DUE LIBRI,
UNA PAGINA (68)
Letture di
Fabio Brotto
La soglia dell'umano. Il passaggio originale dalla bestia all'umano. Quel piccolo ma abissale gradino che pone la differenza tra lo
scimpanzé e l'umano nonostante un patrimonio genetico quasi identico.
Migliaia e migliaia di anni di crisi mimetiche, di infiniti
atti di soppressione violenta di appartenenti a gruppi proto-umani, col
conseguente senso di sollievo collettivo, fino ad arrivare al momento in cui
(quando?) il benessere collettivo del gruppo, che di volta in volta esso prova
dopo aver linciato un proprio membro, viene attribuito alla vittima stessa come
agente, ed ecco la sua divinizzazione. Il mito e il rito. Il religioso violento
nasce insieme all'umano, per René Girard, e non è distinguibile dal processo di ominizzazione. Questo è uno dei nodi oscuri del sistema
girardiano. Questa divinizzazione della vittima che all'improvviso avviene dopo
non essere avvenuta per un tempo lunghissimo mi è
sempre apparsa come un inspiegato deus ex machina
teorico. L'attribuzione alla vittima di uno status divino coincide dunque con il divenire uomini. Ma se è così, da dove viene quella rappresentazione di un qualcosa
che non è del mondo animale, che è quindi una qualità trascendente, il divino?
Mi viene da pensare (anche) a questo leggendo il bel dialogo, ricco di innumerevoli stimoli, tra Mauro Ceruti
e Giuseppe Fornari che ci viene presentato ne Le due paci. Cristianesimo
e morte di Dio nel mondo globalizzato (Raffaello Cortina Editore, Milano 2005).
Un punto nodale del libro è il confronto con la morte di Dio di Nietzsche, che viene
riportata al suo senso di uccisione di
Dio: la morte di Dio non significa fine della religione ma propriamente suo
inizio, perché il divino nasce dal sacrificio della vittima umana, che viene
divinizzata.
L’uccisione di
Dio è l’uccisione di un uomo, ma l’uccisione di un uomo si rivela essere
l’uccisione di un animale che lo sta diventando. Dietro la morte di Dio si
nasconde il segreto stesso dell’essere umano. L’uomo è Dio, l’uomo è un animale: il passaggio tra le due affermazioni è soltanto
la morte, una morte che non ha nulla di naturalistico, perché segna l’inizio
della cultura. (p. 72)
Girard in primis e poi Ceruti e Fornari non sembrano avvertire il problema del passaggio dal mondo della non-rappresentazione, del puro segnale animale, a quello della rappresentazione, ovvero del segno. Danno prova di una specie di gradualismo evoluzionistico sui generis, che in realtà non spiega il passaggio della soglia. Di per sé, infatti, un’esperienza di benessere collettivo, per quanto inebriante, e ripetuta nel tempo, non mi pare possa generare alcun segno. Detto in altre parole: non c'è il divino prima del linguaggio, e non c'è umano senza linguaggio. Perché vi sia segno vittimario occorre che vi sia il segno. E la vittima non è segno finché non è signi-ficata. Mentre Ceruti a pagina 92 assume l’esistenza di una fase
definibile come infraculturale — cioè a metà strada tra la fase ancora non culturale e la fase culturale propriamente detta —, che implica l’esistenza di istituzioni e di un sistema simbolico ormai stabili. La fase infraculturale dev’essere durata centinaia di migliaia di anni, sinché i gruppi umanoidi non hanno imparato a “pilotare la crisi”, ottenendo la ripetizione controllata del sacrificio.
Ceruti dunque suppone che la mera ripetizione per centinaia di migliaia di anni (perché così tanti? o perché non milioni?) porti ad un certo punto al salto di qualità nel mondo simbolico. Ma io chiedo: quando e perché avrebbero imparato a pilotare la crisi, in quali condizioni chi non pilotava ma era solo travolto, inizia a pilotare? Non mi sembra una questione di poco conto. Nella stessa pagina Fornari aggiunge che
A sua volta il sacrificio ha modellato, con la sua regolare
ripetizione, tutte le coordinate della visione del mondo degli uomini.
Attraverso la ripetizione del rituale, e della trasfigurazione
della vittima da colpevole in salvatrice, la vittima è stata avvertita in modo
sempre più distinto come divinità. Lo spazio con i suoi luoghi sacri, il tempo
con i suoi cicli rituali corrispondenti all’eterno
ritorno degli antichi e di Nietzsche, l’Universo con le sue coordinate che
riproducono spesso il corpo medesimo della vittima, l’intera rappresentazione e
conoscenza dell’uomo passa per il sacrificio.
A me pare che il passaggio dalla vittima del furore collettivo del
branco al sacrificio, che sottende l’idea del sacro, ovvero l’esistenza del
pensiero trascendente, sia destinato a restare, se si vuol permanere per così
dire nell’ortodossia girardiana, inspiegato. Avvertire la vittima in modo sempre più
distinto come divinità è un’espressione suggestiva,
ma non teoricamente forte: si basa sull’idea della ripetizione che aggiunge, che a mio avviso è un pannicello teorico.
