Anna Foschi Ciampolini è nata a Firenze e vive a
Vancouver dal 1983. Scrittrice, giornalista, traduttrice, ha anche prodotto e
condotto programmi radio e televisivi ed ha organizzato numerosissimi
avvenimenti culturali e conferenze internazionali. Ha pubblicato due
antologie: Emigrante (1985) e Writers In Transition: Yesterday, Today
and Tomorrow (1990) ed i suoi racconti e lavori di critica letteraria sono
stati pubblicati in sei antologie in Italia e in Canada. I suoi articoli sono
usciti su giornali e riviste letterarie in Italia, Stati Uniti, Australia,
Costarica e Canada. Ha vinto il
terzo premio della "Settimana Italiana - Ottawa", il
premio speciale giuria di "Voci di Donne - Città di Savona" ed è
stata finalista del Premio Pietro Conti-Filef: il suo racconto “Una giornata
come un’altra” è stato letto alla RAI sul programma nazionale rete culturale;
inoltre, nel marzo 2006, la radio Emiliano-Romagnoli nel Mondo ha mandato in
onda un altro suo racconto, “Struggente Rimini”. Anna è la co-fondatrice del Premio
Letterario Francesco Giuseppe Bressani del Centro Culturale Italiano di
Vancouver, è stata per due mandati la Presidente della Associazione
Scrittori/Scrittrici Italo-Canadesi di cui è co-fondatrice e tuttora fa parte
del direttivo della associazione. RAI International le ha dedicato una
intervista nel 2005 e nello stesso anno è stata inserita nella Hall of Fame del
Centro Culturale Italiano di Vancouver, BC.
Anna lavora da molti anni a Vancouver nel campo dell’assistenza a
famiglie di immigrati vittime di violenza domestica, e tiene corsi e seminari
per immigrati e professionisti che lavorano a contatto. Inoltre, partecipa come
esperta di letteratura italo canadese e di aspetti e problemi
dell’emigrazione a conferenze ed avvenimenti letterari in Italia.
Da Anna Foschi Ciampolini riceviamo: “Il racconto ‘Calgary Story’ è apparso in ‘Writing Beyond
History’ [Cusmano 2006] solo con uno stralcio, cioè quella
descrizione degli italiani che lavorano per la ditta di prefabbricati, per
ragioni di spazio e di costo. In realtà ‘Calgary Story’ è
un racconto lungo, e come lo ha definito uno scrittore italiano, è
una amara analisi delle speranze deluse e dello sfaldarsi di un matrimonio
sotto le pressioni e le barriere poste dall’esperienza migratoria, tanto
più difficile e complessa per chi nel nuovo paese cerca una collocazione a
livello professionale. Se fosse possibile, mi piacerebbe di veder pubblicato l’intero
racconto; lascio a lei giudicare; se invece si può mettere solo l’episodio
degli emigrati pubblicato nell’antologia va bene lo stesso. Sono affezionata a ‘Calgary Story’ …..” Pubblichiamo qui di seguito l’intero
racconto. (e.m.).
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C |
i sono città in Nordamerica che
sono divise in zone secondo i punti cardinali, a sud est i quartieri degli
operai, a sud ovest i quartieri dei professionisti e dei ricchi, lo stesso per
nord ovest e nord est, e secondo dove vivi ti fai classificare subito. Ti
conviene perciò dare un buon indirizzo, trovarti un posticino in una zona
buona, così fai sempre bella figura, specie quando ti presenti a cercare
lavoro. Queste erano le istruzioni e le raccomandazioni degli “esperti”, cioè il piccolo gruppo di geologi e ingegneri italiani che
dagli inizi degli anni ’60 si erano stabiliti a Calgary per lavorare presso le
multinazionali del petrolio. Gli esperti
formavano un circolo molto esclusivo, che non si mescolava mai con gli altri
emigrati italiani che facevano i fornai, i carpentieri o i mestieri,
socializzava solo con l’altro circolo esclusivo composto dai docenti
universitari, ma poichè questi ultimi erano pochi ed insegnavano soprattutto
nelle facoltà umanistiche, i rapporti rimanevano abbastanza distanti per
mancanza di interessi e obiettivi comuni. L’arrivo di
Fabrizio e Sandra Gardini, una nuova e promettente giovane coppia di
“scientifici” sbarcati un giorno del gennaio 1971 freschi freschi dal volo
Alitalia, aveva creato un piacevole diversivo,
un’occasione di mostrare il successo che si erano conquistati, di dare buoni
consigli che però suonavano quasi incomprensibili ai due nuovi arrivati che
ignoravano tutto della vita e società canadese. In realtà il motivo principale
per schiudere le porte del circolo era stato il fatto che
Fabrizio conosceva Beppe Petrini dai tempi dell’università, e Beppe, che si era
laureato con 110 e lode con relatori assassini che avevano stroncato legioni di
studenti e perciò veniva ricordato con rispetto anche dagli studenti più
giovani come Fabrizio, era un personaggio influente in quella piccola comunità.
Qualche
giorno dopo il loro arrivo a Calgary, mentre ancora vivevano nella camera di un
motel con quattro valige ed un baule, Fabrizio e Sandra erano stati invitati a
cena da un paio di geologi che lavoravano presso una
importante ditta petrolifera. I due, Federico Bossi, un torinese sempre
impeccabilmente vestito, e Giulio Pini-Ragghianti, un milanese che aveva
sposato la sorella del sottosegretario del Ministero dell’Industria e Commercio
e perciò sapeva che prima o poi sarebbe ritornato a
Milano per occupare un posto di rilievo nel Servizio Geologico Nazionale o
all’AGIP, avevano preso l’abitudine di organizzare una cena mensile per
rianimare un pò la vita sociale della piccola comunità; in quel momento era
capitato il turno del milanese di aprire casa per la cena sociale ed aveva
subito invitato i nuovi venuti anche per valutare con gli altri se meritavano
l’ammissione permanente nel loro gruppo. Pini-Ragghianti aveva due bambine di
cinque e otto anni e faceva ogni sforzo per evitare che imparassero l’inglese;
per questa ragione lui e la moglie non volevano la televisione in casa,
facevano arrivare dall’Italia i libri di lettura e avevano proibito alla figlia
maggiore che andava a scuola e quindi l’inglese lo aveva dovuto imparare per
forza, di parlarlo a casa e soprattutto con la sorellina. Le bambine giocavano
solo con i figli degli altri colleghi italiani, quasi mai con gli altri bambini:
Palliser, dove loro abitavano, era popolato da famiglie canadesi-inglesi ma era almeno un quartiere decente, le
zone dove vivevano gli altri emigrati italiani erano infrequentabili, e poi
quelli parlavano dei dialettacci meridionali e non era certo il caso che le
bambine facessero amicizie in quell’ambiente, quindi,
in attesa di tornare in Italia, quella era l’unica soluzione per non venire
contaminati né da canadesi né da meridionali
perché, come ribadirono fra l’approvazione generale, stare fra gente
civile è importante.
