DUE LIBRI,
UNA PAGINA (94)
Letture di
Fabio Brotto
Capita che
siano stampati dei libri mirabili, e che pochi se ne accorgano.
Devo la conoscenza e la lettura del testo di James G.
Frazer La crocifissione di Cristo,
seguito da La crocifissione di Aman di Edgar Wind (Quodlibet, Macerata 2007)
alla gentilezza del curatore Andrea Damascelli, che
mi ha donato una copia del libro. In verità, i testi di Frazer
e di Wind sono datati, ma al loro interno è possibile
scoprire cose ancora molto interessanti, e anche degli spunti ancora utili
all’avanzamento della conoscenza religiosa e antropologica.
Tuttavia, ciò che rende il libro imperdibile ai miei
occhi è il saggio splendido di Damascelli che
occupa tutta la seconda metà (su 254 pagine complessive, a partire
dalla 129). Modestamente intitolato Purim
e Passione. Note in margine ai testi di Frazer
e Wind, è un’indagine
appassionata e rigorosissima, che mostra quanto l’immaginario occidentale, e la
storia ahimé anche sanguinosa dell’Occidente, sia
debitore delle due grandi tradizioni bibliche e delle usanze rituali che nei
secoli si sono formate. La festa ebraica di Purim è legata al Libro di Ester,
e nel Libro di Ester si narra una storia di persecuzione, e di una persecuzione
in cui i ruoli si scambiano: Aman, l’arcipersecutore
della schiatta di Amalek, viene infine appeso e
“crocifisso”. Damascelli con finezza e metodo critico
esemplare segue le intersezioni tra la tradizione ebraica che si sviluppa
intorno ad Ester ed Aman e quella cristiana
corrispondente, trovando un cardine nella Lettera ai Galati
3, 13, e illuminando infine anche momenti tragici a noi vicini come la storia
dell’antisemitimo nazista. Il saggio si conclude con uno sguardo sul presente israeliano, che mi
sembra bello qui riportare.
Nel corso degli anni ottanta del Novecento, a Hebron
- che nel 1929 era stata teatro di un massacro in cui avevano trovato la morte
una settantina di ebrei -, la festa di Purim è stata occasione di provocazioni dei coloni nei
confronti degli arabi, e il giorno di Purim del 1994
(25 febbraio), un colono di origine americana, Baruch
Goldstein, aprìil fuoco sui
musulmani in preghiera alla tomba dei Patriarchi uccidendone ventinove, prima
di essere ucciso a sua volta. Qualche settimana prima, il presidente dello
Stato di Israele Ezer Weizman - che avrebbe parlato del massacro di Hebron come della «cosa più terribile nella storia del
sionismo» - aveva visitato Kyriat Arba,
la colonia ebraica presso Hebron, dove era stato
accolto con insulti da militanti di estrema destra. Fra i dimostranti c’era Baruch Goldstein il quale si era
messo sul petto una stella gialla e all’indirizzo di Weizman
urlava «Nazista! ». La sua foto era stata pubblicata sui giornali. Da un po’ di
tempo, si sarebbe appreso in seguito, Goldstein aveva
preso l’abitudine di visitare due volte al mese la
prigione di Ayalon, dove arringava i prigionieri
dicendo loro che bisognava espellere e addirittura sterminare gli arabi «perché
sono degli amaleciti». Riflettendo sul fatto che la
notte prima del massacro Goldstein aveva letto la megillà di Purim, il rotolo di Ester, Michael Walzer ha
osservato che molti ebrei credono che il Libro di Ester si concluda con
l’impiccagione di Aman: il permesso, accordato agli
ebrei persiani, di vendicarsi dei nemici non fa parte della storia di Purim come viene raccontata. «Ma io sospetto - ha scritto
Walzer - che esso costituisse la parte cruciale della
vicenda per Baruch Goldstein,
che vi trovò conferma al suo zelo religioso. Quando i suoi
sostenitori proclamano che il giudaismo è una religione di vendetta, non sono
matti o non solo matti: vi sono testi che sostengono il loro modo di vedere»`.
