DUE LIBRI,
UNA PAGINA (83)
Letture di
Fabio Brotto
"Sono nato alle soglie dell'inverno, in montagna, e la neve ha accompagnato
la mia vita". Inizia così Stagioni
di Mario Rigoni Stern
(Einaudi, Torino 2006). E certo è un incipit che rimanda anche ai libri di
questo grande vecchio, che recano il sigillo del Sergente nella neve. E già questo incipit ha nella sua breve misura il ritmo del libro
intero, il ritmo di uno che cammina tra le montagne e nei boschi, il ritmo di
un uomo saggio, di un antico cacciatore. È questo ritmo che colloca Rigoni Stern fuori dell'orbita
della civiltà globalizzata (cui appartengono anche i
contestatori vocianti della medesima).
Il mondo che queste pagine evocano non è quello di un eterno presente
naturale, ma un mondo al passato, che si sa del tutto perduto, di cui rimangono
solo pallide tracce, e qualche anziano testimone. Non v'è dubbio che allo
sguardo di Rigoni Stern il
mondo duro e faticoso della montagna di un tempo appaia essenzialmente diverso
da quello di oggi, corrotto.
Erano belle le sere estive con la luna sopra i tetti. Mi pareva di sentire le stelle e invece erano i grilli sui prati. Allora le voci del paese e della natura intorno, gli odori, i rumori, le nuvole e le luci avevano chiaro riferimento con la vita e seguivano le stagioni dei nostri giuochi e del lavoro degli uomini (p. 68)
Che la posizione di Rigoni Stern nel mondo attuale sia per certi
versi analoga a quella di un sioux confinato
in una riserva è rivelato con la maggior chiarezza in
tutti i passi della sua opera (e anche di questo libro) in cui egli si presenta
in veste di cacciatore. Qui la mia anima vibra con la sua.
Quando viene l'ottobre, con le sue piogge arrivano anche le beccacce che hanno lasciato i luoghi di nidificazione del Settentrione dove il terreno gela e il giorno è sempre più breve; sostano qui prima di raggiungere i luoghi dello sverno nel nostro Sud. È il momento magico del bosco, dei silenzi, delle albe nebbiose, dei colori smorzati verde-bruno-giallo in tante tonalità che a tratti una luce misteriosa rende evidenti nel sottobosco pre-invernale. Certe volte ti fermi ad ascoltare il campanello e poi il trotto di un cane del cacciatore solitario che passa, si allontana e svanisce dentro il bosco.
Tra i possibili modi di cacciare, questo d'autunno - con la pioggia e con un cane in luoghi che ben conosci, con un fucile che senti tua continuazione, e l'ora e la stagione, e i ricordi che ti accompagnano - ti fa intensamente partecipare a un mondo che senti esclusivamente tuo, che ti aiuta a capire le stagioni della tua vita che nessuno mai potrà rubarti. (p. 110)
In questo piccolo libro, che richiede una lettura lentissima, si
trovano dei passi intensamente suggestivi, come il
seguente, in cui uno dei narratori più anerotici della nostra tradizione recente dipinge con
straordinaria levità il miracoloso apparire, mentre lui se ne sta appostato in
attesa di una lepre, di una ragazza che da una casa sperduta scende al paese
per la messa. La grazia femminile appare e scompare, e poi passa una capriola.
Scena originaria, che ci proietta
nella letteratura medievale, con una capacità di incanto
inversamente proporzionale alla parsimonia dei mezzi letterari impiegati. (Materia di riflessione per schiere di giovani e non giovani
narratori pieni di velleità).
Per la valle, ora lontani ora vicini, ascoltavo i segugi sulle tracce dei lepri e le campane dei villaggi e le acque che scendevano dai nevai. Ero alla posta che mi avevano assegnato, aspettavo e mi sentivo come gli alberi, i cani, le lepri, gli uccelli: uno vivo nel mondo.
Un passo lieve venne dall'alto; vidi prima due piedi dentro due scarpe di pezza, poi, come avvallava, tutta la figura. Era una giovane donna che scendeva al paese per la messa domenicale. Rimase sorpresa nel vedere uno sconosciuto in posta di caccia dove solitamente incontrava un compaesano, ma pur io ero sorpreso per l'apparizione, perché non credevo che sopra il maso dov'ero passato ce ne fosse un altro: lassù la montagna era inospitale. La donna, passandomi accanto, mi diede il saluto dei cacciatori, sorridendo, e io sorridendo risposi.
Così com'era apparsa, spari alla mia vista con passi agili sulle pietre del sentiero.