Camilla Pini, la padrona di casa, li accolse e li guidò garbatamente verso il salotto dove c’erano una quindicina di persone, qualche scapolo e molte coppie ancora giovani, tutti vestiti con casuale eleganza. Sandra, che aveva ventitré anni, era la più giovane e si guardava intorno eccitata e un pò intimidita, ma si rassicurò e osò intrecciare qualche conversazione quando una signora la complimentò per il vestitino di lana blu che indossava. Pini-Ragghianti si avvicinò a Fabrizio dicendo:
– Vieni, voglio farti conoscere i Fedrigotti.
Gianluca Fedrigotti veniva da una famiglia di lanieri di Biella e si favoleggiava che nemmeno cinque giorni dopo il suo arrivo a Calgary avesse comprato una bellissima villa a Mount Royal pagando in contanti. Fedrigotti e la moglie Marie-Luce erano appassionati sportivi e accaniti giocatori di tennis e infatti chiesero subito a Fabrizio:
– Ti
andrebbe di fare una partita con noi, domenica? Ci manca appunto un quarto
giocatore per il doppio misto, ora che i Gallarati si
son trasferiti negli Stati Uniti!
– Lo farei volentieri, ma io non gioco a tennis - rispose Fabrizio.
– Ah,
davvero? Giochi a golf? Possiamo andare al Golf Club, sono
socio.
–
Stessa storia, non so giocare a golf.
Fedrigotti alzò un sopracciglio, perplesso:
– Che
sport fai, allora?
– Mah, nuoto, bicicletta, qualche lancio col paracadute, anche un pò di
speleologia, cose del genere.
I Fedrigotti persero ogni interesse per un individuo che praticava attività così plebee e si spostarono verso l'altro lato del salotto.
- Hai
visto quante arie si danno? - sussurrò Pollini accostandosi a Fabrizio - Sai
che quando sono arrivati qui, per un anno hanno fatto
i turisti, Hawaii ed il resto, prima che lui si decidesse a cominciare a
lavorare? Son venuti via dall’Italia perchè avevano paura dei comunisti, che
dici, con tutti quei miliardi che si ritrovano! –
Tonino e Loredana Pollini erano emigrati da Raiano con i loro due bambini per cercare di costruirsi un avvenire migliore e per anni avevano lavorato duro per potersi finalmente comprare la casa.
Lasciarono
la festa verso mezzanotte, quando tutti stavano ormai uscendo. Guidando
l’automobile affittata, Fabrizio le chiese:
– Come è andata?
– Oh,
le signore mi hanno invitata ad andare a far compere con loro, a prendere il tè
e giocare a canasta e bridge. Sono state carine, comunque
ho detto che io non so giocare a carte proprio per niente. Molte di loro hanno
già dei bambini, altre lavorano, ma certo sarebbe bello continuare a vederle e
fare un pò di amicizia. Forse, quando troveremo casa,
potremmo invitare qualcuno, che ne dici?
– Certo! Vedrai che ci divertiremo. Sai, ti guardavo stasera: eri la più bella!
– Non è vero, non fare lo stupido!
– Sì
che è vero! Quel vestito ti sta a meraviglia, e dovunque
andiamo tu sei sempre la più bella!
– Tieni le mani sul volante o ci fai ammazzare tutti e due!
Fabrizio
e Sandra seguirono il consiglio e affittarono un
piccolo appartamento alle pendici di Mount Royal, un quartiere di ville
circondate da grandi giardini inerpicati su una serie di basse collinette che
interrompevano la piatta distesa della città. L’indirizzo recava le magiche
iniziali S.W., South
West, ma Chadwick Manor era solo un vecchio e modesto edificio condominiale
e gli inquilini erano quasi tutti gente anziana, pensionati che passavano la
domenica a guardare la televisione e le giornate di sole a prendere aria seduti
sulla scaletta d’ingresso davanti al giardinetto comune, con la bottiglia di
birra nascosta in un sacchetto di carta. Ms. O’Connell, la portiera, era una irlandese che girava sempre con i bigodini in testa e un
cagnolino chihauha in braccio; aveva seppellito tre mariti e se la pigliava con
l’esistenza perché all’età sua doveva ancora lavorare chè la pensione non
bastava. L’appartamento era stato sfitto un mese e aveva fretta di darlo via,
altrimenti avrebbe preferito una coppia anziana, quelli non danno fastidio e
non fanno rumore, mentre invece le erano capitati solo dei giovani che speriamo
che paghino puntuali e si sappiano comportare dato che
in questo casamento siamo tutta gente rispettabile che ama la quiete, così
aveva detto consegnando le chiavi dell’appartamento con una occhiata
significativa. Due o tre giorni dopo questo discorso, la sera verso le undici
mentre Fabrizio e Sandra guardavano la televisione sul vecchio divano a fiorami
regalato da Beppe, dal piano di sotto si levò un fracasso infernale, un uomo e
una donna lottavano fra tonfi di sedie e oggetti rovesciati, poi una corsa
precipitosa e poi uno strillo di donna acutissimo e
angosciato:
– No!
No! No!!!. –
Sandra sussultò e si voltò verso Fabrizio che già scattava verso la porta per andare sicuramente a cacciarsi nei guai:
– Che fai? Che vuoi fare?
– Lasciami, vado a vedere che succede, quello la sta ammazzando!
– Ma sei impazzito? Chiama la polizia piuttosto!
– Sì,
la polizia! Quando arrivano, quella è già morta! – e mentre lottava per svincolarsi dalla moglie che voleva
trattenerlo, il trapestìo di colpo si calmò, poi arrivarono dei colpi ritmici
contro la parete, gemiti, ansimi e invocazioni querule. Fabrizio e Sandra scoppiarono in una risata irrefrenabile. La sceneggiata,
come la chiamavano, si ripeteva ogni giorno a ore
disparate, loro spiavano per le scale per vedere che faccia avessero i feroci
amanti del piano di sotto, due ragazzi, lei una biondina slavata, lui un tipo
qualsiasi in jeans. Le urla e gli inseguimenti cessarono di colpo dopo qualche
settimana e la O’ Connell annunciò con soddisfazione
di aver cacciato fuori quei due sciagurati che disturbavano tutti e non
pagavano l’affitto.
