ELETTRA BEDON
http://www.aicw.ca/membership.htm#ElettraBedon nessuno@videotron.ca
Il
presente saggio è il testo della relazione di Elettra Bedon al Convegno Internazionale “Oltre la storia:
l’identità italo-canadese contemporanea” organizzato a Udine il 20-22 maggio 2004 dal Centro di Cultura Canadese
dell’Università degli Studi di Udine e dall’Associazione di Scrittori /
Scrittrici italo-canadesi.
P |
er
andare “Oltre la storia” è sembrato opportuno partire dalla “storia”, cioè
dalla presenza, sulla scena letteraria, di autori italocanadesi
sin dagli anni tra le due guerre mondiali. Questa relazione si propone di
farlo, non con un elenco esaustivo di nomi ma soffermandosi piuttosto sulle
motivazioni che hanno spinto gli autori a scrivere.
I primi
italocanadesi a farsi conoscere come scrittori sono
uomini arrivati in Canada da adulti, con un livello di istruzione
relativamente alto: sono giornalisti, insegnanti. Parlano della loro esperienza
di emigrazione; in genere scrivono in italiano.
Soltanto qualche nome: Liborio Lattoni, tra le due
guerre mondiali; Napolitano, che descrive Montreal
negli anni Trenta; Mario Duliani che – con La
città senza donne, pubblicato nel 1945, testimonia dell’esperienza di internamento subita da molti italocanadesi
ritenuti “nemici” per il solo fatto di essere originari di un Paese considerato
tale.
Dopo la
seconda guerra mondiale aumenta il numero di scrittori di origine
italiana. Anche questi scrivono, in italiano, sulle difficoltà di adattamento nel Nuovo Mondo, sul senso di alienazione
vissuto dall’emigrante. Citiamo alcuni nomi: Giose Rimanelli (che si stabilirà in seguito negli Stati Uniti),
Pietro Corsi, Dino Fruchi,
Tonino Caticchio, Ermanno La Riccia, Maria Ardizzi, Matilde Torres,
Corrado Mastropasqua, Romano Perticarini.
A
partire dagli anni Settanta emerge un nuovo tipo di scrittore italocanadese; si tratta in genere di figli della prima
generazione di immigrati, nati in Canada, o in Italia
ma giunti bambini in Canada, dove hanno compiuto gli studi. Qualcuno scrive
ancora in italiano, ma la maggioranza lo fa in inglese, in francese, qualche
volta nelle due lingue, qualcuno nelle tre lingue. Partono dall’esperienza di emigrazione ma passano poi al contrasto tra una eredità
contadina e una realtà di vita in una città del Nordamerica;
parecchi di loro si soffermano a esplorare la ricerca delle radici.
A
differenza dei primi scrittori italocanadesi che si
rivolgevano alla comunità italiana, questi vogliono raggiungere un pubblico più
vasto. Tra loro citiamo, soltanto a titolo esplicativo, Frank
Paci, Dino Minni, Pier Giorgio di Cicco,
Alexandre Amprimoz, Joseph Pivato, Marco Micone, Antonio d’Alfonso, Mary di Michele, Antonino Mazza,
Mary Melfi... ma l’elenco dovrebbe essere molto più lungo.
Nel
1986, a Vancouver, per iniziativa di un piccolo gruppo, nasce l’Associazione
scrittori italocanadesi. In un incontro protrattosi
per tre giorni, attraverso una messa a confronto di diverse esperienze di
scrittura, i partecipanti si sono trovati d’accordo nel riconoscere che un
comune punto di partenza – l’esperienza di emigrazione
– ha dato origine a due tipi di diversi di
“opere”. Chi ha scritto spinto dal bisogno di “fare i conti”
con ciò che ha vissuto, in genere poi non scrive più; l’ispirazione si esaurisce
con l’esaurirsi del materiale vissuto. Altri, pur ricorrendo alla
scrittura come “catarsi”, passano in seguito, se non ad altri temi, a un modo diverso di svolgerli. Allora, che i personaggi dei
loro libri siano italocanadesi
non è più importante, perché i sentimenti che questi provano, le situazioni che
vivono, sono universali. Parole come emigrazione, spaesamento, senso di identità, radici, vengono quindi ad assumere valore di
metafora.
