DUE LIBRI,
UNA PAGINA (69)
Letture di
Fabio Brotto
Non ho mai amato i libri fotografici, con rare eccezioni. Ma questo di
Monika Bulaj e Marco Rumiz
non è un libro fotografico: è un libro con molte fotografie, che integrano perfettamente il testo. Gerusalemme perduta (Frassinelli, 2005) è
il racconto di un itinerario in ciò che resta del Cristianesimo d’Oriente: da
Bari a Gerusalemme, passando per i Balcani, la
Turchia, la Siria. Con moltissimi incontri, con un paesaggio
di migliaia di chiese trasformate in moschee, segnato dalla sparizione di
milioni di cristiani (una sparizione accaduta prevalentemente nel
Novecento, e soprattutto in Turchia). Ed è forse questo l’elemento più
inquietante di questo libro: la Turchia, la
filo-occidentale Turchia, che vuole entrare in Europa, la Turchia che
all’inizio del secolo scorso ha vissuto le spettacolari e violente riforme
modernizzatrici e laiciste di Atatürk, questa Turchia
da sempre nella NATO, proprio questa nazione—che continua a negare che sul suo
territorio sia esistito uno sterminio di massa degli Armeni—è
il luogo della più gigantesca epurazione di cristiani avvenuta di recente in un
paese musulmano. Muniz e Bulaj
hanno modo di sperimentare come oggi nella filo-occidentale
Turchia essere cristiani sia quasi impossibile. Mentre
nello stato canaglia che è la Siria
esistono comunità cristiane molto numerose e fiorenti (soprattutto in Aleppo e
Damasco). Ciò che quasi nessuno sa è che la classe dirigente siriana è formata da
Alawiti, appartiene cioè ad
una minoranza islamica molto più aperta verso il Cristianesimo di quanto siano
i Sunniti. Qui si colgono contraddizioni paurose, e
si comprende anche come l’intervento militare occidentale in Iraq abbia
aumentato a dismisura la difficoltà dell’essere cristiani nel Vicino Oriente. Certo, Muniz non è
un teologo né uno storico delle religioni, e forse a volte non usa i termini
nel modo più rigoroso: per esempio, il concetto di quel Sacro di cui va alla
ricerca non mi sembra definito se non in modo vago. Si potrebbe dire che per
l’autore del testo esso costituisca una dimensione soprannaturale
sostanzialmente simile in tutte le religioni e fedi, così che in fondo tra
paganesimo e monoteismo non sussistono differenze
essenziali. Come nel passo seguente a pag. 58:
Mondi arcaici, indomabili. Alla
mensa della facoltà di teologia di Sarajevo, i frati
tenevano trecce d’aglio sul tavolo, ne mangiavano a chili contro i vermi e il
malocchio. Fino a pochi anni fa, usavano circondare i cimiteri di una striscia
di pelle di agnello, lunghissima, tagliata a spirale,
per segnare il territorio con un gesto pagano millenario. Erano così
briganteschi che anni fa un visitatore apostolico fu inviato da Roma a calmare
i loro bollenti spiriti. Ma la ciurma facinorosa lo sequestrò e lo riportò nottetempo al confine della Croazia, con le armi
in pugno.
La costa ripida piena di ulivi si avvicina, ha il colore del platino, la luna la
inonda di una luce liquida. È l’ora degli dei, il
mare è una baia della tranquillità. Ripenso a una
notte di un anno fa, a fine settembre, passata in una chiesa abbandonata di Zacinto. Aghios Andreas si chiamava, stava su un faraglione
a picco sullo Jonio, isolata in mezzo a cespugli
impenetrabili di corbezzolo e ginestra. Il tetto era sfondato, ma per un attimo
l’ultimo sole entrò dalla porta fin dentro l’iconostasi, e rianimò i santi semicancellati dal sole e dalla pioggia. Fu per quel
momento magico che decisi di dormire lassù.
Fu una notte rivelatrice. Quando si svegliarono i grilli, la foresta disse storie più
antiche di Cristo. Parlò la montagna. Parlarono le alture i cui nomi di
santi—sant’Elia, santa Maria o san
Dionisio—nascondevano a malapena divinità più antiche degli
dei olimpi. Dietro a Elia c’era Elios, il sole; dietro
a Maria, la grande Dea Madre del Mediterraneo.