Nelly
Gilar, discendente da un nonno abruzzese, era un personaggio conosciuto e
rispettato da tutta la comunità italiana.
Nelly parlava italiano e spagnolo e possedeva una agenzia
di viaggi e una piccola scuola di musica, la “Glenmore Accordion School”; se si
aveva bisogno di qualcosa si andava da lei, a mettersi sotto l’ala protettrice
e benevola della “padrina”. Aveva grossi occhi sporgenti, rideva
fragorosamente, si pitturava le labbra con un rossetto carminio e camminava
dondolando l’enorme corpo obeso; comunque tutti le
riconoscevano un cuore d’oro perché era brava e non era esosa, anzi la sua
generosità l’aveva resa popolare in molte comunità di immigrati che si
servivano volentieri da lei. Viveva sola, del marito s’era persa traccia da un
pezzo, ma non si faceva mancare nulla in fatto di distrazioni, anzi gorgogliava
ridendo che non aveva mai avuto tanti corteggiatori come ora che era arrivata
sui cinquant’anni; infatti aveva appena trovato un
nuovo boyfriend, un toscano sboccato
di nome Evandro, falegname in una ditta di prefabbricati. Nelly aveva accolto
Sandra e Fabrizio con calore, anzi aveva insistito perché Sandra andasse a
trovarla spesso, all’inizio, le diceva, per tutti è
dura ambientarsi ed è allora che servono gli amici. Fu Nelly a procurare
un’auto usata a Fabrizio, lo chiamò un giorno per dire che un suo cliente
vendeva una Plymouth in buono stato e non
spesosa. Evandro sedeva con un risolino contento nel salotto di Nelly
mentre lei spiegava a Fabrizio i dettagli dell’affare e a modo di incoraggiamento dichiarò solennemente:
– Oh, da’ retta, in questo paese un tu’ po’
mia gira’ sempr’a ppiedi! E ti si ghiaccian le palle,
ti doventan du’ diaccioli!
L’acquisto
della Plymouth , dopotutto Evandro aveva ragione,
riportò un consolante senso di normalità nella loro nuova vita dopo il tumulto
dell’arrivo. Piano piano la vita riprese a scorrere secondo ritmi consueti, le
rassicuranti piccole abitudini quotidiane cominciarono a ristabilirsi ed anche
il piccolo appartamento divenne meno estraneo, ma a Sandra restava la
sensazione inquietante di essere sospesa in un limbo, in un interrogativo
aperto. Della vita e delle cronache
italiane arrivavano solo l’ eco: i negozi di
alimentari nella Little Italy
vendevano qualche quotidiano e qualche rivista italiana, ma in genere
arrivavano con tale ritardo che le notizie eran già sorpassate. La posta
impiegava giorni ad arrivare; qualche volta al cinema davano i films di Sofia
Loren, che aveva successo in Nord America, ma erano i
films girati a Hollywood che avevano cancellato la spontaneità e la forza
drammatica dell’attrice e l’avevano trasformata in un manichino manierato e
troppo truccato. Le notizie riguardanti l’Italia che
la radio e la televisione canadesi trasmettevano erano sopratutto cronache
sportive di avvenimenti internazionali come il campionato del mondo di
pugilato. La sera della sfida di Nino Benvenuti contro Carlos Monzon, l’8 maggio 1971, Fabrizio e Sandra avevano giurato di stare
svegli tutta la notte a fare il tifo per Nino: Nino voleva la rivincita, voleva
riprendersi il titolo mondiale dei pesi medi, aveva dichiarato alla stampa che
questa volta si sentiva in piena forma e sarebbe stato un gioco da ragazzi, i
tifosi stessero tranquilli che lui ci teneva alla sua faccia di bel ragazzo e
non se la sarebbe fatta ammaccare da nessuno. L’incontro era trasmesso in
diretta da Montecarlo quando a Calgary era notte e nelle case e nei bar
italiani rimasti aperti clandestinamente le speranze e gli incitamenti si levavano
alti, ma Benvenuti andò al tappeto alla terza ripresa,
il titolo è perduto e la sua carriera è finita. Fabrizio e Sandra si abbracciarono inconsolabili, con un senso di smarrimento che
era qualcosa di piú dell’orgoglio nazionale ferito, soprattutto per lei era il
riflesso di un’ansia insidiosa che cresceva dentro, dalla cui stretta si
sentiva risucchiare.
Lentamente si sentiva scivolare via da una realtà che le era familiare ed amata senza riuscire a crearsene un’altra. Aveva provato ad uscire qualche volta con le signore conosciute alla cena dei Pini-Ragghianti, ma continuava a sentirsi un’estranea e specie dopo l’incidente del caffè gli inviti si erano rarefatti. Una mattina era andata per compere in centro città dove si trovavano gli uffici di molte ditte petrolifere e, senza riflettere, era passata a salutare Michele Nista, un geologo che lavorava alla Standard Oil. Avevano preso un caffè in ufficio e parlato delle possibilità di lavoro per Fabrizio, ma qualche settimana dopo Loredana Pollini le aveva riferito che la moglie di Nista si era lamentata con le altre della sua sfacciataggine. Così finì per trascorrere la maggior parte del tempo da sola, in casa o camminando per ore e ore per le strade semideserte del vicinato.
Cara mamma,
Non mi sono fatta viva per un paio di settimane
perchè nel frattempo son successe diverse cose, e poi volevo finire di stuccare
e dipingere i mobili grezzi che abbiamo comprato, a me piace
trafficare con pennelli e colori, li ho colorati di un bell’azzurro. Per ora
vanno bene; ancora non so se resteremo a vivere qui ed è inutile fare spese
folli. Il tempo è migliore di come mi aspettavo, ci sono molte giornate di sole
e non è troppo freddo. La neve ormai è quasi tutta sciolta ma in compenso c’è una
gran polvere che volteggia dappertutto, turbina per le strade e toglie il
respiro. Forse la noto di più perché sono una delle
pochissime persone che vanno in giro a piedi, qui girano tutti sempre in
macchina, mangiano perfino dentro la macchina, ci sono ristoranti dove ti
servono i pasti senza che tu debba nemmeno scendere, ti immagini?
