DUE LIBRI,
UNA PAGINA (89)
Letture di
Fabio Brotto
Tra gli ultimi romanzi che ho letto, Il castello di ghiaccio
di Tarjei Vesaas (Is-slottet, 1963, trad. it. di I Petroni, Iperborea, Milano 2001) merita una lode
particolare. E’ un romanzo incantevole, che mostra una straordinaria
capacità dell’autore di penetrare nell’anima femminile sospesa tra infanzia e
adolescenza. E’ la storia di un’amicizia assoluta di due ragazzine undicenni,
compagne di scuola, che a lungo non si parlano, fino a che una sera, a casa di
una delle due, finalmente si incontrano e scoprono di
essere entrate in un’amicizia totale. Ma Unn la mattina dopo, invece che andare a scuola, va a fare
una passeggiata fino alla cascata ghiacciata che dà il titolo al romanzo. In
quella specie di magico castello entra, e lì si perde, e non ne
esce più. Siss, l’altra fanciulla
vive disperatamente le ricerche, e i mesi successivi si chiude sempre più in se
stessa, fino allo sciogliersi del ghiaccio e al crollo del castello, a
primavera.
La sera
dell’amicizia Siss e Unn si
guardano insieme allo specchio, e si accorgono di essere una.
Quattro occhi con raggi e bagliori sotto le ciglia. Tutto lo specchio ne era pieno. Domande che affioravano e si dissolvevano. Non
so: raggi e bagliori, da te a me, da me a te, e da me a te sola - dentro e fuori dallo specchio, e mai una risposta su cosa significhi,
mai una spiegazione. Le tue labbra rosse e piene, no, sono le mie, così simili!
I capelli con lo stesso taglio, raggi e bagliori. Siamo noi! Non possiamo farci
nulla, è come se venisse da un altro mondo. L’immagine si mette a fluttuare,
esce dai bordi, si concentra, no, non si concentra. E’
una bocca che sorride. Una bocca da un altro mondo. No, non è una bocca, non è
un sorriso, è qualcosa che nessuno sa - sono solo
ciglia spalancate su raggi e bagliori.
Del
romanzo è possibile una lettura simbolica, anche perché il
linguaggio dello scrittore, terso e cristallino come il ghiaccio, a volte apre
ad immagini impreviste ed inquietanti. Come nel brevissimo capitolo intitolato L’uccello,
che inizia così:
L’uccello rapace dagli artigli d’acciaio tracciò una diagonale tra due
vette, in un tempo inesistente. Senza posarsi, riprese quota
per sfrecciare più lontano. Senza requie, senza una meta
certa al suo perpetuo librarsi in cielo.
Sotto di
lui si stendeva il paesaggio invernale.
Era deserto ovunque volasse. Il suo sguardo
lo sezionava. I suoi occhi lanciavano lampi e invisibili schegge di vetro
nell’aria ghiacciata, e vedevano tutto. Lì regnava sovrano -
per questo non vi erano altre forme di vita. Gli artigli d’acciaio erano
freddi come il ghiaccio, il vento gelido vi sibilava attraverso mentre fendeva l’aria pronto, a
ghermire.
L’uccello
tagliava le distese deserte in strisce e spirali, ed era la morte. Se c’era ancora una forma di vita tra gli alberi o i
cespugli, partiva un lampo dall’occhio e una diagonale fendeva il cielo in
picchiata. Dopo, la vita era ancora più rara.
Non vedeva nulla che gli somigliasse.
Si librava ogni giorno sopra le vaste
distese. Aveva ali forti, non si stancava mai.
Non poteva morire.
* * * * * * *
All’inizio
del Novecento i Turchi non avevano il cognome, come era
ed è costume degli Occidentali. Nel suo sforzo di modernizzazione
della Turchia, Kemal Atatürk
impose a tutti di scegliersi un cognome e di registrarlo all’anagrafe. Anche il
protagonista principale del romanzo di Orhan Pamuk La casa del
silenzio (Sessiz Ev, 1996, trad. it. di F. Bruno, Einaudi, Torino 2007) se ne sceglie uno:
Darvinoğlu, da Charles
Darwin, emblema della cultura europea e della Modernità, che egli adora e
vorrebbe portare in Turchia. E’ un gesto supremamente significativo. In realtà, al tempo in cui si svolge la
vicenda il dottor Selâhattin
è morto da anni, ma il suo fantasma di medico fallito e alcolista, che si
ritira dal mondo per scrivere una enciclopedia che dovrebbe rivoluzionare
l’Oriente, incombe nei pensieri della moglie ormai novantenne, e sui figli
illegittimi e sui nipoti. La narrazione si serve di alcuni io
narranti, che sono i personaggi principali: ne risulta un testo ricco e
complesso, ricco di umanità e che offre una visione della realtà turca, nella
sua infinita transizione.
