DUE LIBRI,
UNA PAGINA (97)
Letture di
Fabio Brotto
Critica
della filosofia italiana contemporanea, un titolo severo, non ammiccante come quelli dei filosofi che vanno
per la maggiore, come i Cacciari e i
Severino e compagnia, questo del saggio di Fabio Vander
(Marietti 2007). C’è qui un pensiero forte, fortissimo,
che affronta di petto alcune questioni essenziali della filosofia occidentale.
La filosofia italiana contemporanea che viene
criticata da Vander è appunto quella dei Severino e
dei Cacciari, ma anche quella di altri e meno onorati
pensatori, come Emo e Semerano. La
sostanza del pensiero di Vander è questa: l’ontologia
novecentesca, non solo italiana, non riesce a fare i conti con la questione del
non essere e del divenire, soffre di un eleatismo che
fossilizza Parmenide misconoscendone la valenza
dialettica, non comprende che in Aristotele il principio di non contraddizione
riguarda solo gli enti e i loro rapporti e non l’essere, e quindi finisce
necessariamente nell’aporia o nel misticismo. Vander
intravede una coerenza di fondo nello sviluppo del pensiero
occidentale dai presocratici a Platone ad Aristotele
ad Hegel. Questa coerenza è la dialettica come forma
sostanziale del pensiero, aderente alla realtà vera dell’essere, che è una
realtà dialettica. L’essere è infatti contraddizione.
Per Vander, se il non essere assoluto è
impensabile, è invece pensabile il non essere dell’essere
(quindi un non essere relativo). Non solo è pensabile ma
è necessario. La distanza da Severino è abissale, quella da Cacciari
siderale.
Per questo se è giusto parlare di
«inseparabilità del “principio di non contraddizione” dal “principio
d’identità”», nel senso che l’identità unilaterale dell’ente non tollera
contraddizione, poi però non si può dire che «il
principio più saldo di tutti è l’unità della negazione della contraddizione e
dell’affermazione dell’identità»; per noi infatti il «principio più saldo di
tutti» è quello di contraddizione, dove inseparabile è il Kombinat di contraddizione e negazione dell’identità in quanto
unilateralità. Solo perché falsa ontologicamente,l’«opinione»
può essere «vera» onticamente.
L’identità è possibile onticamente, in quanto vietata ontologicamente; proprio
come la contraddizione è vietata onticamente in
quanto affermata ontologicamente. Detto altrimenti: ogni
ente relativo è assolutamente relativo, la sua
relatività non è trascendibile, nessun ente è assolutamente l’ente che è; è sì
definibile secondo una qualità identica (il capello è bianco), ma solo in
quanto non esaurisce quella qualità (nessun capello bianco è assolutamente
bianco, mai esaurisce la bianchezza). È bianco e non è bianco, è identico in
quanto la sua identità è dialettica (cioè non
identica). Opinione
vera significa proprio assoluta relatività (relatività che mai
trascende, ma neanche mai esaurisce, la propria relatività), identità negata
nella sua assolutezza, identità (ontologicamente) contraddittoria. (p. 32)
Non mi
ritrovo in tutti i passaggi dell’argomentazione di Vander
(come nella sua idea di un Aristotele che liquida ogni trascendenza), ma trovo che questo libro sia davvero
stimolante. Per me, soprattutto significativi sono i
passi in cui emerge la questione del linguaggio, come ad esempio nella nota 33
a p. 81.
Quando più avanti Sasso parla dell’«insolubile difficoltà» per l’essere
assoluto di venire relativizzato dal linguaggio e
domanda: «come potrebbe quel che “è sempre” stare in un puro accadimento qual è
il linguaggio senza perdere il suo carattere essenziale e rivelarsi anch’esso
come non più che linguaggio?» (ivi, p. 139), obiettiamo: non c’è un essere
assoluto («è sempre») che proferito dal linguaggio venga relativizzato
importando aporia; per noi ciò che «è sempre» sempre anche non-è
e quindi proferito dal linguaggio diviene ciò che è sempre stato; la differenza
è semmai che il linguaggio, per il suo limite intrinseco, per l’incapacità di dire la contraddizione, effettivamente unilateralizza la verità dialettica dell’essere e chiama
poi il p.d.n.c. a garantire la sua astrazione; ma
questa a rigore non è un’aporia, dato che proprio la parzialità del dire è
conferma della contraddizione come verità. Il linguaggio non può dire la verità, ma questa impossibilità è la verità (che è la contraddizione dicibile incontraddittoriamente).