Parlarono le piccole cappelle votive con le icone e i lumini a
olio messe a guardia delle strade e degli incroci, con le loro finestrelle, lo
stoppino galleggiante e i fiammiferi. Parlò la Grecia del Fauno, di Dionisio e
di Demetra.
Dalla Bosnia alla Grecia, da
Sarajevo a Maratona, la linea delle battaglie registrava affollamenti record di
divinità. Perché questa coabitazione di sangue e
sacro? Erano le religioni a produrre lo scontro? Erano gli dei che,
confrontandosi, generavano guerre? Avevano ragione i teorici del conflitto di
civiltà? E se invece—mi suggerivano quelle alture
selvagge costellate di santuari— fosse tutto il
contrario? Se fossero le guerre a generare oscuramente
il sacro? Se fossero le genti di quelle isole e di
quelle montagne, sapendo di trovarsi su una linea di scontro millenario, a
disseminare il territorio di dei (o di santi) come esorcismo contro un destino
troppo grande per loro?
L’ultimo paragrafo, in ogni caso, è pieno di verità. La violenza infatti genera oscuramente il sacro, finché una luce
superiore non ne rivela i meccanismi tremendi. Perciò
non c’è né guerra né pace senza religione, perché senza religione non c’è,
semplicemente, l’umano.
*
* * *
* * *
Che cos’è l’Amore in sé? Il
titolo del raffinato breve romanzo di Marco Santagata
(Guanda, Parma 2006) potrebbe anche scriversi L’amore in sé con l’a minuscola. Il
senso sarebbe lo stesso? Poiché il titolo è stampato a caratteri maiuscoli la
cosa comunque rimane ambigua. Questo romanzo mi
ricorda la famosa tenzone duecentesca, il dibattito in rima tra Pier della
Vigna e Jacopo Lentini e Jacopo Mostacci
sulla natura dell’amore. Non è un caso. Il protagonista di questo romanzo,
infatti, è un professore universitario di letteratura italiana, che si trova in
Svizzera a tenere delle lezioni accademiche sul Petrarca. Lezioni
che (fortunatamente!) tendono a discostarsi gradualmente dall’accademico.
Mentre Fabio (un mio omonimo, ohibò) sta presentando agli studenti una sua
analisi del sonetto La vita fugge, e non s’arresta un’ora, e rispondendo ad
un’obiezione di una giovane ascoltatrice, gli escono dalla bocca le parole «
Vede, Bubi è il nome che Petrarca dà al desiderio…», e subito si accorge che,
con una movenza inconscia, al posto del nome di Laura sulla sua bocca è gemmato
il nome di Bubi, la dimenticata. Fabio sperimenta un inaspettato fulmineo
ritorno del suo passato adolescenziale, segnato da un amore appassionato per
una compagna del ginnasio, un amore successivamente
rimosso nel modo più completo. Con una serie di flash-back che contrappuntano
l’analisi del testo di Petrarca, il maturo professore rivive quella sua antica
(e abbastanza tragica) storia d’amore. È stato un amore assoluto, come si vuole che siano gli amori d’adolescente, la cui
parabola si conclude in una delusione assoluta:
l’oggetto d’amore si rivela radicalmente differente da quello che il
giovanissimo Fabio s’era figurato. Dunque, similmente alla
Laura di Petrarca, la ragazza Bubi è una creazione del desiderio di
Fabio. L’amore è desiderio, e crea il suo oggetto. Viene il momento in cui
l’oggetto si sottrae, e questo suo sottrarsi può essere narrato come morte vera e propria (Laura), o come svelamento di una
identità dell’oggetto radicalmente diversa da quella creata dal desiderio (e
amata). Il desiderio può quindi far permanere l’oggetto d’amore come fantasma
d’amore (in morte di…) o annichilirne la memoria stessa, come
è avvenuto in Fabio. Almeno fino al momento in cui lo stesso passare del
tempo e la maturazione dell’animo consentano di affrontare il ricordo con uno
spirito di conciliazione, sì che la memoria ne risulti
purificata e pacata.
6 aprile 2006