DUE LIBRI,
UNA PAGINA (72)
Letture di
Fabio Brotto
Non deve essere stato facile per Silvia Cosimini,
di cui ho già apprezzato la bella traduzione del romanzo di Laxness Gente indipendente,
rendere in italiano lo stile di Thor Vilhjálmsson, uno stile poetico lirico-tragico
che fa del romanzo Il muschio grigio arde (Grámosinn
glóir 1986, ed. it. Iperborea, Milano
2002) qualcosa di assolutamente inconsueto e molto affascinante. Pure,
l’operazione mi pare riuscita, come testimonia questa splendida pagina, nella
quale il paesaggio pastorale islandese, che il giovane magistrato Ásmundur sta attraversando per raggiungere il luogo della
sua inchiesta, si mostra insieme sereno e inquietante, immemoriale
e mitopoietico. Le radici dell’infelicità umana sono nella natura stessa.
Sera in una valle disabitata. Il sole si volge verso l’invisibile, oltre
l’incorniciatura della valle, le colline a occidente. La
gratitudine della terra per il giorno trascorso si leva come una foschia violacea
nel lontano
ovest, mentre il sole ha ancora un tratto da percorrere prima di potersi nascondere dietro le colline, il suo addio
si diffonde sul mondo in delicati colori. L’erba si fa d’oro, e il muschio grigio che
ricopre
la lava arde.
Ora le pecore sono immobili sulle pendici dei monti, rimpiangendo
la spensieratezza del giorno, quando l’erba era verde, e terrena, e tanto salubre che il succo verde colava agli angoli
della loro bocca. Ora stanno quiete a
osservare e non si muovono; come se
stessero contemplando qualcosa di unico,
o ammirassero il panorama, come viaggiatori. Poi tornano a brucare sul pendio. E d’un tratto
corrono tra le rocce e le chiazze
verdi d’erba e i grigi ghiaioni,
saltellano a balzi sui letti asciutti dei ruscelli, dove in primavera musiche e canti risuonavano nella valle come un’orchestra. Più in alto, blocchi di pietra e massi
erratici si stagliano contro il limpido cielo azzurro.
Una pecora bela
malinconica, geme nella sua lingua; e l’eco apre nuovi spazi, moltiplica la valle.
Il vento
sussurra alle orecchie, risvegliato per la serata; le ombre si fanno più scure,
come occhi che si guardano
dentro. Si allungano, quasi fossero stirate dal
vento, anche se soffia in direzione
opposta.
Ci sono due
pecore, una nera e una bianca, che guardano
da lontano l’uomo solitario che avanza piano,
mentre ogni pietra assume indipendenza dalla
propria ombra.
E in questa nuova luce purpurea che accende ombra su ombra alla
sua sacra fiamma, viva in tutto il paese, le immagini cominciano a guizzare sulla montagna; le
rocce che servono da pretesto a visioni e presagi mitici, a
eventi che alludono al mondo degli uomini, immagini sfuggite alle circostanze umane che si
insinuano, con i loro messaggi riconsacrati da quel battesimo, nella coscienza dell’uomo che passa,
esigendo che si faccia loro messaggero.
Sente la pecora belare malinconica in alto sulla montagna, ma non
riesce a vederla nonostante scruti i dintorni, valica d’un balzo un crepaccio, e le pecore che prima
l’osservavano spariscono spaventate verso le nuvole rosa a
oriente.
Poi il sole
svanisce a ovest. Là le montagne viola esalano foschia. Mentre
i contorni delle colline e dei rilievi circostanti si fanno più nitidi,
la terra si avvicina alla propria essenza;
ciò che è lontano perde progressivamente ogni sostanza e si libra sempre più come un poema.
