DUE LIBRI,
UNA PAGINA (86)
Letture di
Fabio Brotto
Leggo solo romanzi che mi interessano per i
loro contenuti, e difficilmente mi lascio trascinare dal successo di vendite e
di critica. I romanzi di successo li faccio
raffreddare, di solito. Per questo, quando tutti in Italia parlavano de La donna giusta (dodici edizioni Adelphi
da marzo 2004 a maggio 2006), ho lasciato perdere.
Anche se forse occorrerebbe chiedersi il perché del successo di un'opera che non sembrerebbe molto in sintonia con lo spirito dei
tempi. La donna giusta è un romanzo
strano, come struttura e gestazione, ad ennesima
conferma di quanto proteiforme e plastico sia il genere letterario. In realtà,
ciascuna delle sue tre parti principali ha una sua autonomia, dato che si tratta di monologhi dei tre personaggi
principali (la moglie di Péter, Péter
stesso e Judit, la seconda moglie) che vedono ciascuno dal suo punto di vista
la vicenda in cui sono tutti in qualche modo in rapporto tra loro. Vicenda che si può ridurre in questi termini: un agiato e raffinato
borghese, sposato con una donna bella e raffinata e che lo ama perdutamente, fa
fallire il suo matrimonio perché non riesce a liberarsi dal desiderio per una
cameriera della casa di sua madre, e infine divorzia, la sposa e finisce per
essere da lei derubato, e anche questo secondo matrimonio si rompe. La
storia non è ricca di eventi, non è un romanzo di
trama ma di atmosfere, di pensieri, e soprattutto di vuoto, che la facondia dei
personaggi non colma. Questo vuoto però, e forse qui sta la chiave del successo
di Sándor Márai,
ha molto a che fare col desiderio, ed anzi ne è una
declinazione. Il nucleo di tutta la vicenda è infatti
nel desiderio, chiaramente immotivato (non lo spiega la bellezza della
cameriera, anche la moglie è bella), che il protagonista prova per una donna
che parrebbe essere quella giusta per lui. Qui sta anche l'esca per lo sviluppo
dell'elemento salottiero, per così dire, la discussione se sia
legittimo pensare che nella vita si possa incontrare la donna giusta o l'uomo giusto. In sostanza, una versione anche popolare dell'eterna
questione del vero amore, della felicità nel matrimonio o nel rapporto di
coppia, ecc. Io penso che il romanzo sia, in realtà, una chiarissima
esposizione dell'idea che il desiderio umano è senza fondamento, si crea il
proprio oggetto, e tende all'infinito. La perfezione
della vita borghese nella famiglia di Péter è infatti il tentativo di dare all'esistenza un forma
stabile, che il desiderio finisce per minare alla base. E qui non si tratta del
mero desiderio erotico, che farebbe di questo romanzo l'ennesima versione della
banale denuncia della doppiezza della borghesia, della sua incapacità di
governare le pulsioni sessuali se non mediante la repressione, ecc.; si tratta
invece della messa a nudo del nichilismo del desiderio proprio in quanto non viene represso, ma, al contrario, seguito fino
in fondo.