Quanto a
Fabrizio, all’inizio di giugno comincerà finalmente a lavorare per una ditta di
ricerche petrolifere, dovrà andare nel North West Territories, su nel Nord, a fare
delle ricerche sulle montagne, cercano strutture
rocciose che potrebbero contenere giacimenti di petrolio. Starà
via tre o quattro mesi, sempre che non cominci a nevicare. Da un lato
sono contenta, anche se saranno lunghi questi mesi da sola qui a Calgary, ho un
buon circolo di amicizie, ricordi ti ho parlato di
Nelly Gilar? La vedo spesso anzi mi ha fatto conoscere anche una famiglia di ungheresi che hanno una figlia che vive a Firenze.
Tu come stai? Come stanno
gli amici? Mi mancano moltissimo, mi manca Firenze , i
suoi monumenti, la mia vita di sempre, ho nostalgia di tutto insomma. Mi
scuserai se non telefono più spesso, preferisco
scrivere perché il telefono costa un occhio.
Ti abbraccio.
Carissima Sandra,
Non mi rassicura saperti da sola e così lontana! Certo, son contenta che Fabrizio faccia il lavoro che
desidera, ma sarebbe stato meglio se foste rimasti qui. Avevate tutti e due un buon lavoro, non c’era bisogno di andare in
capo al mondo! Perdonami, Sandra se ti parlo così, ma
io penso che sia stato un colpo di testa da parte vostra, Fabrizio è un ragazzo
d’oro e ti vuole molto bene ma è molto impulsivo, forse dovresti farlo
riflettere e frenarlo un poco di più perché come dice il proverbio “chi lascia
la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova.”
Mi chiedi degli amici, ho visto qualcuno di loro e
chiedono tutti di te, domandano se ti
trovi bene, sai anche per loro è stata una sorpresa il fatto che ve ne siete andati. Mi chiedi come vanno le cose qui: come sempre,
lo sai, la politica è sempre complicata, il governo mette sempre nuove tasse e
la gente cerca di tirare avanti, ma almeno negli ultimi tempi grazie al cielo
non ci sono stati attentati sui treni o bombe nelle banche, speriamo
bene!
Io sto benino e quanto a Marisa niente di nuovo, come sai tua sorella a volte ha un carattere
difficile, quindi non preccuparti se ti scrive di rado. Sono in pensiero per te,
quattro mesi da sola in una città straniera sono lunghi! Scrivi spesso,
così sto più tranquilla, io aspetto il postino tutte
le mattine. Un bacio da
Mamma
Cara mamma,
Non preoccuparti per me, sto bene e ho mille cose
da fare, la sera vado a scuola, faccio un corso di inglese
per migliorare la pronuncia e poi, pensa, ho trovato un lavoretto! Tre giorni
la settimana vado a riordinare lo schedario all’agenzia di viaggio di quella
famiglia ungherese che ho conosciuto, i Nagy, te ne ho parlato nell’altra
lettera. È solo per il mese di agosto, ma sono contenta
lo stesso. Il tempo è bellissimo, sole e un cielo azzurro incredibili e ne approfitto per andare alla piscina di un parco pubblico,
ho una abbronzatura degna di Forte dei Marmi!
Fabrizio ogni tanto telefona dal suo accampamento
lassù a casa del diavolo, è contento e dice che sta facendosi una bella esperienza in questo tipo di ricerche. Presto sarà di
ritorno, con l’inizio di settembre molto probabilmente cominceranno le nevicate
ed il lavoro si ferma, si chiude il cantiere, Fabrizio
continuerà per qualche mese a lavorare qui a Calgary per analizzare i campioni
di roccia raccolti, e poi si vedrà. So che a te e agli amici sembra una avventura assurda, ma tu sai come è fatto Fabrizio,
vuole girare il mondo, lui dietro una scrivania si sente morire, è felice fra
le sue rocce, a contatto con la natura, il vento ed il cielo. In fondo, si è
sempre sentito fuori posto nel nostro ambiente dove una crociera o un viaggio
organizzato rappresentano già un’avventura selvaggia.
Mi sembra che qui si trovi abbastanza bene; io penso che è un paese ancora di
frontiera, in certe cose molto piú avanzato che da noi, ed in certe altre molto
piú arretrato. Che dirti? Staremo a vedere.
Ti scriverò presto, un abbraccio
Sandra
Quando Peter Jackson, il proprietario e presidente della
WestOil, aveva assunto Fabrizio, aveva chiarito subito che poteva offrirgli
solo un contratto stagionale come junior
field geologist con un compenso relativamente basso. La WestOil era una
compagnia di esplorazioni petrolifere seria ed
affermata, ma piuttosto piccola, che eseguiva molti lavori in subappalto
assumendo tecnici con contratti a termine e solo raramente assumendoli come
personale permanente.
– Ho letto il tuo curriculum vitae, – gli disse – le tue
qualifiche sono buone, ma te lo dico subito, io posso offrirti solo un lavoro
da principiante. Non hai esperienza canadese e poi lassù al campo gli uomini
non accetterebbero di prendere ordini da te, gli
operai e i tecnici non tollererebbero un boss
straniero, un immigrato italiano o chiunque altro. Decidi tu.
Fabrizio non aveva esitato un istante, era più di quanto sperava, dopo settimane di ricerche, domande di lavoro e interviste inutili. Peter Jackson aveva subappaltato dalla Exxon un contratto di esplorazione nella zona intorno alle Mackenzie Mountains nel North West Territories e all’ultimo momento si era trovato a corto di personale perché il geologo canadese che doveva lavorare per lui aveva avuto una offerta migliore, così aveva deciso di rischiare assumendo lui, straniero, un immigrato appena arrivato, ma a Fabrizio importava solo cercare di far bene il lavoro per Jackson, nella speranza di poter continuare a lavorare nella sua ditta. Cominciò ad andare all’ufficio della WestOil per studiare le mappe della zona da esplorare ricostruite in studio dalle foto aeree, mappe che poi avrebbe controllato sul terreno per individuare le formazioni geologiche interessanti e cercarvi indicazioni se in profondità si potesse trovare il giacimento di petrolio, in preparazione alla partenza per il campo che era fissata per l’inizio di giugno e anche per conoscere meglio i colleghi. Jackson viaggiava molto anche negli Stati Uniti perché era spesso impegnato ad assicurare nuovi contratti e appalti e lasciava la direzione dell'ufficio a Frank Webber, un uomo sui cinquant'anni, esperto ed efficiente che lavorava con la WestOil da molti anni e sarebbe stato il responsabile della spedizione nel North West Territories. Webber, al contrario di Peter Jackson che era cordiale ma sbrigativo, amava scherzare e raccontare le avventure che gli erano capitate in anni di esplorazioni; durante la pausa del caffé lui e gli altri accoglievano Fabrizio con un coro di “Volareee!” e “O’Sole Mio”. Sul finire di maggio arrivò un altro nuovo assunto, un geologo pachistano di nome Rahfiq Laal Din che Webber presentò a Fabrizio dicendo:
– Rahfiq sarà il tuo partner; quando saremo su in missione nel MacKenzie farete
insieme le esplorazioni sul terreno. Voi
due ve la intenderete benissimo, siete della stessa
cultura!