Se il linguaggio non
può dire la verità, secondo Vander, è perché esso è
governato dal principio di non contraddizione, senza il quale non
funzionerebbe. Ma se il linguaggio non può dire la
verità perché essa è l’impossibilità di essere detta, ciò pone il problema
del rapporto tra linguaggio stesso e ragione. E anche quello della
attribuzione di “vera” all’affermazione di Vander.
A mio avviso la soluzione sta non nella linea vanderiana,
ma nello spostare il discorso dalla contraddizione al paradosso. Ovvero
nell’assunzione dell’umano come ab
origine paradossale, secondo l’ ipotesi
generativa. Ma questo ci colloca totalmente fuori dalla
prospettiva filosofico dialettica di Vander.
* * * * * * *
Tre strade per la scuola (Sp. R. - Drei Schulwege, 1991, trad. it. di
A. Iadicicco, Guanda 2007)
è un breve romanzo autobiografico di Ernst Jünger, scritto in tarda età, che ha nel titolo
l’abbreviazione Sp. R. di Späte Rache, Vendetta
tardiva. In questo momento di romanzi scritti per vendetta in
modo espilicito mi viene in mente soltanto il
manoscritto di Zeno all’interno della Coscienza di Svevo,
il nostro supremo maestro di risentimento di cui mi sono
occupato nel mio piccolo Anti-pathos. Tuttavia, la scrittura è sempre
collegata al risentimento, con la differenza che nella grande
letteratura esso è trasceso, mentre nella letteratura bassa è
alimentato. In ogni caso, la letteratura ha sempre a che fare con la
circolazione del risentimento, perché esso è costitutivo dell’umano in quanto
tale.
A dire il
vero, nel testo di Jünger non si respira né risentimento,
né vendetta, né tantomeno denuncia della scuola in
quanto istituzione incapace di alimentare lo spirito. Certo, quest’ultimo aspetto in qualche modo c’è, ma soprattutto è
legato alla contingenza che vuole il piccolo sensibile Wolfram
(alter ego dell’autore) sottoposto all’insegnamento di figure umanamente
degradate e, esse sì, risentite. Uno dei drammi della civiltà occidentale,
messo in luce da tempo vanamente, sta nella sua pedagogia ridotta a semplice
mestiere (mal retribuito), che ha determinato il susseguirsi di generazioni di
docenti insoddisfatti, risentiti e frustrati, cui è stata affidata l’educazione
dei giovani. Questa condizione dis-pedagogica forse
inevitabilmente legata alla civiltà industriale (ma prima semplicemente la
scuola di tutti e per tutti non c’era, e la gente era quasi tutta analfabeta,
sì che ogni paragone non licet) sta ora giungendo al suo compimento. Ma già nei primi anni del Novecento si poteva cogliere la
sua essenza. Certo, allora l’io giovanile era ancora, soprattutto in Germania,
un io romantico. La circolazione del risentimento non era ancora incanalata nel
flusso desiderio-oggetto industriale tipico della società del consumo. Essa
tendeva a produrre soggetti che si autocomprendevano
come malati, o anomali, nell’isolamento del loro io eccezionale. Senza
accorgersi, ovviamente, che questa loro singolarità non era che la mediazione
imitativa di altre precedenti singolarità-modello, a
loro volta mediate socialmente. Questo è il dramma del pensiero romantico e
post-romantico anche nella versione anarchica di Jünger.
Detto
questo, occorre rilevare che anche in questo breve testo si coglie la mano del
maestro. In settantaquattro brevi pagine si dispiega una serie di personaggi
scolpiti con mano ferma. La scrittura di Jünger è una
grande scrittura sempre. E uno pensa a quanta robaccia
viene stampata, letta, discussa…
17 marzo
2008