Così
Walzer. A giustificazione del gesto del loro beniamino, i sostenitori di Goldstein hanno addotto, oltre al capitolo 9 di Ester, il comandamento di cancellare «la memoria di Amalek sotto al cielo». Ma - ha
fatto notare il rabbino Michael Lerner,
fondatore e direttore della rivista «Tikkun» - il
passo biblico in realtà «non ordina la cancellazione di Amalek ma solo quella della memoria di Amalek.
E dove vive quella memoria? Precisamente
nella nostra tendenza a fare agli altri ciò che fu fatto a noi». (pp. 252 - 254)
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Dopo l’età
classica del grande romanzo ottocentesco sono venuti
molti ismi, e soprattutto il Modernismo, il
Postmodernismo, e ora quella situazione che…. chiamiamola
Globalismo o Postmillennialismo.
Oggi, in teoria, gli scrittori godrebbero di grande
libertà, non dovrebbero rispondere a princìpi di scuola, ma solo al pubblico e
al Mercato. In realtà al pubblico dei lettori i romanzieri hanno dovuto
rispondere sempre, anche quando il romanzo muoveva i primi passi… pena
l’insuccesso. Quando
scriveva Anthony Trollope,
il pubblico voleva storie corpose, lunghe, intrecci complessi, e vicende
d’amore sfocianti sempre nel matrimonio. Un romanzo, un matrimonio. Pure, il
genio di Trollope non è quello dell’
happy end. Nei suoi romanzi c’è sempre qualcuno o qualcuna che
infine sposa l’amato o l’amata, ma ci sono anche molti fallimenti, c’è molta
infelicità personale, cioè molta infelicità di singole
persone, destini individuali legati ai caratteri distintivi delle persone. In
fondo, il personaggio è la persona di una persona, cioè
la maschera di una maschera. Se i tipi umani sono un numero limitato, quelle
variazioni che creano la persona sono infinite, come si vede, nella realtà di
tutti i giorni, dai volti: se si escludono i gemelli
omozigoti, ogni volto umano è differente dagli altri. Il grande romanziere è un grande creatore di personaggi (in
casi estremi di un solo vero personaggio, con una sua evoluzione rigorosa). E la persona-personaggio è legata alla memorabilità.
I grandi romanzi ci lasciano la memoria dei personaggi. Se
tu non ricordi nulla dei personaggi di un romanzo, quel romanzo è inconsistente.
Prendete
un romanzo di Trollope, come Orley
Farm (trad. it
di C. Mennella, Sellerio1999) : alla fine delle sue 856 pagine i personaggi sono nella
vostra mente con autentica consistenza: stanno, insieme, lì, nella vostra
mente.
Fate questo esperimento: leggete 10 noir di
dieci romanzieri italiani contemporanei, uno dopo l’altro in rapida sequenza.
Quindi, provate a richiamare alla mente i personaggi, con le loro
caratteristiche di persona di persona: li confonderete l’uno con l’altro:
ci sarà sempre l’investigatore mezzo-sfigato, la
bella ragazza ecc.: copie di copie, non variazioni
entro un tipo umano, ma replicanti, cloni. Se fate la fatica di leggere una
decina di romanzi di Trollope, la galleria che avrete
nella mente sarà ampia, variegata, e umanamente convincente, anche se si tratta
di uomini e donne dell’età vittoriana, la loro vita
personale rimane infinitamente più intensa. Si dirà che Trollope
è un grande della letteratura, gli autori di noir praticanti di un
sotto-genere commerciale. Non importa: il funzionamento del romanzo risponde
alle stesse regole di fondo, sempre, nel variare dei
sotto-generi e degli stili: ogni epos, per quanto degradato e lontano
dall’origine rimanda ad essa: la narrazione nasce dalla memoria e richiede la memorabilità. E non c’è memorabilità se non c’è distinzione.
28 gennaio 2008