L’uomo sa che una volpe ha portato via l’agnello alla pecora, non
può farci nulla. (pp. 60-61)
Come tutti i grandi romanzi, Il muschio grigio arde ci presenta un protagonista
dialettico e aperto, un personaggio in divenire. Ásmundur
deve raggiungere una località dell’Islanda in cui si celebrerà un processo. Il
crimine che deve essere giudicato da lui è un incesto
tra fratello e sorella, con conseguente infanticidio. Qualcosa di terribile, ed
insieme elementare, la rottura del massimo tabù ed un
disperato bisogno d’amore. E giudicare è duro e quasi
impossibile. Vi è il fantasma del padre giudice, con cui il protagonista deve
confrontarsi, e vi è una lacerata figura di pastore evangelico, suo antico
compagno di studi, che richiama il fondamentale principio della compassione. E
sopra tutto vi è la dura terra d’Islanda, alle soglie
della sua svolta epocale destinata ad immetterla nella modernità, e ancora
impregnata di saghe e memorie ancestrali.
* * *
* * * *
Il matrimonio è anzitutto una
questione di potere e di libertà. Una società non è libera se i suoi membri di
sesso femminile non possono scegliere liberamente chi sposare (e nell’Iran khomeinista non possono farlo e non possono fare molte
altre cose). I grandi romanzi occidentali, come Lolita, Il grande Gatsby e Orgoglio e pregiudizio, che la Nafisi analizza con
acume, sono fattori di liberazione, perché mettono in luce il conflitto tra le
ragioni dell’individuo che vuole essere libero e la logica del potere
totalitario che vuole far sognare a tutti il suo proprio sogno. Sono le idee fondamentali
espresse da Nazar Nafisi
nel suo Leggere Lolita a Teheran (Reading Lolita in Tehran, 2003, trad. it. di R. Serrai, Adelphi, Milano 2004). Un libro che dice molto sulla condizione femminile, sul matrimonio
e sul potere, scritto da una studiosa di letteratura inglese che insegnò per
anni in condizioni difficilissime in un’università iraniana. Eppure a
questo libro, che è un ibrido tra romanzo, testimonianza e saggio, manca
qualcosa di importante. Mancano le ragioni dell’altro (in questo caso dei
fondamentalisti), che qui appare solo come assurdo, violento, puramente
negativo e inconcepibile. L’elemento religioso, poi, dalla laica Nafisi non è minimamente investigato,
resta un corpo estraneo. Quindi anche il
passaggio dalla libertà delle donne sotto lo Scià all’asservimento
fondamentalista rimane inspiegato. Mi vengono in mente le pagine di Elias Canetti sulla massa del lamento che certamente la Nafisi non ha letto, pagine che illuminano la differenza
dell’Islam sciita da quello sunnita. C’è in Leggere Lolita a Teheran
solo un breve passo che evidenzia la perduta possibilità che questo fosse più
che un libro interessante, un grande libro:
Di lì a poco sarebbe
stato pubblicato il libro delle poesie sufi che Khomeini aveva dedicato alla nuora. Una volta morto si sentiva il bisogno di umanizzarlo, una cosa a
cui da vivo lui si era sempre
opposto. E, come dimostrano quelle poesie, un lato umano lo aveva davvero, anche se
si era sempre sforzato di
nasconderlo. Nell'Introduzione al libro, la bella e giovane nuora racconta del tempo trascorso
insieme a Khomeini
a parlare di filosofia e misticismo, e di quando gli aveva regalato il taccuino su cui poi erano state scritte le poesie. Lessi che aveva i capelli biondi, e cercai di immaginarla mentre passeggiava insieme al vecchio, in
giardino, conversando di massimi
sistemi. Portava il velo in sua presenza?
Lui si appoggiava a lei mentre camminavano intorno alle aiuole? Comprai
una copia del libro e la portai con me in
America, insieme ai volantini, rimasugli di un tempo la cui realtà mi sembra così fragile, talvolta, che ho bisogno di quelle prove concrete per dimostrare a me stessa
la sua fugace esistenza. (p. 273)
25 giugno 2006