DUE LIBRI,
UNA PAGINA (63)
Letture di
Fabio Brotto
No Country for
Old Men (Alfred A. Knopf,
New York 2005): il titolo è una negazione, molto dura, che
evoca una condizione di totale assenza di pietà. Nella critica internazionale,
sull’ultimo romanzo di Cormac McCarthy si legge
essenzialmente questo: che vi è un impasto linguistico con molto Sud-Ovest, una
narrazione che procede irregolare, a strappi, lasciando il lettore spesso
sconcertato. Che è una storia con molti morti, quasi una
macelleria, ambientata intorno al 1980, e chiaramente concepita per il cinema
(non si diceva anche per altri, decenni fa, come ad esempio per Graham Greene?). La
violenza, in effetti, è massicciamente presente. Ci poteva non essere? Sappiamo
che per McCarthy essa è il male, come per René Girard. Ci sono tre personaggi
che si dividono gli onori della scena, gli altri essendo mere comparse. Un
killer di professione, Chigurh, che sembra credersi
l’angelo della morte; un cow-boy, Moss, in ritardo
sui tempi storici (come i protagonisti della Border Trilogy), che è stato in Vietnam; uno
sceriffo anziano, Bell, che si sente responsabile
della vita dei concittadini, e pare agire in forza di principi morali, ma ha
nel suo passato di guerra (la Seconda) qualcosa di oscuro.
Lo sfondo della storia è dato dal narcotraffico
dilagante, col suo corteo di massacri sul confine col Messico, alimentato dal
crescente consumo degli Americani. E la presenza di Mammona, il denaro,
anzitutto come borsa piena di soldi che, durante una battuta di caccia
all’antilope (residuo dei tempi antichi e rimando ad altre remote storie, come
i pittogrammi - p. 11 - di arcaici cacciatori), Moss trova
su un veicolo coinvolto in un conflitto a fuoco fra trafficanti di droga. Moss non resiste alla tentazione di appropriarsi di quei dollari. Non può evitare di pensare che potrebbero
dargli la felicità, e questa è l’origine delle sventure sue e di altri. Chigurh è uno che gioca con la morte, degli altri e di sé,
che pur sempre incombe (è ferito due
volte). Uccide senza alcuno scrupolo, senza alcun senso del male, spesso dopo
aver conversato con la vittima, aver filosofato con essa.
Circa questo punto, è stato osservato come in McCarthy siano
proprio i personaggi più violenti e malvagi quelli più portati alla riflessione
rigorosa, alla visione del mondo che pretende l’assolutezza, escludendo il
dubbio. Su tutti campeggia il gigantesco Giudice di Meridiano di sangue, del quale Chigurh è,
in fondo, solo un pallido avatar. Il mondo del West
di un secolo e mezzo prima non era migliore del presente, ma la grandezza nel
male del Giudice è infinitamente superiore alla
meccanica freddezza di Chigurh. Questi uccide molti,
ma senza alcun odio per quelli che elimina, piuttosto con l’indifferenza di un
Tristo Mietitore. Il suo è il freddo gioco di un
destino agito da un Dio impassibile, la sua indifferenza affonda nelle radici
metafisiche della violenza, che secondo McCarthy non ha spiegazione, meno che
mai sociologica. Ecco l’esecuzione di un personaggio, Wells, descritta con una sobrietà intensissima, una
concentrazione tipicamente maccartiana.
He
did close his eyes. He closed his eyes and he turned his head and he raised one
hand to fend away what could not be fended away. Chigurh
shot him in the face. Everything that Wells had ever known or thought or loved
drained slowly down the wall behind him. His mother’s face, his First Communion,
women he had known. The faces of men as they died on their
knees before him. The body of a child dead in a roadside
ravine in another country. He lay half headless on the bed with his arms
outflung, most of his right hand missing. Chigurh rose and picked up the empty casing off the rug and
blew into it and put it in his pocket and looked at his watch. The new day was still a minute away. (p. 178)
* * *
* * * *
La lettura del romanzo di Osvaldo Capraro Né padri né
figli (edizioni E/O, Roma 2005) pone, cosa che di per sé già rappresenta un
merito, alcune importanti questioni. Si tratta della storia di una mala formazione, evocata già dal
titolo-negazione, nel senso di una formazione mancata di un ragazzo sfortunato,
che ha un padre che vive di commercio illegale e abusa sessualmente di lui, e che
finisce in quello che un tempo si chiamava riformatorio, e in seguito
inevitabilmente tra le file della malavita organizzata. Quindi
una formazione mancata, fallita (secondo una struttura comune a molta narrativa
moderna e post-moderna), ma anche propriamente malavitosa. Quella
scritta da Capraro è una storia fortemente
proiettata sulla condizione di alcuni strati della popolazione della Puglia, e
che tende a individuare l’origine della violenza nel modo di essere della
società. Siamo ben lontani dalla metafisica maccartiana della violenza assoluta. E già qui s’apre la grande questione dell’origine dei comportamenti violenti e
omicidi, se essi scaturiscano da nodi socio-economico-culturali,
o se abbiano un sostrato abissale insondabile, legato all’umano in quanto tale
da sempre, alla sua stessa origine. Un’altra grande
questione è quella della funzione del genere noir, oggi così diffuso e praticato anche in Italia . Essa va
individuata all’interno della funzione della narrazione in generale (per cui rimando allo scritto di Eric
Gans pubblicato nella pagina GENERATIVA di questo sito.
http://www.bibliosofia.net/files/NARRATIVA_ORIGINARIA.htm)
Se la radice del narrare, di ogni narrare, è
sempre la necessità di alimentare il comune riconoscimento del legame che
stringe un gruppo umano, cui è essenziale il differimento della violenza che lo
minaccia dall’interno, allora è evidente come l’esito di dissoluzione del
gruppo, legato al trionfo della violenza stessa, debba essere continuamente
rievocato come possibilità sempre data. Di qui l’esistenza di generi in cui si
dice il fallimento della restaurazione dell’ordine minacciato, in cui cioè si mette in evidenza l’irregolarità, il disordine
inestirpabile, e si evoca il possibile trionfo del caos, cioè della violenza
indifferenziata e totale, la minaccia suprema che deve essere sempre
esorcizzata. A prezzo, ovviamente, di vittime. Il lettore del noir assiste così ad un processo di
vittimizzazione, che però non produce un ritorno sicuro dell’ordine, perché
avviene al di fuori delle regole del sacro
tradizionale. Il sacro di oggi è infatti sempre
mistificato e mistificatore: lo testimonia il nome stesso dell’organizzazione
criminale che trionfò brevemente in Puglia: Sacra Corona Unita. Il libro di Capraro, del resto, evidenzia il fallimento, evidentissimo
nel Sud d’Italia, dell’antico ordine sacro, di cui il Cristianesimo
socializzato, la Cristianità, si è fatto carico ,
tradendo il Cristo stesso. Il giovane prete, don Paolo, che tenta vanamente di
salvare il ragazzo Mino dal suo fato, è inetto non solo davanti alla donna
innamorata di lui, ma anche di fronte alle strutture religiose soffocanti e
pervertite—ma tutto sommato ancora coerenti con la
loro natura—della cui funzione non ha una visione chiara, come del resto
nemmeno della propria fede.
2 novembre 2005