DUE LIBRI,
UNA PAGINA (74)
Letture di
Fabio Brotto
Di Achmat Dangor – un musulmano di origine asiatica
nato a Johannesburg – Frassinelli pubblica La maledizione di Kafka
(Kafka’s Curse, 1998,
trad. it. di E. Capriolo, 2006). Un
testo che deve aver avuto una gestazione complessa, non certo lineare, come
testimonia la sua struttura, che riesce ad essere intricata a dispetto delle
sole duecento pagine, al punto che l’autore ha pensato di premettere una tavola dei rapporti di parentela dei
numerosi personaggi. Un titolo da letteratura molto alta. Una pretesa
forse eccessiva da parte di uno scrittore che non mi pare riesca
a mantenere le promesse. La maledizione è quella di una metamorfosi verso il
basso, che è chiaramente in relazione allo
sradicamento del personaggio principale dalla propria cultura di origine.
Libro interessante tuttavia: se non altro perché fa capire al lettore
italiano come il Sudafrica non sia fatto solo di bianchi e neri, come qui da
noi si tende a pensare, ma di una quantità di etnie,
che come sempre e dovunque fanno fatica a comprendersi, accettarsi e
soprattutto ad integrarsi.
In realtà, il nucleo generatore di tutta la storia è
mitico, ed è la breve favola di Leila e Majnoen, che qui riportiamo. Ma quando una
narrazione romanzesca realistica vuole sostanziarsi di un nesso favolistico-mitico e di un rimando alla più alta
letteratura novecentesca contemporaneamente, rimanendo nello
stesso tempo ancorata ad una realtà sociale determinata, corre un
rischio mortale. Dangor non lo supera.
E mi raccontò la storia di Leila e di Majnoen. Dovete sapere che Majnoen
è sia un nome d'uomo sia una forma di pazzia... In
Arabia, credo - dove altro poteva ambientare
i suoi esordi? - viveva una bella principessa di nome Leila, che tutti volevano sposare. È questo
che la gente vuole dalle principesse. Il matrimonio...
Ma lei s'innamorò del giardiniere di suo padre, Majnoen,
un uomo dotato ma strano. Parlava agli alberi e bisbigliava ai fiori, e faceva crescere le cose
soffiando loro addosso. Ma naturalmente una principessa non era libera di sposare un giardiniere, e così decisero di
fuggire. Si sarebbero incontrati
nella foresta, che Majnoen conosceva
meglio di chiunque altro, ogni
albero, ogni foglia, ogni sentiero erboso.
Majnoen promise all'amata che l'avrebbe aspettata in qualsiasi caso. Ma accadde l'inevitabile... Il
padre di Leila, il califfo, venne a conoscenza del loro progetto di fuga e non potendo
tollerare la vergogna di una figlia scappata con un volgare giardiniere, uno con le dita infangate, la
rinchiuse. E Majnoen
aspettò, per giorni, per settimane, finché cambiarono le stagioni,
finché la foresta cominciò a preoccuparsi
per lui, per la sua fame e la sua sete, e cominciò a nutrirlo. Il sole e la pioggia, e la ricca terra nera lo
protessero dai vermi e dai tarli
eccetera. E quando Leila riuscì finalmente a
fuggire e corse nel punto dove doveva incontrarlo, scoprì che Majnoen era
diventato parte di un albero... no... era
diventato un albero. Non una brutta e vecchia quercia, ma un salice bello e sensibile. (pp. 18-19)
* *
* * * * *
L’idea di perderti, di
Giorgio Montefoschi (Rizzoli,
Milano 2006). Quattrocento pagine di narrazione raffinata, quasi tutte di
dialoghi, di analisi paziente, a tratti estenuante, di
un tessuto di rapporti umani. Un gruppo di amici nella
Roma borghese, un cinquantottenne che pensa di non amare più la moglie, pensa
di innamorarsi di una donna più giovane, poi pensa di non capire più nulla,
come altri nel suo ambiente. Un pittore più o meno coetaneo,
rivale (per modo di dire) in amore, alla ricerca di un’opera assoluta, dopo
aver raggiunto il successo in età matura. Borghesia
appiattita sulla vita di tutti i giorni, senza un senso forte, non riscattata
nemmeno dall'arte. Ma, infine, severamente
interrogata dalla morte. Dalle morti. Un romanzo sulla fragilità e la
transitorietà delle persone umane. Un romanzo con un finale
alle soglie del misticismo, aperto a molte interrogazioni. Infatti, ci
si può cominciare a chiedere perché Montefoschi non
l’abbia ambientato nella Roma del 2005, ma presumibilmente negli anni Ottanta, visto che nessuno dei personaggi ha un cellulare, ma c’è un
ampio uso della segreteria del telefono fisso, e c’è un riferimento a Massimo Cacciari che alla radio parla di angeli (L’angelo necessario è del 1986). La
narrazione è raffinata e professionale, questo è certo, ma la scrittura mi
lascia qualche perplessità: ad esempio ci si potrebbe anche chiedere perché, ad
onta di uno stile medio, di una scrittura controllata, e di un italiano privo
di vezzi stilistici e sperimentalistici, vi sia nel
parlato di persone di ceto medio-alto un assoluto abbandono dei congiuntivi, di cui si potrebbero addurre
esempi quasi da ogni pagina : “Pensavo che era divertente” (p. 276), “Ma, noi
siamo sicuri che ha visto?” (p. 409) [e qui parla il prof. Harrison
durante una conferenza].
3 agosto 2006