Leggendo
questo libro, mi sono reso conto una volta di più di come sia
difficile per i popoli che un tempo sono stati potenti e rispettati e temuti
gestire un presente in cui non sono più grandi, in cui la potenza è passata ad
altri: mutatis mutandis,
Russia, Giappone, Germania, ecc. hanno dovuto e devono affrontare situazioni
analoghe. E anche l’Italia, sebbene non lo voglia
riconoscere.
I
personaggi de La casa del silenzio sono
tutti, ciascuno a suo modo, dei falliti. E questo pone Pamuk nell’ampio alveo di una fondamentale tradizione del
genere romanzo (il figlio di Selâhattin è già morto
alcolizzato anche lui prima dell’inizio della vicenda; il nipote, uno storico,
beve dalla mattina alla sera, e il suo fato sembra deciso; l’anziana Fatma
passa le giornate e le notti nel risentimento e nel gelo interiore, ecc.).
Solo il nano Recep mantiene una piena umanità,
vivendo in una sobria accettazione della realtà e dando alla narrazione uno
sfondo chiaro, su cui si proiettano le ombre più nere degli altri personaggi.
Filtrato
dai ricordi della moglie Fatma, il dottor Selâhattin
giganteggia nella sua lucida follia. Egli si convince di essere il primo
orientale che ha raggiunto il piano su cui si trova l’Occidente, e che per lui
è caratterizzato dal rapporto alla morte. Mentre gli Orientali non riescono a
pensare la morte come radicale annullamento, gli Occidentali ci riescono, ed è qui che si fondano la loro scienza e la loro
superiorità. Dunque per Selâhattin
occorre abbandonare Dio e divenire come gli Occidentali.
«Dobbiamo raggiungerli! Dobbiamo! Svelta, sbrighiamoci! » E aveva afferrato la sveglietta, l’aveva scagliata sul letto. Continuava a gridare: «Fra loro e noi ci sono forse mille anni di distanza. Ma possiamo riacchiapparli, Fatma, ci riusciremo, perché non hanno piú segreti per noi, noi abbiamo imparato tutto su di loro, conosciamo le basi della loro realtà. E, quella realtà, io la spiegherò quanto prima a questi sventurati in un opuscolo! Poveri idioti! Non hanno ancora capito di avere una sola vita! M’infurio quando ci penso. Vivono senza avere mai il minimo dubbio, ignorando perfino la vita che fanno, trovando normale il mondo che li circonda, felici e giudiziosi, vivono in pace! Ma io li scuoterò! Ci riuscirò, ispirando loro la paura della morte! Impareranno a conoscersi; ad aver paura di loro stessi, a provare disgusto per loro stessi! Hai mai conosciuto un musulmano capace di odiarsi, un orientale che provi avversione per se stesso? Il fatto è che non si aspettano niente da loro stessi, non sanno distinguersi dal gregge. Si sottomettono a una corrente, a un modo di vivere che non analizzano, e chiamano follia o anomalia il desiderio di cambiare qualcosa nella vita. Insegnerò loro ad avere paura, non della solitudine, ma della morte, Fatma! Allora potranno tenere testa alla solitudine, preferiranno i tormenti di quella solitudine alla sciocca serenità del gregge! Soltanto allora impareranno a considerarsi come il centro dell’universo. Non sentiranno piú la fierezza, ma la vergogna d’essere rimasti gli stessi uomini per tutta la vita; si faranno domande; s’interrogheranno basandosi non sui loro criteri religiosi, ma su quelli morali. Tutto questo si realizzerà, Fatma, io li desterò da quel sonno felice e sereno che dura da migliaia d’anni! Colmerò il loro cuore della paura della morte, di quello spavento che soffoca, che fa perdere la ragione, insinuerò quella paura nelle loro teste, all’occorrenza con la forza… (pp.335 - 336)
“Entrare
in Europa”. Si è detto anche in Italia e dell’Italia, non molto tempo fa. La
dialettica tra il desiderio di integrazione in un contesto più ampio
e potente e l’orgoglio della propria differenza resterà a lungo e per molti.
13 ottobre
2007