DUE LIBRI,
UNA PAGINA (70)
Letture di
Fabio Brotto
Franco Crespi nel suo libro Il
male e la ricerca del bene (Meltemi, Roma 2006) vede il male come qualcosa (non dico a caso qualcosa—esso infatti non mi pare
rigorosamente definito e nemmeno problematizzato fino in fondo) che deriva
dalla tendenza umana a perseguire degli assoluti in differenti campi. La
soluzione sembrerebbe quella dell’accontentarsi del limitato e del relativo,
della saggia ricerca del minor male, ecc. Una soluzione laica, non nuova, in verità, ma sempre di nuovo
offerta, in incessante lotta con quelli che appaiono gli integralismi, i
fondamentalismi e i dogmatismi. Quel che mi pare di poter rilevare, anche in relazione al breve e interessante passo sul desiderio che
qui riporto, è che Crespi non si pone il problema del da dove venga questa brama di assoluto compimento che a suo parere
è rovinosa. Insomma, mi pare che anche a Crespi faccia difetto una vera
antropologia fondamentale, cioè un pensiero originario
circa la genesi dell’umano.
Il desiderio è in sé un bene, in quanto è all’origine di quello slancio vitale che porta l’essere umano ad andare sempre al di là di se stesso, ma quando si esprime come tentativo di superare definitivamente la mancanza, il desiderio dà luogo alle diverse forme di sublimazione, ovvero alla tendenza, presente in tutti gli esseri umani, a trasformare oggetti parziali in oggetti simbolici assoluti di investimento del desiderio. Il desiderio, se, da un lato, nutre l’immaginario individuale e collettivo, portandolo a proiettarsi in soluzioni illusorie, dall’altro, si alimenta delle rappresentazioni da lui stesso costruite, trasfigurando ogni tipo di realtà: la religione, la patria, le utopie politiche, il successo e il prestigio sociali, l’amore, il possesso e il potere, la scienza e la tecnica e via dicendo. Il perseguimento di tali oggetti necessariamente parziali come fossero assoluti configura il carattere tragico del desiderio, in quanto porta l’essere umano a desiderare finalità determinate che, in realtà, sono sempre altro da ciò che egli veramente persegue attraverso di esse, appunto un assoluto compimento. (p. 44)
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L’incontro di due culture radicalmente differenti è sempre difficile,
ma lo è ancor più quando una è quella dei dominatori e l’altra quella dei
dominati. Come accade nel bellissimo romanzo di Chinua
Abebe La
freccia di Dio (Arrow of God, 1964,
trad. it. di S. Antonioli Cameroni, edizioni e/o, Roma 2004). Qui le due culture,
nella Nigeria del 1920, sono quella dei colonizzatori
inglesi e quella tribale degli Ibo. Come sempre nella
grande narrativa di tutti i popoli, tuttavia, anche
qui siamo fuori di ogni ottica del risentimento, e le cose sono viste con
occhio acuto e con partecipazione
oggettiva.
Sopra ogni altra è interessante la figura del protagonista Ezeulu, anziano sommo sacerdote della divinità locale Ulu. Siamo in un contesto religioso
di tipo animista, con una pluralità di forze e figure soprannaturali e divine. Ezeulu appare drammaticamente cosciente non solo del
rapporto di forza con gli Occidentali e la loro religione monoteista, ma anche
della natura e dell’origine del dio di cui egli è il
servitore e lo strumento. Ulu
infatti è nato quando gli abitanti dei villaggi della terra di Umuaro si sono trovati in grave difficoltà di fronte
all’attacco di un’altra popolazione, e si sono coesi istituendo un culto
comune, appunto quello di Ulu. Dell’origine di Ulu, il suo dio, Ezeulu dà un resoconto che mette in relazione strettissima
il sacro e la violenta uccisione di una vittima iniziale. Questo passo ha un
sapore davvero girardiano.
Una malattia che non si è mai vista non può essere curata con le erbe di sempre. Quando vogliamo fare un incantesimo, cerchiamo l’animale il cui sangue possa essere adatto alla sua potenza; se non può andare bene una gallina, cerchiamo una capra o un montone; se anche questo non basta, mandiamo a prendere un toro. Ma a volte anche questo non basta, e allora dobbiamo cercare un uomo. Pensi che sia il suono del grido di morte strozzato nel sangue che vogliamo sentire? No, amico mio, lo facciamo perché siamo arrivati alla fine e sappiamo che né un gallo, né una capra e neppure un toro potrebbero bastare. I nostri padri ci hanno detto che agli uomini di una sfortunata generazione potrà persino succedere che saranno spinti al di là della fine, e che la loro schiena verrà spezzata e appesa sopra un fuoco. Quando questo succederà, essi forse potranno sacrificare il loro stesso sangue. Questo è quello che intendevano i nostri saggi quando dicevano che un uomo che non sa dove posare la sua mano per trovare un po’ di conforto la posa sopra il suo ginocchio. Ecco perché quando furono spinti oltre la fine dai guerrieri di Abame, i nostri antenati sacrificarono non uno straniero ma uno di loro, e fecero il grande incantesimo che chiamarono Ulu. (p. 174)
29 aprile 2006