Le donne. Hai notato con quale tono incerto e diffidente gli uomini pronunciano questa parola? Come se parlassero di una tribù ribelle, assoggettata ma non ancora perfettamente domata, sempre incline alla rivolta. E poi, quale sarà mai il senso di questo concetto nella vita di tutti i giorni? Le donne... Che cosa ci aspettiamo da loro?... Figli? Aiuto?... Serenità? Gioia? Tutto? Niente? Attimi? L'uomo vive, desidera, si prepara per un incontro, fa l'amore; si sposa, sperimenta insieme a una donna amore, nascita e morte, poi si volta a guardare un bel paio di gambe per la strada, perde la testa per una splendida chioma, si rovina per un bacio di labbra ardenti e, mentre giace in alcove borghesi o sui materassi cigolanti di squallidi alberghi a ore, ha la sensazione di sentirsi appagato, e talvolta si mostra magnificamente generoso nei confronti di una donna. Gli innamorati piangono e si giurano di restare insieme, di aiutarsi e sostenersi; andranno a vivere in cima a una montagna o in una grande città... Ma poi il tempo passa, un anno, tre anni, un paio di settimane - hai notato che l'amore, proprio come la morte, ha un tempo che non si può misurare con orologi o calendari? e i loro grandi progetti falliscono, o non hanno l'esito immaginato. E allora si separano, pieni di rancore, o con indifferenza, e tornano a sperare, ricominciano da capo a cercare un nuovo compagno. Se sono ormai troppo stanchi e restano insieme, succhiandosi a vicenda energia e voglia di vivere, si ammalano; è un po' come se si uccidessero, e alla fine muoiono. E chissà se nel momento estremo, mentre stanno per chiudere gli occhi, capiranno finalmente che cosa volevano l'uno dall'altro... Forse invece hanno semplicemente obbedito a una legge cieca e incommensurabile, a un comandamento che rinnova e perpetua il mondo con il respiro dell'amore, e che necessita di uomini e donne i quali accop-piandosi garantiscano la conservazione della specie... Tutto qui? E loro, nel frattempo, poverini, che cosa mai speravano per se stessi? Che cosa si sono dati, che cosa hanno ricevuto l'uno dall'altro? Quale misterioso e tremendo bilancio è questo... E il sentimento che spinge un uomo verso una donna è davvero rivolto alla persona? Il suo oggetto non sarà piuttosto il desiderio stesso, sempre e soltanto quel desiderio che a volte, in modo del tutto provvisorio, si incarna in un corpo? Eppure, l'artificiosa eccitazione in cui viviamo non poteva certo essere il fine della natura quando ha creato l'uomo e ha deciso di mettergli accanto la donna perché ha visto che la solitudine non era un bene. (pp. 194 – 195)
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Mettere a fuoco
l'anima dentro il ciarpame del corpo è sempre un lavoro difficile. Certe anime
sono a cielo aperto, esposte all'ardore del sole, altre invece sono nascoste nel
profondo, e bisogna saltare tonnellate di scorie verbali per riuscire a intravederle. (p.
115)
Questo è detto a proposito di un vecchio, un nonno di molti bambini,
che vive un crepuscolo della vita miserevole, invalido e privo di parola,
e col soprannome di General
Pattume, nell'incantevole romanzo di Göran Tunström Il ladro
della Bibbia (Tjuven, 1986, trad. it. F. Ferrari, Iperborea, Milano 2006). Ma l'intero romanzo è un romanzo
sulle anime, sulla loro vocazione all'apertura e sul rischio di una chiusura
soffocante che sempre debbono affrontare e non sempre
riescono a superare. La ricca galleria di personaggi del libro fornisce esempi di anime che riescono a mantenere un'apertura all'altro e
all'amore, una forma di trascendenza, ed esempi opposti di anime che invece si
chiudono, in modi e per cause differenti, e per dir così si oggettivizzano e si
disumanizzano. Tra queste spicca il personaggio principale, il nanerottolo Johan, che impiega la sua straordinaria intelligenza in una
folle ricerca sulla lingua gotica, arrivando ad indentificarsi
con lo scriba di Teodorico, impegnato nella analoga
folle impresa di ultimare la realizzazione di una splendida Bibbia in gotico
mentre intorno infuria la guerra coi Bizantini e il popolo dei Goti sta per
sparire dalla faccia della terra, con la coscienza che quel mirabile libro non
sarà letto da nessuno. Ma spicca anche una delle
figure del padre più negative dell'intera storia della letteratura mondiale, lo
stupido e violento Fredrik, la cui vita ruota intorno
alla bottiglia e al suo pene.
Estrema incarnazione dell'intellettuale novecentesco intimamente vocato al fallimento, Johan è
anche corpo: un corpo mal riuscito e sofferente. La grandezza del romanzo di Tunström si manifesta anche nel modo in cui sono narrati i corpi.
Ci sono persone fisicamente invalide in cui vive ancora un'anima aperta, e
persone fisicamente ben dotate in cui l'anima è chiusa e come morta, ci sono
giganti e nani, e donne in cui l'anima non è uccisa da
una condizione di continue angherie e continue gravidanze. Tunström crea
personaggi con tocco lieve ma deciso di scultore romanzesco. Basti pensare al
vecchio prete cattolico, un nanetto anche lui, e
anche lui grande (e strambo) intellettuale e teologo, la cui definizione di Dio
è sconcertante e illuminante ("Egli è assenza di
ogni assenza", p. 337). Infine, un romanzo che sfiora il nichilismo lo
supera non con una ingenua posizione del positivo, ma
in una forma dialettica, che è l'unica ammissibile nella letteratura
post-novecentesca e post-millenniale.
11 agosto 2007