L'altro punto problematico è la solita
riduzione girardiana del male alla violenza. Cristo, secondo Girard e i
girardiani puri, è la soluzione del problema della violenza, sostituendo la sua
mimesi buona alla mimesi cattiva. Su questo concordo. Tuttavia, anche senza
violenza la vita dei mortali non sarebbe felice. Anche
senza violenza la terra non è un paradiso. L’orizzonte fisico e biologico
rimane l’orizzonte della forza, della selezione darwiniana. E
anche una cultura umana interamente basata sull’amore, ammesso che potesse
darsi, sarebbe segnata dal limite e dalla morte, dalla malattia e dalla
sofferenza, dalla sventura e dalle calamità. Si può far soffrire un'altra
persona moltissimo anche con una parola, con la semplice disistima, o
rifiutando il suo amore. A meno che non si costruisca
una teoria che riporti tutto, assolutamente tutto alla violenza vittimaria, e
alla fuoriuscita da essa. Ed è quello che fa Girard e
che continuano Fornari e Ceruti.
Sarebbe secondo me, per questo aspetto, una teoria
radicalmente falsa. La vita degli umani è segnata anche da lutti, sventure e
sofferenze che certamente non derivano dalla violenza né dalla mimesi.
La teoria mimetica in Fornari e Ceruti tende a farsi teologia, ma, per quanto ricca di
brillanti intuizioni e anzi irrinunciabile per una adeguata
comprensione dell'umano, rimane limitata. Anch’essa ci
lascia disarmati davanti all’enigma della Creazione, dell’immensa quantità di
sofferenze che, dall’inizio dei tempi, incombe su ogni essere, intelligente o bruto,
aggressivo o mansueto, effimero o longevo (ah, quel cancro alle ossa di un Tyrannosaurus Rex!).
* * * * * * *
Mentre il giallo classico sembra assumere come presupposto l'esistenza di
una società fondamentalmente sana, di cui i criminali sono la parte
malata—curabile o da eliminare chirurgicamente—,così
che in fondo l'investigatore appare come una sorta di diagnosta, il noir contemporaneo tratteggia una
società malata nel suo insieme, ovvero, come s'è detto in precedenti note,
sull'orlo di una crisi mimetica, cioè della sua dissoluzione. Questo mi sembra
particolarmente evidente nell'interessante romanzo di Franz
Krauspenhaar Cattivo
sangue (Baldini Castoldi
Dalai, Milano 2005), nel quale
il protagonista è lo stesso narratore (riecco l'io narrante che non amo), un
assassino prezzolato divenuto tale quasi senza accorgersene. La transizione di
Bruno Bruide da persona normale a killer avviene in
modo tale che la differenza risulta non evidente, non
sostanziale, anzi massimamente labile e incerta. L'unica differenza che in Bruide è visibile è quella del suo essere maschio, anche in
modo piuttosto aggressivo, la differenza di genere. Tutte le altre differenze
sono annullate, quelle poste dalla morale sociale e dalla legge come quelle di
nazionalità. Bruide si muove sempre in automobile (e
la prima delle due parti si intitola Automobilcrimes)
tra Italia Francia Germania e Olanda, parla varie lingue e uccide senza troppi
scrupoli: il senso di colpa che ogni tanto gli si fa sentire appare privo di
fondamenti, un mero corrugamento della psiche. Il libro di Krauspenhaar
è una narrazione della crisi di ogni differenza. Non
ho molti dubbi sul fatto che Bruide costituisca un
tipo esemplare di uomo sradicato dell'epoca
postmillenniale. Per dirla con Simone Weil, essendo
uno sradicato non può che sradicare a sua volta: privo di un'identità forte, va
alla ricerca delle origini, in Olanda, cioè di una
differenza che possa far sua e dia stabilità al suo essere, ma ciò che trova
non è altro che la traccia di uno sradicamento (non a caso in qualche modo
connesso al nazismo, il più grande fenomeno di sradicamento dell'intero
Novecento). E che il libro di Krauspenhaar nel suo
insieme e a tutti i livelli narri una crisi e venir
meno della differenza è mostrato dalla struttura stessa del libro, con le sue
due parti, delle quali la prima si rivela nella seconda essere un romanzo
autobiografico scritto dal narratore, lo stesso Bruide,
mentre la seconda è assolutamente omogenea alla prima nella scrittura e
nell'azione, e noi non sappiamo esattamente cosa sia, le nostre certezze di
lettori fondate sulla differenza vanno in crisi a loro volta: attore,
narratore, scrittore in che relazione stanno?
Bruide scarica la propria violenza in modo aperto sia nei crimini
commissionatigli dall'organizzazione per la quale lavora sia in quelli che
esegue per sé stesso. Ma la società con cui
interagisce non appare, nel suo insieme, affatto migliore di lui. Si tratta
evidentemente di una società che corre verso una crescente indifferenziazione,
una con-fusione dalla quale di solito si esce solo con la pratica del capro
espiatorio. Si tratta di vedere quali nuove e complesse forme questa pratica assumerà. Possiamo tuttavia affermare che protagonisti di
narrazioni come quella di Bruide svolgono all’interno
della fabula una funzione di vittima e di persecutore insieme. Le differenze,
appunto, sono venute meno.
9 marzo 2006