DUE LIBRI,
UNA PAGINA (99)
Letture di
Fabio Brotto
È un
simpatico libretto, questo Attila di Giuseppe
Zecchini (Sellerio 2007). Una breve biografia del grande sovrano unno, nata come conversazione radiofonica, ma
molto rigorosa nella sua semplicità. La grande
politica di quegli anni remoti è sempre molto interessante, e molto istruttiva.
Anche perché è una politica che ha a che fare con grandi migrazioni di popoli,
scontri di armate ma anche di culture.
Questo libretto, letto alcuni giorni fa, mi è tornato alla
mente considerando l’evento della festa rave
e del ragazzo morto per eccesso di sballo, per due motivi. Anzitutto,
i rave che si tengono in Italia
mostrano qualcosa che mi è sembrato analogo, in un certo modo, allo spostamento
di gruppi umani, di tribù barbare, che si muovevano liberamente entro i confini
dell’impero romano in crisi, senza che alcuno potesse fermarli. I partecipanti
ad una festa rave occupano un pezzo di
territorio italiano per alcuni giorni, e in quei giorni
ne sono padroni assoluti. Lo Stato nostro è debole, il suo controllo del
territorio è limitato, alcune regioni sono in mano a forze con le quali esso
deve in qualche modo patteggiare, in altre deve consentire scorrerie di gruppi
umani eslegi.
Il secondo
motivo riguarda lo sballo in sé. Come ogni fenomeno umano, esso ha
cause mimetiche, che non è difficile individuare, e da
cui a cascata discendono una serie di fenomeni secondari (ad es., l’ubriachezza
solitaria - il vino è il padre di ogni ebbrezza, in Occidente - è un derivato
secondario dell’ubriachezza collettiva, dell’orgia di gruppo che evoca il caos,
e il momento fondativo, violento dell’umano). Spesso si vede come nei luoghi
del potere antico e barbarico, nella reggia di sovrani come Attila, il vino scorra a fiumi. E’ anche una prova che si deve superare:
quanto resisti, quante coppe riesci a tracannare. Chi
più beve, più è forte, se resta in piedi. Allora ecco che Prisco, testimone di
una grande ambasciata dei due imperi di Oriente e
Occidente presso Attila, narra la grande cena. Il cibo è semplice, pane e
carne. Ma prima di mangiare tutti debbono bere una
serie infinita di coppe di vino. Così usano gli Unni (p. 91).
Lo sballo
è ciò che ripristina l’unità dell’umano con l’animale, è lo sprofondare
nell’assenza del segno (i ragazzi che nel rave
ballano isolati e ridotti a larve). E il mito greco lo
dice a suo modo, attribuendo la più forte tendenza all’ebbrezza proprio ai
bestiali centauri, che sono non-umani, gente che non ha ancora realizzato la
separazione originaria e originante.
* * * * * * *
La storia narrata da Tim Parks
in questo romanzo, Bontà (Goodness,
1991, trad. it. di G. Granato, il Saggiatore 2007) è una storia dura. Per me
in particolare, che sono padre di un ragazzino
gravemente disabile. E’ la storia di un giovane che patisce, per così dire,
l’estrema bontà dei genitori. Il padre, un missionario anglicano, muore martire in Africa, la madre si dona sempre e in ogni
circostanza agli altri, senza mai nulla chiedere per sé, una cristiana
perfetta.
E lui,George,
vuole invece essere una persona normale, che si vive la sua vita come tutti gli
altri, che si fa la sua carriera, che ha successo, una bella moglie, la bella
casa, la bella auto, e insomma la realizzazione del sé borghese contemporaneo. Ma quando tutto sembra andare per il meglio, e lui cede alla
voglia di maternità della moglie (non desiderava figli), ecco il novum, l’evento fatale, che è tremendo: una figlia
che nasce con una sindrome che la rende incapace di muoversi, di comunicare, di
soddisfare le minime necessità della vita. Un essere che non manifesta alcun
segno di umanità, con cui la relazione può essere solo
a senso unico. Ed è questo che rende insostenibile la
vita in una famiglia con un membro disabile dalla nascita: l’assenza di una
comunicazione umana.
George si comporta bene, quasi eroicamente,
prende su di sé questa congiuntura disperata cercando una soluzione, fa di
tutto, fino a che, dopo anni di vita infernale, giunge alla risoluzione di
simulare un incendio della sua villa, in cui la bimba perisca. Solo la morte
della creatura inerte e incapace di tutto e sempre sofferente potrebbe liberare
i due coniugi dal peso che li schiaccia. Il tentativo fallisce. Sarà infine la
moglie ad abbondare nella somministrazione della solita medicina, a porre fine
ad ogni cosa.
La scrittura di Parks, che vede i fatti attraverso lo
sguardo di George, è brillante, sarcastica, dura
nell’assumere l’ottica della brama di normalità del
soggetto, che si scontra con una fattualità
inesorabile. La problematica è spietata, le soluzioni non ci sono, non tutte le
spalle possono portare pesi sottratti alla misura umana. Non tutti riescono a
fare, come la madre di George, del proprio
annientamento la scala ad una felicità superiore. Se
qualcuno ama i libri che colpiscono duro, qui il pugno c’è, ed è forte davvero.
La seconda parte inizia così:
Sui bambini handicappati grava un tabù, questo è
certo. Ho avuto tempo e modo di rifletterci. O sono
commiserati dai mercificatori della coscienza sociale
desiderosi di dimostrare che il governo non sborsa abbastanza, o sono
bellamente ignorati. Tranne, forse, che nelle
barzellette di pessimo gusto. Di norma i genitori sono visti come angeli che li
amano a dispetto di tutto o come diavoli che li maltrattano e li abbandonano.
Il martirio e la brutalità fanno notizia. Di quando in quando
l’interesse si concentra su quelli che fra atroci difficoltà dipingono
biglietti natalizi con il pennello stretto tra il secondo e il terzo dito del
piede. E allora la tv ne mostra per una
trentina di secondi i poveri corpi contorti (con questo non dico che andrebbero
mostrati più a lungo). Certa stampa scandalistica, poi, racconta favole sulle
meraviglie che compirà l’ingegneria genetica in futuro, e il vecchio tormentone
- è giusto sterilizzare una ragazza con gravi handicap mentali anche senza il
suo consenso? - tocca corde emotive tenendo desto
l’interesse. Ma che cosa significhi accudire e pulire un
handicappato quotidianamente, facendo al tempo stesso i conti con una
sensazione di perdita, di non avere speranze né vie d’uscita… meglio lasciar
perdere. Magari potessi lasciar perdere io. (p. 105)
17 aprile 2008