Mancavano ormai pochi giorni alla partenza e Fabrizio non dormiva la notte
dall’eccitazione ed il desiderio. Sandra lo aiutò a preparare le poche cose da
ficcare nel sacco per la partenza:
– Sei sicuro
che ti basteranno due camicie e quattro magliette?
– Saranno anche troppe. Cosa
credi, che vada a stare al Grand Hotel? Piuttosto, vedi se riesci a trovare la
mia scatola del grasso per gli scarponi, l’avevo
tirata fuori stamattina e non ricordo dove l’ho messa.
– Non è che ci sono orsi o altri animali pericolosi lassú?
– Non devi preoccuparti di queste cose, non succederà nulla, siamo ben attrezzati. Tu devi solo preoccuparti di organizzarti quando io sarò partito, di non restare troppo sola. Via, non fare quella faccia! – Fabrizio cercò di stuzzicarla per farla ridere – Non sarei mai partito se avessi pensato che da sola non te la potevi cavare. Ma tu sei la donna piú in gamba che io abbia mai conosciuto, sai affrontare le situazioni, sono io che dovrei stare attento che altri uomini non si mettano a darti la caccia mentre io sono via!
* *
*
La squadra di tecnici e operai della WestOil avrebbe fatto base a Fort Simpson per i rifornimenti e la direzione operativa, ed avrebbe piazzato un accampamento nel MacKenzie Mountains, la zona delle ricerche, a qualche centinaio di miglia di distanza.
Partirono in aereo da Calgary il due di giugno per
la prima tappa del viaggio fino a Yellowknife, e da lí si imbarcarono
su un vecchio DC3 che faceva trasporto misto di passeggeri e merci varie e che
li scaricò a Fort Simpson, il centro principale della zona fra il Nahanni Ram e
il Mackenzie. Era un paesotto sonnolento
che in origine era stato un centro di scambi commerciali della
Hudson Bay Company, costruito alla confluenza dei fiumi Mackenzie e
Liard in un territorio che prima dell’arrivo degli Europei era stato la culla
della civiltà dei Dene, ma dove ora delle
ricche tradizioni culturali di quel popolo restava ben poco. C’era
un'unica strada principale, un emporio, qualche altro negozio e un alberghetto
a due piani, costruito con tronchi d'albero, dove trascorsero
la notte. Al piano terra dell'albergo c'erano la sala da pranzo e una modesta
sala bar dove alcuni Nativi e un paio di uomini, forse
operai o meccanici, sedevano in silenzio bevendo birra e guardando distrattamente
le cronache sportive alla televisione. Quando Fabrizio e Rahfiq entrarono per prendersi un caffè, le teste degli avventori
si voltarono simultaneamente e per un lungo momento sguardi inscrutabili
scrutarono i nuovi arrivati, finché qualcuno accennò un saluto. Rahfiq gli
dette di gomito:
– Pare di essere al cinema! Come nei films di John
Wayne!
La mattina dopo con un idrovolante furono
trasferiti in zona di lavoro, una vasta area che dalla valle del Liard si inoltrava fino nella catena delle MacKenzie Mountains, in
un angolo remoto sulle rive di un laghetto chiamato Slim Lake, così sperduto
che non era nemmeno segnato sulle mappe. Tutto intorno, c’era il permafrost, il
ghiaccio permanente sotto appena dieci quindici centimetri di terreno; solo vicino
al lago, per effetto dell’influsso mitigatore dell’acqua, lo strato di terreno
superficiale arrivava forse ad una trentina di centimetri di spessore
permettendo cosí agli uomini di scavare con il piccone le buche per le esigenze
logistiche del campo, una per i residui della cucina ed un’altra per farne uso
di toilette. Tutti si misero al lavoro per le preparazioni e mentre Fabrizio
menava colpi col piccone scavando la buca, pezzi di ghiaccio misti a terreno
schizzavano da tutte le parti brillando nel sole come diamanti. Intorno a quel
microcosmo di frenetica attività c'erano spazi maestosi e silenzio, una luce
cristallina ed il profumo della natura incontaminata, un tempio di spiritualità
che ispirava reverenza.
Al campo lavoravano otto uomini fra tecnici e
operai. Frank Webber, il capomissione e Tom Pickett, il suo vice, un uomo
corpulento, quasi calvo e con piccoli e pungenti occhi azzurri;
"Scruffy" Mahoney, il cuoco, d'inverno lavorava in un albergo a
Yellow Knife con la moglie aborigena, e c’erano anche due operai, Mark e
Trevor, due studenti di ingegneria di Edmonton che
lavoravano durante l'estate per pagarsi l'università, sempre impegnati in
furiose baruffe che scoppiavano per un nonnulla e finivano con una bevuta di
birra.
Il
pilota dell'elicottero, Lester "Mad" Maddox ,
un bel giovane alto e asciutto, un tipo alla Steve McQuinn, si era guadagnato
la fama di scavezzacollo ma anche una
solida reputazione per la sua abilità ed esperienza. Scherzava con
tutti, raccontava storielle e si divertiva a fare evoluzioni spericolate da far
gelare il sangue, ma Fabrizio aveva notato che Lester "Il Matto"
parlava poco di sé, spesso si appartava tranquillo a leggere un libro ed anche
in compagnia non beveva mai più di un paio di birre. Una
volta Fabrizio gli aveva chiesto se avrebbe continuato a fare sempre
quel lavoro ed era venuto fuori che Lester prima di fare il pilota era stato
avvocato, ma aveva deciso di iniziare una carriera diversa quando si era reso
conto che non voleva passare la sua esistenza in un'aula di tribunale. Aveva
preso il brevetto di pilota, si era comprato l'elicottero e lavorava a
contratto; amava appassionatamente il suo lavoro, perché "It's a man's job, era un lavoro da
uomo", ma chissà, un giorno avrebbe potuto scoprire un'altra passione ed
iniziare un’altra professione. Lester lavorava in coppia con il suo meccanico
Dylan, un tipo dinoccolato che non si separava mai dal suo berrettuccio da
baseball ed era venuto dalla Nova Scotia attirato
dall'abbondanza di lavoro e buoni guadagni in Alberta, la ricca provincia
dell'Ovest.
