DUE LIBRI,
UNA PAGINA (92)
Letture di
Fabio Brotto
Lingue
di fuoco (Tongues
of Flame, 1985, trad. it. di
R. Baldassarre, Adelphi 1995) è un romanzo di Tim Parks che presenta ai miei occhi più di un elemento di
interesse. Ambientato nella Londra in fermento degli anni Sessanta, con le sue
sub-culture giovanili in formazione e perenne metastasi, offre anche un interno
religioso e antropologico formidabile.
La vicenda
è narrata da un alter ego dello scrittore, figlio di un pastore protestante,
che si trova a confrontarsi con un’ondata di fanatismo carismatico che
destruttura la vita delle comunità consolidate e tradizionaliste. Le lingue
di fuoco sono anzitutto il manifestarsi di un fenomeno di
invasamento collettivo (il riferimento alla glossolalia
del Nuovo testamento è evidente) che porta a dinamiche di gruppo in cui la
soggettività è annientata in favore dell’anima collettiva. E
non ci si deve stupire se, in forme non poi tanto travestite, compare la
naturale tendenza umana all’individuazione del capro espiatorio. Mirabilmente,
il diciassettenne fratello dell’io narrante, il ribelle e ateo e ironico Adrian, ha anche il più classico dei segni vittimari: un
piede deforme. E finirà per essere esorcizzato perché
ritenuto un indemoniato. Nel cuore della modernità rampante si annidano i
vecchi demoni della persecuzione e dell’espulsione.
Questi
fenomeni di fanatismo e perdita della misura e della razionalità li ho potuti constatare anche nel più strutturato e gerarchico ambiente
cattolico, in anni passati (c’è stata anche in Italia un’ondata di carismatismo): tuttavia, mi piacerebbe che lo scrittore
(non solo Parks, lo scrittore) andasse alla
ricerca del religioso e del sacro violento là dove in apparenza il sacro e il religoso sono stati eliminati e superati. Infatti, il sacro ha una dimensione infinitamente più vasta
di quella delle religioni dichiarate. Ma qui il
terreno è difficile, e richiede vero genio.
* * * * * * *
La ricerca di una vita nuova: un tema declinato in molti modi
nella storia del romanzo. In
particolare nel sottogenere del romanzo di formazione, cui sembra
appartenere La vita nuova di Orhan Pamuk (Yeni
Hayat, 1994; trad. it. di M Bartolini e Ş. Gezgin, Einaudi
2000). Un testo abbastanza complesso, in cui la vicenda personale dell’io
narrante, un giovane assetato di assoluto, si svolge
dentro una Turchia lacerata tra la sua tradizione e la fascinazione
dell’Occidente. Il giovane Osman si
innamora perdutamente della bella Canan e di
un libro che lei stessa gli ha fatto scoprire, un libro che seduce le anime e
promette l’incontro con l’assoluto. Ma questo assoluto
è, in realtà, la morte.
E qui mi pongo ancora
una volta la domanda: perché le donne dei romanzi sono, con rare eccezioni,
sempre belle? Credo che qui sia presente un elemento antropologico
fondamentale, e che una risposta convincente a questa domanda non sia ancora
stata data. Pamuk ne pone un’altra, meno
fondamentale, in bocca al suo Osman: “perché le donne belle e sensibili si innamorano sempre di
uomini fragili e con la vita rovinata?” (p. 190)
Mi
sembrano interessanti le riflessioni che qui riporto, e rimandano al problema dell diffusione universale del genere romanzo:
Ho letto molto, non ho letto solo il libro che mi ha
cambiato la vita ma anche altri libri. Quando leggevo,
non cercavo di attribuire qualche significato profondo alla mia vita spezzata o
di trovare conforto e neanche di vedere gli aspetti belli e ammirevoli del
dolore. Cos’altro si può sentire se non amore e
ammirazione nei confronti di Čechov, di quel
russo ingegnoso, tisico e modesto? Mi dispiace per i lettori che cercano di
attribuire una dimensione estetica alle loro vite spezzate e tristi con
sentimenti che definiscono čechoviani, vantandosi della propria miseria e
cercando di renderla bella e sublime. E odio quegli
scrittori che fanno carriera sfruttando il bisogno di consolazione di questi
lettori. E’ per questo che ho smesso di leggere
racconti o romanzi contemporanei. Ah, il povero uomo triste
che parla al suo cavallo per placare la solitudine. Oh,
il nobiluomo decrepito che dà il suo amore alle piante che innaffia di continuo.
Ah, l’uomo sensibile che, seduto tra i suoi vecchi oggetti,
aspetta, che ne so, una lettera, una vecchia fiamma o la figlia poco
comprensiva. Gli scrittori che copiano grossolanamente da Čechov, rubandogli protagonisti che ci mostrano sempre le
loro ferite e i loro dolori e presentandoceli in altri paesi e in altri climi,
in realtà vogliono tutti dare questo messaggio: guardate noi, guardate i nostri dolori e le nostre ferite! Guardate quanto
siamo sensibili, quanto siamo raffinati, quanto siamo
speciali! I dolori ci hanno reso piú raffinati e sensibili
di voi. Anche voi volete essere come noi e trasformare
la vostra miseria in vittoria o addirittura in senso di superiorità, vero? Allora basta che abbiate fiducia in noi e ci crediate quando vi
raccontiamo che i dolori dànno piú
soddisfazione dei normali piaceri della vita.
Perciò, lettore, non credere a me che non sono affatto piú sensibile di te, né alla mia angoscia e alla violenza
della storia che racconto, ma credi alla spietatezza del mondo! Inoltre, il
moderno giocattolo che siamo soliti chiamare romanzo,
questa grande invenzione della civiltà occidentale, non è affare della nostra
cultura. Se in queste pagine il lettore sente la mia
voce un po’ roca, questo non dipende dal fatto che parlo da un piano
contaminato da libri e volgarizzato da pensieri grossolani, il problema è che
non so ancora come muovermi dentro questo giocattolo straniero.
(pp. 208 - 209)
11 dicembre 2007