DUE LIBRI,
UNA PAGINA (62)
Letture di
Fabio Brotto
Sono molti i motivi che rendono interessante e degno
di ragionamento il breve ma succoso libro La
gamba del Felice di Sergio
Bianchi (Sellerio, Palermo 2005):
dalla narrazione costruita per piccoli quadri alla mimesi dell’italiano
semplice di un narrante popolare. Ma sono due gli
aspetti della realtà che si evidenziano e che mi colpiscono in quest’opera: la
rapidità del mutamento sociale e ambientale in Italia dagli anni Cinquanta ai
Settanta, e la sparizione della cultura contadina, col mutamento antropologico
corrispondente. Ricordo bene, dal canto mio, la campagna veneta della fine
degli anni Cinquanta, i contadini veneti poveri, la miseria di molte abitazioni
rurali, quel tipo di vita che mi impressionava quando
dalla mia Venezia andavo a trovare i parenti di campagna. Quel mondo, quel tipo
di rapporto alle piante e agli animali, quella radicale alterità rispetto alla
vita urbana, sono scomparsi, cancellati. Nel libro di Bianchi
questo evento è reso benissimo. Quale ragazzino oggi, mi viene da
pensare, anche volendo, potrebbe fare collezione di farfalle (io la feci nel 58
e 59, i prati ne erano pieni)? Il ragazzino di oggi non può catturare le farfalle perché gli viene
instillata fin dalla culla una concezione
vittimaria della realtà, concezione fantastica e del tutto avulsa da ogni
autentica conoscenza della natura, ma storicamente spiegabile come conseguenza
dell’evento fondatore della post-modernità, l’Olocausto; e non può catturare le
farfalle perché esse non volano più sui prati, cancellate dalla chimica dei
pesticidi, la soluzione finale del problema degli insetti. D’altra parte, un
bambino che col suo retino cacciasse e uccidesse le farfalle sarebbe oggi
immediatamente colpevolizzato, come cacciatore in erba, mentre lo sterminio
totale a servizio dei profitti dell’agricoltura moderna lascia indifferenti
anche i cuori più sensibili. Che del resto piangono per le piccole foche ma non
per i vitelli o i tacchini, a dimostrazione del fatto che lo status di vittima
non è una condizione oggettiva ma viene assegnato in
relazione a presupposti di ordine culturale.
Mi pare molto significativo
il racconto della cattura dei passeri (la faceva anche mio padre da ragazzo, ne
catturava a decine nel granaio per la polenta
e osei), che nella cultura contadina non sono
visti come vittime, ma come cibo.
Quando c’era la
neve invece li prendevamo negli orti e nei giardini. Mettevamo un’asse di legno pesante di un metro per un metro inclinata a circa quarantacinque gradi
e puntellata da un bastone. Al bastone attaccavamo un cordino lungo che
arrivava fino al pollaio dove noi ci imboscavamo
controllando la situazione dallo spioncino della porta. Da sotto l’asse
toglievamo la neve e mettevamo delle briciole di pane secco. I passeri facevano
la solita manfrina prima di andare sotto l’asse sempre comandati dal capo
maschio che ci andava per primo. Anzi con quel tipo di caccia i capo maschi dei
passeri per primi ci facevano andare i pettirossi che
a differenza dei passeri erano più stupidi perché ci andavano subito senza
preoccuparsi di niente. A noi dei pettirossi non ce ne fregava niente perché
non si mangiavano. Quando i passeri erano sotto
l’asse a becchettare le briciole in sette o otto si
tirava il cordino il bastone si muoveva l’asse cadeva e i passeri ci rimanevano
sotto. Noi uscivamo dal pollaio e saltavamo con tutti e due
i piedi sull’asse per schiacciarli del tutto. Mai una volta
che si prendeva un merlo né maschio né femmina. Erano troppo furbi i
merli per farsi prendere così.
I passeri si facevano frollare
qualche giorno con le loro piume perché sapevano di selvatico poi si mettevano
nell’acqua bollente per spennarli si lasciavano in marinata con acqua erbe
aromatiche e po’ di aceto una nottata e si cucinavano
con il sugo di pomodoro per due o tre ore in modo da ammorbidire la carne. (pp. 31-32)
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Un
romanzo articolato in modo sapiente è Desideri di Roberto Michilli (Fernandel, Ravenna 2005). Quattro diverse storie, con un
debole punto di intersezione, dicono quattro desideri
di quattro personaggi (cui si dovrebbero aggiungere desideri di figure
secondarie). Si tratta di desideri fondamentali, in quanto
fondano il senso della vita dei quattro, e il loro soddisfacimento appare loro
necessario, nella forma di un aut-aut: o l’oggetto o la morte. Gli oggetti sono
differenti, ma esercitano su ciascuno dei desideranti un fascino irresistibile.
Un uomo vuole assolutamente riavere la donna amata che gli è stata sottratta:
per lei è disposto ad uccidere, e uccide; un altro vuole assolutamente
possedere carnalmente una parte bellissima di sua cognata, e per averla è
disposto a ricorrere alle arti di una vecchia maga ripugnante, e finisce per
accettare la propria morte; un altro ancora vuole assolutamente una casa in
campagna, anche se è una casa maledetta, e per essa è
disposto ad uccidere, e uccide; una donna vuole assolutamente un uomo che è
innamorato di un’altra, e finisce per portare suo marito ad ucciderlo perché
lei non soffra più. Tutti i desideri qui portano alla morte, evidenziando una
radice metafisica di cui forse lo stesso scrittore non ha piena coscienza. E si tratta di morte per violenza, della quale a loro volta
i personaggi non avvertono alcun senso di colpa. Sembra dunque che il desiderio
scatenato, sciolto da ogni condizionamento, ab-solutus,
annulli ogni residua coscienza del bene e del male. In questo, il
romanzo di Michilli è totalmente postmoderno, anche
se il suo linguaggio appare abbastanza tradizionale e medio (nel senso di
un’aurea, elaborata mediocritas):
i suoi personaggi vivono in un quadro di pensiero debole socialmente incarnato,
rivelando come la violenza covi sotto ogni relazione umana anche quando non viene tematizzata ed esorcizzata dalle forme sociali della
metafisica e della religione.
22
settembre 2005