Le
esplorazioni duravano anche giornate intere; si trattava spesso di misurare fisicamente con una rollina metrica lo
spessore delle rocce ed il metodo era quello di salire in quota su per le
pareti rocciose. Mentre si inerpicavano su per i costoni rocciosi Fabrizio e Rahfiq
raccoglievano campioni di roccia marcandoli e poi durante la discesa misuravano
gli spessori prendendo nota di tutto per poi scrivere il rapporto la sera, una
volta rientrati al campo. Sia per recarsi nella zona di lavoro sia per tornare
al campo venivano trasportati con l’elicottero,
spostandosi ogni giorno di centocinquanta o duecento chilometri verso la nuova
porzione di terreno da esplorare. Partivano con le razioni di cibo, l’acqua e
un fucile; Lester “Il Matto” si divertiva ad esibirsi in manovre spericolate
con l’elicottero:
–
Tenetevi forte, gente, ché ci buttiamo in picchiata!! Ah, ah, ah! Vi
siete cagati addosso, eh?!
Camminavano e si arrampicavano per ore, fermandosi
per osservare gli animali che non mostravano alcuna paura e non fuggivano, come
in un Eden miracolosamente risparmiato dalla violenza: fagiani dal piumaggio
iridato, pernici, galli cedroni, branchi di caribou e di mufloni, agili capre
di montagna che si inerpicavano sui pendii e dividevano
il territorio di pastura con le pecore Dahl. Seguivano con lo sguardo il volo
silenzioso dei falchi finché essi sparivano dietro una cima o nel folto della
foresta, e la maestosa virata delle aquile calve che descrivevano
ampi cerchi nel cielo prima di posarsi sulle cime degli alberi per spiare la
preda.
Fabrizio
scherzava: − Guarda quanta bella
selvaggina! Ci facciamo un arrosto per
pranzo! − ma né lui né Rahfiq volevano turbare quella pace versando sangue. Il suo
compagno aveva circa trentasei anni, era un tipo taciturno che si portava libri
da leggere o la radio per ascoltare musica . Aveva tre
figli piccoli, era emigrato da più di dieci anni da Lahore in Pakistan e questo
era uno dei primi lavori decenti che gli erano capitati.
–
Quando sono arrivato, nel ‘60, non ne volevan sapere
di assumere gente di colore se non per fare i manovali o gli spazzini. Io avevo
un Master in Scienze Geologiche, avevo già lavorato per il governo pachistano,
ma qui, niente, non contava, ho guidato il taxi, ho
fatto il muratore, il cameriere, quello che capitava. Per qualche anno ho
lavorato come operaio sui pozzi petroliferi, per le perforazioni, poi son
diventato caposquadra, ma appena hanno trovato uno dei loro, un canadese che
poteva far quel lavoro, mi hanno buttato fuori. Però non mi son mai dato per vinto ed ora sta andando
meglio, son tornato a fare il mio mestiere, lavoro come contrattista con tre
ditte diverse, almeno sono occupato tutto l’anno. Che
vuoi farci, per gli immigrati è dura.
– A chi
lo dici! – fece Fabrizio – Come ti capisco!
– No, non puoi capire, – rispose pacatamente Rahfiq – non puoi immaginare. Per te è diverso.
* *
*
Settembre arrivò con una grandinata violenta e
breve che preannunciava l’arrivo della stagione
fredda; Sandra cominciò a contare i giorni che mancavano al ritorno di Fabrizio.
L’estate le era sembrata lunghissima senza di lui, e la solitudine cominciava a
sopraffarla. Scrivere lettere era inutile, la posta era lentissima ed arrivava
a destinazione solo se qualcuno dal campo si recava a Fort Simpson per acquisti
e prelevava le lettere; telefonare era un’altra impresa impossibile, in città
si potevano solo ricevere chiamate attraverso il ponte radio che partiva dalla
radio del campo e passava per Wrigley Radio. La voce di Fabrizio arrivava
deformata, lontana, fra il gracchiare della statica, ma lui era eccitato e
allegro, la vita lassù nel Nord era un’avventura, un romanzo, l’elicottero lo
portava tutti i giorni sulla zona di lavoro fra laghi foreste e montagne a
raccogliere i campioni di roccia:
– Pensa, l’altra sera l’elicottero non è riuscito
a ripartire e ci è toccato passare la notte
all’addiaccio, abbiamo acceso un gran falò, non ti dico che freddo, e abbiamo
mangiato i viveri di emergenza, …oddio aspetta che qui casca la linea, no,
niente paura… dunque ti dicevo, abbiamo dovuto aspettare che si facesse mattina
per essere soccorsi, con la batteria scarica la radio non funzionava, il
segnalatore di posizione per le emergenze era troppo debole e non arrivava
molto lontano, così passata la notte son venuti a vedere cosa ci fosse successo
e solo quando son stati abbastanza vicini hanno captato i nostri segnali!
– Ma allora c’è pericolo?
Potresti farti male?
– Macchè pericolo! Stai tranquilla, a parte le
zanzare che mi stanno mangiando vivo, qui è una vacanza, la natura è stupenda!
Siamo accampati sulle rive di un lago, si chiama Slim Lake ed è bello azzurro, ci faccio anche il bagno, un pò freddino ma
ti piacerebbe, l’unica cosa che mi manca sei tu, …accidenti, di nuovo qui cade
la linea…amore mio, sapessi quanto ti penso, non vedo l’ora di stringerti…ahh,
la linea è caduta davvero!!
Finalmente, alla fine di agosto
Fabrizio chiamò da Fort Simpson per dire che sarebbe tornato a casa entro dieci
giorni, ed in una mattina di sole chiaro arrivò su una Jeep pilotata da Frank
Webber e stipata di altri colleghi, balzando giù e buttandosi a tracolla il suo
saccone nero di tela cerata da marinaio, scambiandosi saluti e grandi pacche
sulle spalle con gli uomini a bordo della Jeep. Sandra stentò a riconoscerlo,
smagrito e indurito, con la barba incolta e i jeans
incrostati di fango, che la sollevava ridendo fra le braccia come un vaso di
gerani, ansioso di rovesciarla sul letto.
