potrebbe dire.
Noi, i mobilitati, eravamo felici.
Avevamo le armi, il diritto di fare tutto quello che vogliamo.
E poi la battaglia non era ancora feroce. Era statu quo (anche questo è linguaggio militare). Parità. E anche molti morti, soprattutto ribelli o civili che aiutano sotto
sotto i ribelli. Attenzione, bisogna essere
seri, ci sono dei morti tra noi, soprattutto giovani mobilitati senza
esperienza come me, o Aïdid, Warya,
Ayanleh, Haïssama. Un sacco
di giovani mobilitati (chissà perché, dico giovani mobilitati, sono tutti
giovani, no?) si sono beccati pallottole nello stomaco. Questa è la guerra ma
non bisogna piangere troppo come le mamme. Un uomo con il vero coso duro tra le
gambe non piange mai come femminuccia. Punto e basta. Strisciate. (p. 47)
*
* * *
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Si può pensare miticamente? È
quel che cerca di fare nei suoi libri James Hillman, la cui intera opera non è che una glossa alla
poesia filosofica di Schiller Gli dèi della Grecia (“Sì, tornarono a
casa, e presero con sé / ogni bellezza, ogni grandezza, / ogni colore, ogni
vita, / lasciandoci solo una parola senz’anima” - trad. G. Moretti). Confesso
di aver letto il suo Saggio su Pan molti anni fa, e di non aver più
cercato lo suo volume, perché non
sono un nostalgico degli dèi del politeismo, e giudico la loro espulsione dal
mondo, strettamente legata all’avvento del monoteismo e alla nascita del
pensiero scientifico, un evento necessario, e il loro ritorno impossibile. Sono
uno che pensa che la scienza e l’economia del libero scambio (e anche la
democrazia come è oggi intesa) non siano nate per caso
nel grembo della Christianitas.
Solo la comprensione del divino come trascendente e totalmente altro, e la
spogliazione del mondo del mito e del sacro, con la sua riduzione a mera
natura, potevano consentire l’espansione del pensiero scientifico. Ma certo dèi e mito si sforzano di tornare, in molte forme (una è
stata il nazional-socialismo, come è noto). Alcune paiono particolarmente
seducenti e accattivanti, e innocenti, come in Calasso
e Hillman, ma mi sembra che sia opportuno criticarle
e respingerle.
Il saggio Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of
War, 2004, trad. it. di A. Bottini, Adelphi,
Milano 2005) presenta una spaventosa ambiguità. Da un lato Hillman
si professa pacifista (senza che il suo concetto di pace appaia razionalmente
fondato), mentre dall’altro, come capita a molti pacifisti, le sue pagine
grondano di odio verso il Cristianesimo e verso
l’America. Sembra, a leggere Hillman, che le guerre
distruttive le abbiano inventate i monoteisti.
Potremmo chiedere con Simone Weil: e i Romani? E Cartagine? E
Corinto? E aggiungere: e Gengis
Khan? Il risentimento di Hillman nei confronti del
suo stesso popolo è fortissimo, a suo parere tutti gli
statunitensi sono bambini col fucile in mano che si rifiutano di diventare
adulti. Si avrebbe buon gioco a rovesciare la prospettiva di Hillman contra Hillman, facendo vedere
come il suo sia un pensiero infantile sotto veste psicoanalitica (oh,
come si presta la psicoanalisi a favoleggiamenti e bambinerie d’ogni sorta… lasciamo perdere). Mi limito a
citare le righe più interessanti, che rivelano come pensiero e mito si fondano in una mostruosità senza nome quando non è il
pensiero a pensare il mito, ma il mito a impossessarsi del pensiero.
Mettiamo che la guerra di secessione, che ha
segnato indelebilmente la terra e inciso cicatrici permanenti
nel carattere del popolo americano, sia stata un sacrificio offerto da una
società cristiana secolare a un dio o a dèi che fino a quel momento erano stati
trascurati, dèi della terra, dèi onorati su quella terra e mantenuti in vita su
quella terra dalle popolazioni che ci abitavano da secoli, da prima che i
combattenti indossassero la divisa azzurra e la divisa grigia.
Mettiamo che gli dèi del
suolo di questo « nuovo mondo
» stessero dicendo: « Non potete sbarcare qui; non
potete rivendicare questa terra con il solo sudore della fronte, né con leggi e
trattati e nemmeno con l’espulsione di altri e il diritto del vincitore. Per
avere diritto a questa terra dovrete pagarla con il vostro sangue, e finché non
avrete pagato essa non sarà veramente vostra; rimarrete dei coloni, ancora
attaccati nell’anima a un’altra madre, dei profughi da
essa, dei ribelli contro di essa, segretamente suoi servi, e non avrete
lasciato che questa terra compia la sua nascita nella libertà ». (pp. 118-119)
16 giugno 2005