DUE LIBRI, UNA PAGINA (59)
Letture di Fabio Brotto
Un
romanzo davvero ricco e robusto è il capolavoro di Laxness Gente
indipendente (Sjálfstætt
Fólk, 1934-35, trad. it. Iperborea, Milano 2004) la cui complessità di registri e di
stratificazioni culturali deve aver fatto versare lacrime e sangue alla
valorosa traduttrice Silvia Cosimini, che ringrazio
per il piacere che mi ha dato la lettura. Vecchio frequentatore di Leopardi,
ogni volta che sento nominare l’Islanda mi viene in
mente quel celebre dialogo delle Operette
morali. Giustamente da Leopardi l’Islanda vi è posta come la terra meno
adatta all’uomo, quella in cui la natura lo fa maggiormente patire, chiamandolo
ad una lotta senza fine. E senza fine nel romanzo di Laxness è la lotta del poderoso allevatore di pecore e
contadino Bjartur contro gli elementi naturali, dalla neve ai parassiti alle
malattie degli animali, e contro gli umani, dentro e fuori la sua famiglia.
Odia le novità Bjartur, e rimpiange i tempi antichi degli Jomsvichinghi, i
tempi dell’eroismo e delle questioni risolte a fil di spada. La sua è anche una
battaglia culturale di assoluta retroguardia. Infatti,
egli compone e manda a memoria versi, in stile arcaico, e disprezza ogni
espressione della modernità. Ma la Modernità lo assale da ogni parte,
minacciando il suo valore supremo, l’indipendenza, che per lui è una sorta di
incondizionata autarchia. La transizione dell’Islanda, il suo salto nel mondo
moderno, che avviene con la Prima Guerra Mondiale, distrugge i sogni di
Bjartur, ma non lo vince: e anzi gli fa conquistare una sorta di
perfezionamento spirituale, con la comprensione della necessità che la lotta
sia accompagnata dall’amore (per la sventurata figlia Ásta
Sóllilja, alla fine della storia).
Il
solitario epos che Bjartur costruisce per sé stesso ha qualcosa che sfiora la hybris.
Eppure quest’uomo che perde due mogli e quasi tutti i suoi figli, e rinuncia
alla possibile terza compagna per non perdere l’indipendenza, non corrisponde
al canone del padre-padrone. Perché l’indipendenza è
per lui il valore per eccellenza, vorrebbe che fosse per tutti. Ma non ha la
capacità di riflettere sulla questione: non è un pensatore ma un lottatore. La
sua vera dimensione affiora nel momento in cui, solo nella grande brughiera,
cerca di catturare a mani nude una renna maschio finendone trascinato nelle
acque gelate di un fiume.
Un’
attenzione particolare richiedono le figure femminili
del romanzo. Dalla vecchia nonna che, come dice uno dei due
ragazzi in quel mirabile dialogo tra fratelli che si svolge “sul piancito” nel
cap. 40, “sa tutto, sopra e sotto la terra”, cosicché “chi capisce la nonna
capisce tutto” (p. 369), a sua figlia la seconda moglie, che pensa di aver
avuto come migliore amica della sua giovinezza una donna del “popolo nascosto”
degli Elfi, alla prima moglie, che la
dieta a base di pesce conservato rende così bramosa di carne che, lasciata sola
dal marito con un agnello a farle compagnia, dopo una notte di tregenda si leva
dal letto con una brama invincibile:
Si mise al l’opera
con tutta calma, scostò il vello dalla gola della pecora come un mattatore provetto, ma ormai la bestia aveva presentito la morte e tremava
sotto le mani della donna, gemeva a bocca aperta, le narici dilatate, dimenandosi convulsamente nelle sue corde. La donna, ben lungi
dal provare compassione e pietà in quel
momento, si sistemò seduta a cavalcioni sulla pecora distesa, cercò di puntellarle il corpo con i piedi, e
finalmente riuscì a bloccarla in
modo tale che non le parve
più rischioso avvicinarle la falce alla gola. La falce non era l’ideale
come coltello da macello: benché la lama fosse affilata, si impugnava
così male che bisognava fare estrema attenzione a non ferirsi; dovette prenderla con entrambe le mani,
perdendo così il controllo della testa della pecora in agonia. Ma non si lasciò assolutamente
scoraggiare da questa difficoltà
e continuò a incidere e segare il collo della pecora, con le mani schiumanti di sangue caldo che
le schizzava fin sul volto. A poco a poco la
bestia perse così tanto sangue che smise di agitarsi, smise perfino di alzare
la testa, e rimase rantolante a bocca aperta.
