DUE
LIBRI, UNA PAGINA (79)
Letture
di Fabio Brotto
In questi tempi in cui si discute molto del
rapporto fra la Turchia e l'Europa, può essere interessante la lettura di un
bel romanzo di Moris Farhi, Giovane turco
(Young Turk, 2004, trad. it. di I.
Zani, Edizioni Lavoro, Roma 2005), ambientato negli anni Quaranta del secolo
scorso, che narra l'ingresso di un gruppo di adolescenti in un mondo difficile
e affascinante. Il romanzo di Farhi parla essenzialmente del significato
dell'esser turco, e delinea una turchità
come coesistenza di culture differenti che si compenetrano dialogando tra loro.
Un sogno, forse, che potrebbe aver ricevuto delle smentite storiche tremende,
come il genocidio degli Armeni. La trama del libro, che ondeggia tra assoluto
realismo e affioramenti mitici, si distende sopra l'abisso di lacrime e sangue
degli anni della grande strage nazista degli Ebrei, che con la Turchia hanno
sempre avuto un buon rapporto, trovandovi spesso scampo dalle persecuzioni
occidentali. Non c'è nazione senza contraddizione. L'inizio è splendido, e
merita di essere letto e riletto, a dimostrazione di una grande tempra di
narratore.
In
principio è la Morte.
Ogni creatura la incontra, alla
nascita. E gli animali non dimenticano mai quell'incontro: mentre noi umani,
con poche eccezioni, lo scordiamo
sempre, benché vi mercanteggiamo diverse volte al
giorno. Questo commercio non viene mai condotto con il
cervello o con il cuore, come ci si potrebbe aspettare, ma con i genitali. I
fremiti che avvertiamo tra le gambe non sono sempre
causati dal desiderio sessuale o dalla paura: per lo più, essi documentano i nostri
negoziati con lo Scheletro Cigolante.
Questi i fatti, così come sono usciti
dalla bocca di Mahmut il Simurgo,
il cantastorie turkmeno del circo. Fedele al proprio nomignolo, egli somiglia a un uccello, immenso e
oscuro come una nube di pioggia. E benché si accompagni con
un kemençe che
ha soltanto due corde al posto delle consuete quattro, crea suoni che paiono
provenire da altri mondi. Quanti lo hanno sentito cantare la storia del
genere umano in mille e un episodio potranno
confermare che egli è, come lui stesso ammette, il solo uomo di verità sulla
terra.
Alle volte, le transazioni fra la
Morte e la sua preda si fanno violente. Quando Alessandro Magno uscì dal ventre
di Olimpia e vide la Morte che gli gironzolava
intorno, subito sguainò la spada e
le si gettò contro. La Morte gli sfuggi a stento, e poi non osò avvicinarsi di
nuovo ad Alessandro per trentatré anni; non finché non le riuscì di corrompere una zanzara babilonese perché avvelenasse il
nobile sovrano.
Come non manca di sottolineare
Mahmut il Simurgo, l'aspetto
fenomenale e sovente trascurato di questa storia, trascurato persino nell'İskendernâme, l'ineguagliabile peana di Nizâmi ad Alessandro, non è che un neonato abbia il
coraggio di attaccare la Morte, perché dopotutto certe qualità in un eroe
divino uno se le aspetta; ma che ogni generazione produca molti individui
normali in grado di percepire la presenza della Custode della Polvere. Questi
profeti di morte dotati di sette occhi, sette cervelli e del fegato necessario
a salvare le vittime della Morte; quelli simili a
Ercole, Atatürk e Churchill,
giusto per fare qualche nome, sono noti come Pîr.
(Per chiarire meglio: sappiamo tutti
che la Morte è un emissario di Allah. Diversamente
dagli altri servitori di Allah, tuttavia, ella è anche
un demone. Per questo ogni volta che può, anziché
scegliere le anime che hanno condotto esistenze piene e hanno bisogno di
passare a un mondo migliore, o i miscredenti che meritano di morire, lei
ghermisce i giovani, i buoni, i giusti, e addirittura razze intere. Spesso
carpisce, ben prima che sia il loro tempo, persone che sono carissime al cuore dello stesso Allah. Così facendo ella
umilia l'Onnipotente: e si tratta di un'iniquità oltre ogni iniquità. Forse che
un giardino lascia le sue piante perire? Spiacente, Efendi, oggi le rose sono tutte
morte; dolentissimo, Hanim, entro domani tutti i
gladioli saranno estinti; ohimè, Aga, i lillà sono
stati sterminati ieri! È ovvio che Allah dovette
intervenire, e così creò i Pîr.)
Come ho detto, Mahmut il Simurgo conosce ogni
verità; dunque, quando cantò le rivelazioni dei Pîr, mi resi conto che la nostra vicina Gül
de Taranto era una di loro. (pp. 7 - 8)
*
* * *
* * *
Tre racconti semplici e lineari (scritti tra 1950 e 1951, riuniti in volume
nel 1959), in cui tre coppie di esistenze di uomini e
donne sono messe a nudo nella loro sospensione tra l'essere e il nulla: questo
è Amore, di Inoue
Yasushi (trad. it. di G. Amitrano, Adelphi, Milano 2006). I
sei personaggi sono uomini e donne qualsiasi, membri anonimi di una società che
è già diventata di massa, il cui incombere sulla soggettività dei singoli e
sulla loro libertà si avverte appena, ma con certezza. Benché il contesto sociale sia giapponese, questa umanità è, come
sempre nei grandi scrittori, universale. Splendido mi pare soprattutto l'ultimo
racconto, La morte, l'amore, le onde,
in cui un uomo, che ha deciso di uccidersi dopo aver letto l'antico Viaggio in Oriente di Ruysbroek, si ritira in un albergo vicino ad un'alta
scogliera, dalla quale intende gettarsi alla fine della lettura, e nell'albergo
incontra una giovane donna, anch'essa decisa a por termine alla sua esistenza,
per una pena d'amore. Mirabile incontro, mirabile narrazione.
10 gennaio 2007