Dopo vennero gli scoiattoli; si divertivano a inseguirsi dai rami a terra, poi lungo i tronchi, fra i rami. Passò anche una capriola e mi guardò muovendo le orecchie e poi s'incamminò tranquilla. (p. 121)
* * * * * * *
È un mondo di ecclesiastici anglicani (vescovi
e arcidiaconi, canonici e decani, tutti sposati e con figli e soprattutto figlie) quello che Anthony Trollope ritrae nel suo
ciclo di romanzi Cronache del Barsetshire. Non vi sarebbe interesse possibile da parte
nostra per un mondo ormai così lontano se la narrazione non fosse
capace di toccare temi permanenti, e far apparire nella mente del lettore dei
personaggi che hanno uno straordinario grado non solo di realismo ma di verità
umana. Si tratta di un ciclo, e quindi di romanzo in romanzo troviamo gli
stessi uomini e donne, in diverse fasi della loro vita. Uno dei personaggi che
colpiscono maggiormente, se si è disposti a seguire Trollope
nel dipanarsi della sua minuziosa narrazione, è quello del vecchio reverendo Harding, già protagonista de L'amministratore (in Sellerio, tradotto
da Garzanti col titolo Un caso di
coscienza – una sottile analisi delle pieghe della coscienza di un uomo debole che i suoi principi obbligano ad essere
forte). Nel ruolo di ecclesiastico e di padre, così
lontano da una situazione cattolica,
si muove entro una rete di relazioni con altre figure, rete complessa,
delicata, piena di sottili ambiguità. Tutti i personaggi trollopiani
sono pienamente umani,
nessuno è semplice nel bene e nel male. E anche quando il tema è quello
più pericoloso, il tema del potere e del suo irresistibile fascino, come ne Le torri di Barchester (Barchester towers, trad. it. di R. Cazzullo, Sellerio, Palermo
2004), di ciascuno sono disegnati tutti i lati, rappresentate tutte le ragioni.
Qui in gioco è il potere, ovvero chi debba comandare e chi obbedire
nella diocesi di Barchester, in cui si è appena
insediato il vescovo Proudie. Egli è totalmente
dominato dalla moglie, vorrebbe liberarsi dalla sua condizione di assoggettamento, ma è troppo debole per riuscirci da
solo. E si apre una partita a tre, poiché il giovane
assistente del vescovo, Slope, aspira a prendere
nelle sue mani il comando effettivo nella diocesi, quel comando che in
precedenza era esercitato dall'arcidiacono Grantly,
che a sua volta non intende mollare la presa. Grantly,
Slope e la signora Proudie
si daranno quindi battaglia per ciò che gli umani, di
entrambi i generi, amano più di qualsiasi cosa: il potere, che nella sua ultima
radice coincide col piacere di comandare altri esseri umani, ordinando loro
quello che debbono o non debbono fare. E qui si vede come potere e religione abbiano molto a che fare tra loro. Ed
uno dei modi in cui nella religione si manifesta il potere è nella
predicazione. Poiché nella predicazione c'è uno che
pone la sua parola sugli altri, sui fedeli, gliela im-pone. Essi debbono ascoltarlo. Ahimè,
spesso la parola imposta è noiosa e poco significante. Ma ciò
che conta è l'atto del parlare a chi ti deve ascoltare. Nulla di più
facile dell'autocompiacersi del
predicatore.
E qui devo
protestare contro la scusa, così spesso avanzata dagli
ecclesiastici che lavorano, che essi sono gravati da una moltitudine di sermoni
da predicare. Amiamo tutti troppo le nostre voci e un predicatore è incoraggiato nella vanità di far sentire la sua dal
privilegio di un pubblico assoggettato. Il sermone è il bocconcino prelibato
della sua vita, il delizioso momento di auto-esaltazione.
«Ho predicato nove sermoni questa settimana», mi diceva un giovane amico
l'altro giorno, con la mano languidamente portata alla fronte, l'immagine del
martire sovraffaticato. «Nove questa settimana, sette
la scorsa settimana, quattro la precedente. Ho predicato ventitré sermoni
questo mese. E davvero troppo». «Troppo in verità», ho
detto io, rabbrividendo. «Sì», ha risposto lui con fare mite, «davvero; sto
cominciando a risentirne dolorosamente». «Vorrei», ho ribattuto, «che ve ne
rendeste conto - che fosse possibile farvene rendere conto». Ma
egli non indovinò mai che il mio cuore sanguinava per i poveri ascoltatori. (p. 73)
14 maggio 2007