DUE
LIBRI, UNA PAGINA (78)
Letture
di Fabio Brotto
Può essere a tratti strana l'impressione che si
prova leggendo Heliopolis (Heliopolis, trad. it. di M. Guarducci, Guanda, Parma 2006) il romanzo di anticipazione che Jünger pubblicò nel
1949. Si ha la sensazione di leggere uno strano ibrido tra fantascienza e Goethe. Un visione complessa di
una società dominata dalla tecnica ma ancora pervasa di umanesimo
aristocratico, con intuizioni sul futuro tecnicizzato dell'umanità che si
alternano a squarci di narrazione tradizionalissima, ma mai scontata. Come nel
dibattito tra gli amici alle pagine 106 – 111, in cui ciascuno è chiamato a esprimere la propria idea della felicità, un passo che
rimanda alle origini arcaiche della letteratura e della saggezza. C'è un brano
che mi pare una vera profezia dei nostri anni (in parte ex eventu, ma solo in piccola parte), in
cui soprattutto mi inquietano molto queste parole: Alla fine non c'era più nulla di insulso, di
impudico, di terrificante che non entusiasmasse le masse con la furia di un
uragano.
La cosa strana era che il demos fosse potuto cadere in balìa di simili
dèi, anche se la via che portava a essi era ritenuta
logica. Serner lo aveva descritto bene nel suo lavoro
sullo sviluppo del tribunato. C'erano prima i teorici
e gli utopisti che vivevano in celle lavorando e occupandosi seriamente,
logicamente e, per lo più, rettamente del futuro degli
oppressi e della loro felicità. Portavano alle masse la luce. Poi venivano gli
uomini pratici, i vincitori delle guerre civili e i
Titani di nuove ere, i prediletti dell'aurora. Nella loro azione culminava e
naufragava l'utopia. Si vedeva che essa era stata il
mezzo propulsore ideale. Era evidente che si poteva
trasformare il mondo, ma non la base su cui esso poggiava. Seguivano poi i
potenti puri. Essi fabbricavano per le masse il nuovo tremendo giogo. La
tecnica li appoggiava sì da superare anche i sogni più audaci degli antichi
tiranni. I vecchi mezzi tornarono con nomi nuovi: la
tortura, la servitù della gleba, la schiavitù. Si diffusero
disillusione e disperazione, e un profondo ribrezzo per tutte le frasi e i
raggiri della politica. Fu questo il momento in cui lo spirito si rivolse ai culti,
in cui fiorirono le sètte e ci si cominciò a dedicare, in piccole cerchie e in
élite, alle arti, alla tradizione e ai piaceri. Di fronte a questo risveglio, declinarono le grandi masse. Emersero allora quegli spiriti
tendenti al male nei quali la massa riconobbe subito personificazioni e idoli
di quell'animalità che le era rimasta. Essa li amava
nella loro pompa, nella loro petulanza, nella loro insaziabilità. L'arte -
soprattutto il cinematografo e l'opera - preparò il clima perché tali tipi si sviluppassero. Alla fine non c'era più nulla di insulso, di impudico, di terrificante che non
entusiasmasse le masse con la furia di un uragano. Mentre la
penultima figura comparsa sulla scena si era data al lusso, al vizio, alle
crapule nell'interno della sua residenza e delle sue isolate villeggiature,
quest'ultima, invece, esibiva tutto nei mercati e nelle piazze come
rappresentazione dedicata al popolo, come banchetto per gli occhi. Aveva
scoperto le fonti della popolarità. (p.
220)
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Contro il fanatismo (The Tubingen
Lectures. Three Lectures, 2002, trad. it. di
E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano 2004) contiene le
conferenze tenute da Amos Oz sul tema del rapporto
tra Israeliani e Palestinesi. Dovrebbero leggerlo tutti coloro
che pensano di aver capito tutto della questione mediorientale. Ma si sa che la saggezza è per pochi, e che il fanatismo è
per molti. È un virus dal quale solo la pratica della saggezza può rendere
immuni. Essendo saggio, Oz è ovviamente
anticonformista, e la sua idea del compromesso nella divisione fra i due popoli
può apparire impraticabile. Il problema della Palestina è che tutti hanno
ragione e tutti torto, e che bisogna iniziare dalla
rinuncia ad una parte della propria ragione e dalla comprensione dell'opposta
ragione dell'altro.
Gli europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli
intellettuali europei, gli europei liberali, com'è noto, hanno sempre bisogno
di sapere per prima cosa chi sono i "buoni"
e chi i "cattivi" in un film. Ora, a proposito del Vietnam era molto
facile, sapevamo perfettamente che il popolo vietnamita era la vittima e gli
americani erano i cattivi. Per l'apartheid era facile, si dichiarava senza
esitazione che quello era peccato, mentre la lotta per i diritti civili, per
la liberazione e l'uguaglianza e la dignità umana, quella era
giusta. La guerra fra colonialismo e imperialismo su un fronte, e le vittime
del colonialismo e dell'imperialismo sull'altro, è relativamente semplice - si
può individuare con facilità chi sono i buoni e chi i
cattivi. Quando invece si arriva alle radici del
conflitto arabo-israeliano, e in particolare ai conflitti israelo-palestinesi,
le cose non sono più così semplici. E temo che non le
renderò più facili per voi dicendovi: questi sono gli angeli, questi i demoni,
non dovete fare altro che sostenere i primi, e il bene prevarrà sul male.
Non è così semplice, amici miei, non è così semplice
perché il conflitto israelo-palestinese non è un film western. Non è una lotta
fra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica, nell'accezione più precisa che la parola assume: lo scontro
fra un diritto e un altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante,
convincente, e un'altra assai diversa ma non meno convincente, pregnante, non
meno umana. (p. 58)
13 dicembre 2006