DUE LIBRI, UNA PAGINA (60)
Letture di Fabio Brotto
Ne Il canto dell’essere e
dell’apparire (Een lied van schjin en wezen, 1981, trad.
it. di F. Ferrari, Iperborea, Milano 1991 5ª ed. 2000) Cees Nooteboom svolge il tema del
rapporto tra la scrittura narrativa e la realtà che vi è rappresentata (che
spesso si chiama vita, e sono due
termini vaghi, sovrapposti, definire i quali è ardua impresa). Metaletteratura, ma aggraziata direi, e
lieve, e breve nella misura delle novanta pagine. La storia è doppia: v’è da un
lato una coppia di scrittori, senza nome, uno dei quali concepisce una storia
ambientata un secolo prima in un paese a lui del tutto sconosciuto, la
Bulgaria, e destinata a concludersi a Roma. Perché in
Bulgaria, perché un secolo prima? Lo scrittore non sa
spiegarselo, i personaggi gli sono inspiegabilmente apparsi, e sembrano vivere
una vita indipendente, e nello stesso tempo sono senza dubbio sue creature.
Sono due militari bulgari, un colonnello e un medico, e la moglie di questi,
pazza e affascinante. La storia sembra essere quella di un banale triangolo
ottocentesco. Eppure, al di là dei giochi di scrittura
e delle sottigliezze para-filosofiche (la realtà
del mondo dei personaggi narrati appare più reale
di quella del mondo dello scrittore), il testo mi sembra comunicare la
verità più profonda di ogni rappresentazione (né credo che Nooteboom
ne sia del tutto consapevole):il fatto che ogni rappresentazione contiene
sempre, anche se non sempre evidenti, due fattori: il desiderio e la rivalità. Infatti qui si intrecciano due rapporti rivalitari, quello
posto nel passato della rappresentazione, tra il colonnello e il dottore, e
quello nel presente, tra lo scrittore che pensa la storia dei bulgari e lo
scrittore numero due, un disincantato autore commerciale di successo che vende
grandi quantità di libri, sicuro che nessuno li ricorderà. Nel triangolo
amoroso il medico desidera la moglie del dottore, che a sua volta ha bisogno
del desiderio del colonnello per desiderare sua moglie, e anche per gustare le
bellezze di Roma, che gli debbono essere mediate dalla
presenza di un individuo più rozzo, da istruire, a cui aprire gli occhi, con
cui istituire un rapporto maestro-allievo, che è sempre un rapporto di
rivalità. E vi è triangolo anche nel caso degli scrittori, perché essi sono in relazione al pubblico dei lettori, e in conflitto per il
successo. Infatti, è quando il secondo scrittore
telefona al primo per proporgli un premio letterario che il primo getta nel fuoco i fogli in cui aveva
scritto il racconto (il movente della rinuncia alla storia, del gesto
sacrificale è chiaramente il rapporto mimetico con l’altro speculare).
Riflettendo su questo libro sottile (in tutti i sensi) mi è venuto in
mente un passo di un saggio di John Brenkman Sull’innovazione. Romanzo, modernità,
nichilismo, contenuto nel III volume della grande opera
Einaudi sul romanzo (a p. 673): “Spesso i romanzieri affrontano l’angoscia e la
saggezza dell’incertezza con strumenti più duttili e versatili dei filosofi. Il
dibattito filosofico sul postmoderno è stato ossessionato dal desiderio di
abbracciare pericoli e doni della modernità con un solo sguardo concettuale. Ma l’epoca moderna ha prodotto l’Illuminismo, la democrazia
e la responsabilità collettiva verso il futuro, e anche il razzismo, la schiavitù, il colonialismo e l’Olocausto.
La tentazione di attribuire tutte le catastrofi moderne all’antimodernità è meno sconsiderata ma non più persuasiva della visione che
ne fa la conseguenza inevitabile dell’Illuminismo. Entrambe le posizioni
cercano un’ancora filosofica per un mondo privo di essenza
costitutiva, come se il baratro non fosse senza fondo, e come se la politica e
l’arte non fossero, tra tutte le pratiche umane, le più ricche di doni e pericoli”.
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Il romanzo di Gaetano Cappelli Il
primo (Marsilio, Venezia 2005) è stato scritto per un certo ambiente
anzitutto, e ad esso parla in un certo modo, e questo
parlare è lo strato più superficiale e immediatamente leggibile del testo.
L’ambiente è quello intellettuale cui Cappelli appartiene
e che ben conosce (case editrici, salotti, artisti, editors, gente di spettacolo e di
televisione, e la folla immensa degli aspiranti scrittori—gente spesso
meschina, ignorante e sanza lettere—che premono insistono si fanno
in quattro per poter ottenere ciò che tutto il loro essere brama: la
pubblicazione). Ma il libro nel sistema del mercato è
un oggetto che potenzialmente si rivolge ad ogni ambiente, ad ogni lettore. E
io, che sono un estraneo a quell’ambiente, non mi sono chiesto quali scrittori
italiani siano presenti nella storia sotto
(parzialmente) mentite spoglie. Mi sono chiesto, invece, quale sia il senso complessivo di questo romanzo meta-metaromanzo. Se ne potrebbe fare un’analisi attenta,
decostruendone tutte le scene e i passaggi fondamentali, evidenziando i rimandi
a luoghi canonici della letteratura e della metaletteratura dell’ultimo secolo.
Si potrebbe insistere sull’aspetto tipico del romanzo di formazione con provinciale
povero e capace che cerca il successo nella capitale, infilzando una serie di
citazioni da Illusioni perdute in
avanti. O sulla rottura della convenzione romanzesca operata
con l’immissione dell’autore prima come personaggio secondario poi come arbitro
supremo della vicenda, a conclusione della stessa. Ma è un gioco che il
testo di Cappelli a mio parere, nonostante le apparenze—e forse le convinzioni
dello scrittore stesso— rifiuta. Qui per me la cosa
più interessante è un’altra. Questo non è un romanzo sugli ambienti editoriali
e sui neoscrittori, ma, come dice il titolo, è un romanzo sulla priorità. L’io scrivente, con cui Cappelli gioca
in modo palese, e palesissimo nelle ultime pagine, è
dominato da quello che René Girard chiama desiderio
metafisico. Guido Cieli desidera essere il suo
rivale, colui che fin dall’inizio appare desiderato da tutti e da tutte, senza
che se ne capisca la vera cagione (poiché
l’aspetto attraente di Fabio non è certo sufficiente a spiegarlo, né
appaiono altre doti). E desidera essere lui perché è
assolutamente risentito nei suoi confronti. La domanda che sta alla base di ogni risentimento “perché il vero Essere e la vera
Felicità stanno presso di lui, che non li merita, e non presso di me, che li
merito”, che è la domanda di Caino, potrebbe essere l’epigrafe del libro di
Cappelli e il motto del suo personaggio. Non v’è alcuna forzatura dunque nella
storia se ad un certo punto Guido ordina l’assassinio di Fabio, ma solo logica
consequenzialità. La dialettica della priorità, per cui
essa viene attribuita ad un altro per poterlo invidiare e per poter quindi
giustificare i propri difetti, la propria mancanza di sostanza, di Essere, e
per poter rivendicare la priorità stessa mediante la soppressione dell’altro, è
la dialettica di base dell’umano. Che però, nello stesso tempo in cui avverte
la minaccia di annientamento, genera il segno-parola
che differisce la violenza e dà luogo allo scambio pacifico dei segni, e alla
narrazione, e ad una reciprocità (momentaneamente) non violenta.
24 luglio2005