Oggi,
gli italocanadesi che scrivono sono di seconda, di terza
generazione. Se sono cresciuti accanto ai nonni hanno
imparato a parlare nella loro lingua regionale – erroneamente chiamata dialetto
– ma con i genitori, con i compagni di gioco, a scuola, hanno sempre parlato in
inglese, in francese. Alcuni di loro hanno frequentato la “scuola del sabato”,
la scuola sovvenzionata dal Governo italiano in cui un mattino alla settimana, da settembre ad aprile, hanno imparato i
primi rudimenti dell’italiano. Per alcuni lo studio di questa lingua è
diventato un interesse personale, qualcosa da coltivare. La lingua di
scrittura, però, è sempre stata l’inglese, il francese. Chi scrive vuole essere
riconosciuto come “scrittore”, senza altra qualificazione; l’esperienza di emigrazione vissuta dai nonni, dai bisnonni, quando raccontata,
non è altro che la traduzione del sentimento di essere in qualche modo diversi,
di non appartenere pienamente a una gente determinata, di non riuscire a
integrarsi in modo completo, di parlare una lingua che altri non capiscono,
caratteristiche tutte – queste – di chi scrive per una pulsione interna, perché
ne sente il bisogno, e non per un qualche tipo di calcolo.
Per
illustrare il passaggio dalla “realtà” alla “metafora”, presento ora brevemente
tre autori italocanadesi che hanno scritto in italiano.
Il primo si chiama Aldo Gioseffini, è nato a Carvacco, frazione di Treppo
Grande, provincia di Udine. Il suo libro, intitolato L’amarezza
della sconfitta, appartiene al gruppo di opere
scritte per “fare i conti” con la propria esperienza di emigrazione e, in
fondo, anche con la propria vita. Figlio di emigranti,
a quattro anni – con la madre – raggiunge il padre a Parigi. Passa l’infanzia e
l’adolescenza tra Francia e Italia, dove si ferma per alcuni anni a causa della
guerra. Ritorna poi in Francia; in seguito lavorerà in Svizzera. Nel 1963 si
trasferisce in Canada. Finché rimane in Europa, continua a
recarsi spesso in Italia, dove incontra la ragazza che diventerà sua moglie,
dove nascerà la prima figlia. Anche la moglie
lavora con lui in Svizzera, dove gli nasceranno due gemelli. I figli crescono,
si allontanano da lui; la moglie prende la loro parte. Poiché la casa che si
sono fatti costruire è intestata a tutti e due, e la
moglie rifiuta di venderla, dividono i locali e vivono sotto lo stesso tetto anche
dopo la separazione ufficiale.
Tutte
queste vicende sono raccontate dettagliatamente in prima persona, inframmezzate
da commenti sulla situazione degli emigranti, sulla politica, sulla guerra,
soprattutto, a proposito della quale dice: “Non ho mai potuto rassegnarmi alla
sconfitta subita dal mio paese; ho dovuto accettarla con amarezza”. Da qui il
titolo del suo libro, ma altre parti rivelano che “l’amarezza della sconfitta”
non gli è stata causata soltanto dagli eventi bellici. Il libro si chiude con
queste parole: “Aspetto il tramonto della mia vita... Forse
è giusto che spiri in terra straniera, visto che son
sempre stati quei paesi che mi hanno fatto guadagnare il pane. Ma il mio pensiero è dove sono nato...”.
Il secondo
autore, Dino Fruchi, in Canada dall’inizio degli anni
Cinquanta, nel suo Il prezzo del benessere – pur raccontando una
personale esperienza di emigrazione – disegna un
quadro più vasto.Scrive un romanzo, il cui
protagonista (Pompeo del Colle) lascia l’Italia per il Canada nell’immediato
dopoguerra. I personaggi sono inventati; la loro esperienza si
intreccia alla Storia (con la esse maiuscola) e alla storia locale, sia
del paese di provenienza che di Montreal, città dove loro vivono nel momento in
cui il libro inizia. Non è nascosto un intento didattico, che si manifesta
anche nella descrizione dei luoghi, nell’analisi psicosociologica
delle difficoltà di adattamento dell’emigrante. Pompeo
– il protagonista – si rende conto a questo proposito che esiste una vera e
propria malattia, lo “stress dell’emigrante”, che si rivela con sintomi diversi
e non facilmente accertabili ma le cui cause sono per tutti le stesse, e si
possono ridurre alla presa di coscienza che “il paese
dove si guadagna subito non esiste”. Pompeo ne sarà immune, perché ciò cui
rimane attaccato, del passato, sono i valori, più che i singoli fatti. Lui vive
– vuole vivere – nel presente; impara il francese e l’inglese, abbastanza da sbrigarsela
in ogni occasione. Non rimane chiuso nella comunità di appartenenza,
fa amicizia con immigrati provenienti da altri paesi, con vicini di casa e
compagni di lavoro canadesi.