Finalmente la donna trovò le vertebre
del collo. Spinse la lama sempre
più in fondo, uno spasmo voluttuoso percorse la bestia, distesa lì tra
le sue gambe,e più niente si mosse se non la coda. La ferita al collo era così
larga che si vedeva il midollo candido. Lo tagliò di netto, ci fu un
ultimo tremito, e la pecora fu morta. Poi
la donna staccò la testa dal
busto e lasciò sgocciolare la
carcassa nel ruscello; c’era del sangue sull’erba. La donna sedette
sulla riva e si lavò le mani e la
faccia sotto il flusso della cascata, ripulì con cura la falce sul muschio. Le
venne un brivido e si sentì esausta, quasi intontita, e non si diede più pensiero per quello che aveva fatto, barcollò fino a casa per vestirsi e si sedette sul letto, l’eccitamento svanito, aveva placato i suoi istinti, e con l’appagamento le corse per tutto il corpo un piacevole torpore in quell’alba
grigia, si lasciò ricadere indietro,
tirò la trapunta sulle spalle nude e si
addormentò. (pp. 108 – 109)
A dimostrare che la
propensione a versare il sangue di altri esseri viventi e a godere
dell’ebbrezza dell’uccidere non è di uno solo dei due generi di cui si compone
la stirpe degli umani.
* *
* * *
* *
Anni di
guerra in trincea nel 73° reggimento di
fucilieri d’assalto Gibraltar,
tutte le terrificanti battaglie del Fronte Occidentale, una infinità
di bombardamenti, spesso con i gas asfissianti, innumerevoli attacchi e azioni
di pattuglia sotto le posizioni nemiche, molte ferite, la morte evitata per un
soffio in molte occasioni: il racconto delle esperienze dell’alfiere e poi
tenente Ernst Jünger ci
conduce alle soglie dell’indicibile. Ai confini dell’impossibilità di
giudicare. Nelle tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern, prima ed.
1920, trad. it. dell’ed.
1978 di G. Zampaglione, Guanda,
Parma 2000) è un libro in grado di spiazzare qualsiasi
lettore. Saltano le categorie politiche e morali, in un certo senso siamo
proiettati dentro uno sconvolgente epos fatalistico, in cui la guerra è, puramente e semplicemente è: trascende il singolo, collocandolo in
un mondo altro, un mondo in cui la sua unica possibilità di scelta sta nell’accettazione
o nel rifiuto del coraggio. E Jünger
è propriamente un coraggioso, un eroe, se per eroe in guerra intendiamo un uomo
pronto a qualsiasi rischiosa azione, nella consapevolezza che la morte gli è
sempre accanto. Nello stesso tempo, il mondo di Jünger
appare privo di connotazioni ideologiche. E dell’odio
ideologico del nemico. Qui il nemico è un alter ego, contro cui
purtroppo il fato (come altro chiamarlo?) obbliga Jünger
a combattere, come obbliga gli eroi di Omero. Gli Inglesi sono visti come buoni
combattenti, sono rispettati. Anche gli Indiani del 1°
reggimento Hariana Lancers, con
cui il Gibraltar
si scontra duramente, appaiono degni avversari. L’impressione più forte che
questo libro determina in un lettore del 2005 è data
dal fronteggiarsi di due eserciti civili, che trattano bene, come uomini, i prigionieri, e nello stesso tempo fanno uso
di armi terribili, annientando in una sola battaglia centinaia di migliaia di
giovani vite umane. Un duello per il dominio dell’Europa,
combattuto da milioni e da singoli, voluto dal fato e registrato da Jünger in modo olimpico. Come se
la questione del senso non si ponesse. Si succedono i caduti, chiamati
per nome.
Frattanto il nemico, dopo un leggero ripiegamento,
incominciò un nutrito fuoco di armi automatiche
durante il quale un fucile Lewis, in posizione a
cinquanta metri da noi, ci costringeva ad abbassare continuamente la testa. Da
parte nostra, una mitragliatrice leggera raccolse la sfida. Per mezzo minuto
le due armi crepitarono l’una contro l’altra investendosi con una reciproca
grandine di proiettili. Poi, il nostro mitragliere, il soldato scelto Motullo, si abbatté colpito alla testa. Benché
la materia cerebrale gli colasse sul viso fino al mento, era ancora cosciente
quando lo portammo al più vicino rifugio. Motullo era
un uomo maturo; di quelli che non si sarebbero mai presentati come volontari;
ma durante quella sparatoria, mentre era disteso dietro la sua mitragliatrice,
lo osservai bene: nonostante le salve gli fioccassero
tutt’intorno, non piegava la testa di un millimetro. Quando
gli chiesi del suo stato, mi rispose con frasi coerenti. Ebbi l’impressione che
quella ferita mortale non gli causasse eccessivo
dolore; forse non aveva nemmeno coscienza della sua gravità. (p. 241)
Ecco la
sorte del mitragliere Motullo, che cade a Cambrai come sarebbe potuto cadere tremila anni prima sotto
le mura di Troia.
7 luglio2005