DUE
LIBRI, UNA PAGINA (81)
Letture
di Fabio Brotto
Vukovlad, di Paolo
Maurensig (Mondadori, Milano 2006), è un romanzo breve (forse troppo breve)
che, narrando una sinistra vicenda dal sapore gotico, vuol far riflettere
sull'ambiguità dell'umano e sul problema del male. I fatti si svolgono nei giorni dell'attacco
nazista alla Polonia. Il protagonista, che è
un io narrante a sua volta narrato—c'è infatti una classica cornice—è un
ufficiale di un distaccamento ungherese dell'esercito polacco, in ricognizione
in un territorio di frontiera spopolato e tenebroso, con neve alta a fine
estate. Egli si trova a confrontarsi con una situazione apparentemente del
tutto separata dalle vicende storiche in atto (un despota con la sua corte,
riti medievali di caccia e di prime notti), e in sostanza con un licantropo (o
più?). Il testo è intessuto di ammiccamenti e riferimenti dotti e letterari,
come la figura appena abbozzata del tenente Holenia, che viaggia sempre con
molti libri, per non parlare di Stevenson. Nell'insieme mi pare che la
posizione dell'autore sia ambigua più dell'ambiguità che vuol far risaltare, ma
sanamente ambigua, potremmo dire. Infatti il male degli umani è anzitutto un
male solo e tipicamente umano, mentre qui sembra di avvertire una malignità
nella natura stessa, come anche si potrebbe evincere dalla stessa conclusione
della storia. Non si tratta però di un male naturale,
come lo sono le sventure causate da forze della natura stessa, inondazioni,
terremoti, ecc., ma di qualcosa che, essendo nella natura, non è
natura. Siamo alle soglie della comprensione girardiana del mostruoso come
proiezione del processo di generazione del capro espiatorio. Solo alle soglie
però. Ecco un breve illuminante passo:
Credo non vi sia nulla, come l'isolamento in mezzo a
una natura selvaggia, in grado di alimentare la paura del Male. Quanto a
quest'ultima, essa travalica di gran lunga la paura di morire, o meglio, alla
paura di morire aggiunge la paura ancora più grande di perdere, nella morte,
anche l'anima. (pp. 41-42)
Potremmo anche accettare queste parole
come vere, ma a patto che sia chiaro che loro verità è una verità sempre sociale. Gli umani sono proiettivi, e
caricano le forze della natura di quello spirito del male che è sempre e
soltanto loro.
* * *
* * *
Uno dei meriti della poderosa opera di
Miloš Crnjanski, Migrazioni I (su cui una nota precedente) e Migrazioni II (trad. it. di L.
Costantini, Adelphi, Milano 1998), è quella di generare una lettura lenta. E, di conseguenza, di far
meditare su quanto spreco sia insito nella vorace, bulimica lettura di libri su
libri cui si dedicano molti lettori forti
dei nostri giorni. Spesso si legge troppo e male. Si passa da un romanzo
all'altro senza far sedimentare, senza far germogliare alcun seme. Passi per
gli autorucoli (ma perché leggerli?). Con i grandi è uno spreco e un delitto.
Il respiro di Migrazioni è profondo, il cuore batte lentamente. Bisogna
consuonare con esso.
Il Settecento austro-russo di Crnjanski
è una voragine sull'immensità della storia e del mondo e sull'inconsistenza
dell'individuo. L'orgoglioso nobile ussaro
sirmiano Pavle, vedovo che scopre l'amore per la moglie dopo la morte di
lei e le rimane fedele oltre il limite, e che nella sua ignoranza coglie, con
la sola forza della sua ingenua meditazione, il senso del tutto—che si riassume
nella frasetta ripetuta «è acqua passata»—è una delle più grandi figure
romanzesche dello sradicamento che si possa trovare in tutta la letteratura del
Novecento.
La cappella
eretta sulla tomba della moglie era situata su un monticello, all'ombra di un
prugneto, e il suo tetto di lamiera azzurra si vedeva da lontano, attraverso i
rami. Di fronte ad essa era posta una panca, al centro di una siepe quadrata di
bosso dietro la quale si vedevano campi di grano falciati, foreste lontane e la
valle del Danubio. Una piccola cupola a bulbo sormontava il tetto della
cappella.
Dopo una
lunga pausa di raccoglimento, Pavle si sedette sulla panca per rilassarsi e
chiuse gli occhi. Sentiva la brezza del Danubio accarezzargli i capelli e il
viso. In seguito ripeteva spesso che quella era stata la più grande
consolazione della sua vita.
Rabbrividiva
immaginando lo stato presente del corpo di Katinka, ma ciò non gli impedì di
accarezzarla e baciarla col pensiero, più di quanto avesse fatto quando era
viva. Pensando a quel cadavere in decomposizione - e di cadaveri ne aveva
visti tanti nella sua vita -, Pavle sgranò gli occhi per l'orrore, ma subito si
riprese. Tutte le cose intorno a lui gli sembravano vaghe e transitorie, come
quell'estate che volgeva alla fine. La contemplava, quell'estate, dovunque
andasse, la sentiva aleggiare sui campi falciati e sui tetti di Varadin, sui
cimiteri e sullo Srem, su di lui e su tutti gli imperi. Nella sua patria
perdurava il caldo dell'estate, ma nella brezza che saliva dal Danubio si
avvertiva già una frescura autunnale. La morte della moglie si confondeva
adesso con la caducità delle cose del mondo, che aveva segnato tutti i fatti
della sua vita. Temesvár, il reggimento degli ussari sirmiani, le sue terre, la
sua casa, tutto lo abbandonava. Solo la moglie morta lo accompagnava,
accarezzandogli i capelli e il viso.
I suoi
cugini avevano dei figli e pensavano che in questi si sarebbe perpetuata la
loro vita, destinata così a durare in eterno. A lui, Pavle, questa speranza era
negata. Tutto gli sembrava evanescente come un sogno. Ciò nonostante, era
venuto via da Varadin senza lacrime, portandosi nelle orecchie i canti che i
giovani, in giro per i vicoli dei villaggi, intonavano sotto la luna nelle
notti d'estate. Ogni volta che il ricordo della moglie gli tornava in mente
durante il viaggio, esso era accompagnato da quelle melodie.
Era la cosa
più bella del mondo. (pp. 430-431)
11 marzo 2007