Nel
libro non sono passati sotto silenzio i fatti – a volte drammatici – in cui
degli emigranti hanno dovuto subire incomprensione e abusi, ma – come si è
detto – la visione di Fruchi è più ampia: il suo
protagonista è capace di cogliere altri stimoli, e il suo comportamento fa
capire al lettore che la nostalgia, il ”mal di casa”, sono in fondo un’esigenza
spirituale che il solo pane – il benessere – non può soddisfare.
Pompeo,
arrivato all’età della pensione, potrebbe rientrare in Italia. Ci pensa a
lungo, e decide di voler continuare a vivere nella sua patria d’adozione. Il libro
si conclude con queste parole, che Fruchi
fa dire al protagonista: “... questa terra, dove tutti siamo venuti, ci
appartiene di uguale diritto. Con lotte, con sacrifici, con ingiustizie e atti di eroismo abbiamo imparato a coabitare, a saperci comprendere.
Quando si ama, ogni terra è una patria”.
Un’autobiografia,
un romanzo, e ora due libri di poesia. L’autore è Corrado Mastropasqua.
La sua esperienza è diversa da quella dei due autori precedenti perché lui non
ha lasciato l’Italia per necessità ma per scelta, e avrebbe
potuto tornarci in ogni momento. Ma – come tutti coloro
che cambiano Paese – ha risentito lo strappo delle radici; non è stato messo
alla prova sul piano concreto della ricerca del lavoro, spesso precario, ma ha
vissuto in pieno lo spaesamento, il senso di alienazione, la necessità di
ancorarsi. In Canada dal 1961, ha pubblicato Ibrido,
in cui sono raccolte poesie in napoletano e in italiano, e Prova d’armonia,
interamente in italiano.
Leggo alcuni brani. Il primo è tratto da una poesia in napoletano (la traduzione è mia):
troppo, troppo mi pesa star lontano
a volte penso sia meglio morire
in una volta più che piano piano. (...)
Napoli era una festa di colori
dolce era l’aria, dolce e
imbalsamata
in ‘sto paese il tempo è freddo e
scuro
son tristi i giorni e lunga è ogni nottata.
Il secondo fa parte di una
poesia dedicata all’isola d’Ischia:
(...) Non so più se sei vera
o se per sopravvivere
t’ho inventata
io naufrago dell’aridità.
La poesia che leggo per intero riflette la sensazione, sempre così presente nell’emigrante, di non avere una chiara identità, di non appartenere a un luogo ben definito. Qui è evidente il passaggio dalla “realtà” alla “metafora”, perché un poeta ha sempre l’impressione di “venire da un altro paese”:
Quando
mi dissero:
ragazzo non c’è posto qui
per le tue smancerie,
posai la chitarra
mi tolsi il garofano
rosso dall’orecchio
e mi misi a faticare
fra uomini di gelo.
Quando tornai al paese
con tanta voglia di cantare
mi dissero: buon uomo
non ci sono chitarre qui
né più fioriscono
garofani da noi.
Concludo con
una citazione tratta dal contributo di Joseph Pivato a Writers in Transition, pubblicato da Guernica
nel 1990:
del viaggio. Il viaggio
dell’emigrante è metafora del viaggio della
vita. Da questo punto di vista essa appartiene alla più antica
tradizione letteraria del mondo:
la Bibbia, l’Odissea, l’Eneide,
la Divina Commedia. Questa
metafora dell’emigrazione assume
molte forme, con infinite
variazioni. Le possibilità non sono
ancora esaurite...”.
1 gennaio 2007
LETTERATURA CANADESE E ALTRE CULTURE