* *
*
Finita la cena, rassettata la cucina e spedito a
letto le bambine, Sharon e Sandra si misero di fronte al televisore in
compagnia di Galileo, il grosso cane di razza indefinibile che si accovacciò
accanto a loro sonnecchiando. Beppe fece cenno a Fabrizio di seguirlo nel
seminterrato dove aveva ricavato un salottino studio di cui andava fiero, tanto
che lo definitiva scherzosamente il suo sancta sanctorum.. Aveva costruito con
le sue mani gli scaffali per i libri e la mensola del caminetto, come pure le
sedie ed il tavolo di legno, usando un disegno semplice e ingegnoso di sua
invenzione. Per Sandra e Fabrizio era stata una sorpresa scoprire questo suo
talento nascosto, come del resto erano rimasti sorpresi dalla capacità e
dall’interesse che i canadesi di tutti i ceti dimostravano verso i lavori
manuali, dal fatto che molta gente passava le domeniche a costruirsi mobili,
staccionate o a riparare il tetto; nessuno dei loro amici in Italia avrebbe
considerato questi lavori. Fabrizio
stesso, che aveva passione ai motori e da ragazzo avrebbe voluto fare un mestiere
tipo meccanico o saldatore, era stato pesantemente rimbrottato dai suoi come
traditore delle legittime aspirazioni borghesi della famiglia di avere “un
figlio laureato.”
Beppe finì di attizzare i ceppi nel caminetto e si
riempì con calma la pipa, sprofondandosi in poltrona e sogguardando Fabrizio
con aria indulgente.
– Allora, che te ne pare di questo paese?
– Oh, ci sono molte cose che mi piacciono e che ho
sempre sognato, i grandi spazi, la natura ancora quasi intatta,
l’efficienza…insomma è un bel posto, ma…
– Ma….cosa?
– Non potrò continuare a lavorare per la WestOil.
Sembra che dopo questo contratto che sta per terminare non ci sia altro lavoro
in vista, almeno fino alla prossima estate, quindi intendono
ridurre il personale. Io che sono l’ultimo arrivato sarò il primo ad andarmene
fra un paio di settimane. Ho provato a chiedere ad altre ditte, ma il lavoro è
fermo, dicono, per almeno otto mesi e così non assumono nessuno, e poi vogliono
che uno abbia anni di esperienza canadese, tutta
l’altra esperienza precedente non conta ed io in fondo ho lavorato con la
WestOil solo pochi mesi.
Senza rendersene conto, in un moto di
preoccupazione, Fabrizio stava facendo scrocchiare le
giunture delle mani e Beppe, infastidito dal rumore, gli allungò un
bicchiere di whisky.
– Ascolta, non devi preoccuparti così, agli inizi
è dura per tutti! Questa non è una società garantista per quanto riguarda
l’impiego, è competitiva ed è basata sulla mobilità e sulla flessibilità. Le
esplorazioni riprenderanno, si tratta di un lavoro
stagionale. Nel frattempo, se non si materializza nulla nel tuo campo, puoi
provare a fare un lavoro differente. Anche io
all’inizio ho cambiato cento lavori, ho provato cento strade. Non è stato
facile neppure per me, quando sono arrivato con la mia laurea e tutto, mi son
sentito dire di andare a lavorare “in costruzione”, gli italiani son bravissimi
a scavar fossi e tirar su muri ti dicevano sul muso,
figurati! E l’ho anche fatto, per un pò, poi son
riuscito a rientrare nella professione prendendo dei contratti temporanei, come
il tuo, e poi le cose si sono sistemate, ma c’è voluto tempo e pazienza!
Fabrizio lo ascoltava intento e un pò sorpreso:
– Pensavo che fosse stato più facile per te.
Dopotutto, all’Università sei ancora una leggenda,
laureato con lode e pubblicazione e per di più con un relatore carogna come
Altobelli! Anche se restavi in Italia avresti avuto
solo da scegliere!
– Da scegliere che cosa? A quale “barone”
universitario fare il portaborse? Oppure quale altra
brillante carriera alternativa poter scegliere, tipo insegnante di scienze alle
medie o rappresentante di vendita, alias piazzista? No, Fabrizio, se avessi
avuto le occasioni che dici sarei forse rimasto, ma la carriera universitaria
lo sai anche tu che non si fa con le lauree con lode, ma con le raccomandazioni,
le spinte politiche ed il santo protettore, il
“barone” da servire e riverire per anni,! E fuori dall’università,
non ci sono molte altre possibilità di lavoro serio, il Servizio Geologico
nazionale è quello che è, quattro gatti, le imprese private hanno un
assorbimento limitato e per entrare, anche lì devi conoscere qualcuno
importante, avere la spinta giusta e a me non va….
– Ecco, questo è il problema! – interruppe
animatamente Fabrizio – la professione di geologo in Italia non esiste!
Le analisi del terreno le fanno gli ingegneri, i geometri, il geologo è
considerato un lusso inutile, proprio come diceva il Saccardo, ti ricordi, il
nostro professore di paleontologia , “La geologia,
ragazzi, è una scienza tanto bella quanto inutile e lo stesso vale per la
professione del geologo!” ti rendi conto? Il professore veniva a dirti queste
cose! E il peggio è che aveva anche ragione, come
quando ci diceva “Siamo gli orfani di Mattei”, gli eredi dell’illusione che
l’Italia potesse diventare una potenza petrolifera con l’AGIP, il metano e
tutto il resto, ma quando Mattei è venuto giù col suo aereo, addio, finito
tutto! Oggi i laureati sfornati dalla facoltà di geologia li trovi
a fare i piazzisti di medicinali, se va bene. Poi, quando c’è un terremoto o
crolla un palazzo costruito su terreno instabile, allora tutti si mettono a
gridare dove sono i geologi, perchè non si è chiamato il geologo, perchè i
geologi non son capaci di prevenire questi incidenti?
Beppe, avvolto da spire di fumo azzurrognolo,
accennò ad una smorfia di rassegnazione e tirò su dalla pipa prima di
rispondere pacatamente:
– Comunque sia, ormai tu
sei qui, e penso che non te ne pentirai. Prima o poi
verrà fuori qualcosa di buono e nel frattempo, datti da fare, prendi qualsiasi
lavoro anche se non c’entra niente con la geologia, keep busy!
Fabrizio, a cui quell’esortazione da tutti
ripetuta dava sui nervi, aprì la bocca per replicare che se era venuto fino in
Canada era proprio per fare la professione che amava e non un qualsiasi lavoro,
ma si trattenne, intuendo la sincerità delle parole di Beppe.
– Sandra come si trova qui a Calgary? Sarebbe
contenta di restare a viverci?
– Beppe, questo non lo so.
Sandra è molto attaccata alla sua città, al suo circolo di amici;
per ora è distratta ed eccitata dalla novità, ma so che presto sentirà la
nostalgia, anche se non dice niente.
– Beh, dovrebbe trovarsi un lavoro, oppure
dovresti farle fare un figlio. Le donne non si possono
tenere a casa a far le belle statuine e rimuginare pensieri. Sharon lavorava già
quando ci siamo conosciuti ed ha sempre continuato a lavorare anche quando son
nate le bambine.
