DUE LIBRI,
UNA PAGINA (91)
Letture di
Fabio Brotto
L’altro
volto che dà il titolo a questo
romanzo dell’iracheno Fu’ad al
Takarli (1960, trad. italiana di S. Triulzi per Jouvence, Roma 2005)
è il lato oscuro del protagonista, un impiegato di Baghdad che conduce una
misera vita, assediato da fantasmi che non ha la forza di dominare, sorta di
inetto in versione araba.
Ha una
giovane moglie che sembra amare teneramente, ma dopo un parto infelice, la
morte del bambino e la cecità che colpisce la donna, la rimanda a Bakuba, e insegue una relazione impossibile con una
giovanissima vicina sposata ad un vecchio. Ha dei complessi di colpa che non
riesce a portare a piena coscienza, è ateo e sulle soglie di un totale
nichilismo. La storia è fosca e disperata, ma condotta con grande
sapienza narrativa e capacità di leggere nei cuori (al- Takarli,
uomo dalla lunga vita, ha fatto il giudice). Dovrebbero leggerlo tutti quelli
che della cultura araba attuale hanno un’idea semplice e semplificatrice. E
anche tutti gli scrittori italiani che non sanno che anche 100 sole pagine
possono fare un grande romanzo.
A volte la vita di un uomo si schiude, come questo
cielo di perle, rivelando sia i valori in cui si crede che quelli in cui non si
crede. Ciò che conta sopra ogni cosa è avere un’anima
generosa e profonda, capace di affrontare qualsiasi cosa lungo il proprio
percorso. (p. 14)
Se lo dice il protagonista Muhammad, dopo
avere guardato con desiderio una ragazza sconosciuta. Lui in realtà è fondamentalmente un
vigliacco, verboso e contorto come molti intellettuali e pseudointellettuali
d’oriente e d’occidente.
L’altro volto è legato al nostro incessante divenire, ne
costituisce in qualche modo la cifra solidificata: il nostro io futuro,
pienamente disvelato nella sua vacuità, e nella sua
fondamentale falsità, tormenta già il nostro presente.
Chi ci salverà dalla persona che noi stessi diventeremo? (p. 93)
Ma cosa
possiamo fare di fronte alla persona che diventeremo?
È una nostra creatura, un dio implacabile (p. 94)
* * * *
* * *
Aria pura
si respira nelle pagine di Alessandro Spina. Anche in questo aureo libretto Conversazione in Piazza
Sant’Anselmo e altri scritti (Morcelliana 2002),
tutti consacrati alla relazione con Cristina Campo, ad una meditazione del
senso della sua opera, con una luce riflessa, a saper intendere, su quella
dello stesso Spina. Un testo contenuto in questo
libretto è davvero mirabile: si tratta di una lezione tenuta nel 1999 a Venezia , dal titolo Invito alla lettura. Spina è controllatissimo, e si esprime con quella semplicità di
secondo grado che è propria dei grandi spiriti. E
proferisce giudizi micidiali, che io condivido in toto, sulla critica e la
letteratura italiane del Novecento, giudizi che si possono estendere su quelle
attuali, confuse e mediatizzate. La lezione di Cristina Campo diviene lezione
di Spina. Con un’ampiezza di visione superiore e una pacata
consapevolezza.
La Campo era estremamente esigente
con se stessa, ma implicitamente lo era anche coi suoi lettori. Uno dei più
comuni difetti del lettore, poco importa se giovane o d’età, è di essere esigente con l’autore senza esserlo con se stesso.
Come è possibile a quel punto che sorga l’individuo,
il demone, di cui tessiamo insieme l’elogio? L’autore ha diritto di esigere dal
lettore la maggiore attenzione: a condizione tuttavia, ogni contratto ha
clausole vincolanti per entrambi i contraenti, che offra poi qualcosa di adeguato all’attenzione richiesta.Però
il lettore che abbiamo descritto, esigente con l’autore, e poco con se stesso, cioè incapace di attenzione costante e su piani diversi, ha
già superato lo stadio zero. Dove mettere invece colui che
non richiede nessuna qualità autentica all’autore, che legge distratto? Nulla è
più fastidioso dei periodici piagnistei sul fatto che in Italia si legge poco:
basta dare un’occhiata alla lista dei best
seller per invocare che si legga meno; per carità, ragazzi, piuttosto che
leggere robaccia, fate una passeggiata nel bosco, non sarà solo il corpo a
ricavarne profitto. (pp.
125 - 126)
21 NOVEMBRE 2007