Fabrizio si accese una sigaretta fingendo grande concentrazione nel rituale di estrarla dal pacchetto
ed esaminarla, e tirò un paio di boccate prima di rispondere. Anche quello era
un argomento che lo irritava e gli sembrava una ingiusta
critica nei confronti di Sandra e, indirettamente, nei suoi confronti, come se
lui avesse bisogno dei soldi di sua moglie per tirare avanti. Infatti pensò con un certo astio involontario: “Sharon è
canadese e anche tu stai diventando più canadese che italiano, pensi solo ai
quattrini…” ma di nuovo si trattenne e ripose con calma:
– Anche Sandra lavorava,
anzi agli inizi guadagnava più di me, ma ha dovuto lasciare il suo lavoro per
seguirmi. Comunque, troverà certamente qualcosa che le
piace, non le metto fretta perchè voglio che sia contenta, che faccia qualcosa
che la appassioni. Sandra è un tipo artistico, dipinge, è appassionata di
teatro e d’arte, è creativa, piena di fantasia; non ce la vedo
a servire ai tavoli dei ristoranti o a fare un lavoro qualsiasi, anche
quando era in banca e guadagnava bene, si lamentava che era un lavoro arido e
alienante….
Beppe alzò le spalle:
– Sì, sì, lo capisco, tutte cose bellissime, ma
poesia e pittura non ti danno da vivere e tanto meno qui
a Calgary! Sandra parla benissimo inglese, perché poi dovrebbe far la
cameriera? Può trovare tutto il lavoro che vuole!
– Finora ha avuto offerte solo per fare la
cameriera nei ristoranti italiani. Poi, francamente in questo momento non mi va
che lavori, che si strapazzi e magari ci
rimetta la salute. Sta già affrontando le sue difficoltà per
adattarsi a questa nuova vita, insomma non voglio crearle altri problemi
proprio adesso. E poi, penso che dovrei bastare io a
mantenere la famiglia. Finito con la WestOil, cercherò qualche altra cosa,
qualsiasi cosa per il momento.
– Beh, scusa, mi pare che tu la coccoli troppo,
tua moglie! Siete giovani, sani come pesci, perché dovrebbe rimetterci la
salute a lavorare? In famiglia si deve tirare la carretta tutti
e due! forse in Italia c’è ancora l’idea che
tenere la moglie a casa a far la signora sia uno status symbol, ma ti
assicuro che qui si guarda al sodo….
Beppe si interruppe,
accorgendosi della collera che stava invadendo Fabrizio e lasciò perdere il
discorso. Fatti loro, mentalità all’italiana, pensò,
se ne accorgeranno presto! Del resto anche ai tempi dell’università, quando
Fabrizio era ancora matricola e lui stava laureandosi, l’aveva capito che
l’altro era un ingenuo, cocciuto e idealista, uno che si buttava con foga nelle
proteste studentesche per difendere la causa, che durante una dimostrazione
particolarmente violenta aveva preso a pugni un poliziotto e si era beccato una
manganellata che gli aveva rotto il polso da parte di un altro sbirro accorso a
difendere il collega; insomma, uno di quei sognatori che vanno allo sbaraglio
credendo di difendere i grandi ideali e non si accorgono di esser solo strumentalizzati da gente più furba.
Si era fatto tardi e nel buio della
sera il sottile strato della prima neve, asciutta, quasi polverosa, si
accendeva di mille scintille sotto le luci della strada. Fabrizio si alzò
per andare ad avvertire Sandra che era
tempo di accomiatarsi e Beppe accompagnandoli alla porta gli disse “Devi
insistere, continuare a cercare, prima o poi le cose
cambieranno.”
* * *
Quando divenne evidente che un altro incarico come
geologo o anche come tecnico non si sarebbe materializzato per un periodo
indefinito e che intanto i conti da pagare continuavano ad arrivare
puntualmente, Fabrizio accettò il consiglio di Madonnalepre. Questo era il
soprannome con cui loro avevano ribattezzato Evandro Carboni, l’uomo di Nelly,
un toscano che aveva il vizio di intercalare
fulminanti e fantasiose bestemmie ogni quattro parole, al punto che
l’incessante torrente di oscenità rendeva la comprensione dei suoi discorsi
lenta e difficile; l’espressione blasfema preferita da Evandro era appunto il
misterioso insulto “madonnalepre” da cui era derivato il nomignolo. Una sera,
mentre erano a cena da Nelly, Evandro, fra la consueta grandinata di bestemmie
dette meccanimente e a cuor leggero, si era offerto di portare Fabrizio con sé
in fabbrica, a chieder lavoro a McClintock, il caposquadra della ditta di
prefabbricati dove lui lavorava, vociando:
– Madonna
lepre!!!! Tu se’ ancora a spasso? ‘…io boia! Icchè tu
ci fai? Semo qui per fa’ moneta! Vieni a tira’ du’ martellate, e tu ti pigli un po’ di moneta! Ci son tanti
italiani, se ‘un tu fa’ moneta, o icche’che tu’ ci vo
fa’ ‘n questo paese? Le seghe?!
La mattina dopo, Evandro cercò di convincere
McClintock ad assumere l’amico, ma l’irlandese, massiccio e squadrato come un
macigno, non si decideva, guardava le mani lisce di Fabrizio e lo soppesava
diffidente; infine gli chiese se sapeva com’era fatto
un martello da carpentiere, anzi per esser sicuro, che gli facesse un
disegnino, uno schizzo su un pezzo di carta, tanto per fidarsi. L’esame
improvvisato andò bene, McClintock bofonchiò eh sì questo sembra
proprio un martello da carpentiere allora pigliati un paio di stivali da lavoro
e comincia oggi stesso, siamo a corto di gente nel reparto montaggio finestre.
Così Fabrizio fu assunto su due piedi come apprendista carpentiere e in pochi
giorni fece la conoscenza degli altri italiani che lavoravano alla ATCO, quasi tutti uomini di mezza età emigrati da dieci
o venti anni dal Sud o dalle regioni del Nord-est d’Italia, che lo avevano
accolto con misto di ritegno e tacita approvazione, dopotutto era un “dottore”,
un signore, uno che aveva studiato, ma anche uno che non si vergognava di
lavorare con le mani e di sedersi con loro a dividere il panino e bere il loro
vino fatto in casa, mica come quegli altri spocchiosi che non ti guardano
nemmeno quando vengono con le loro mogli a far la spesa nei negozi italiani,
comme ca fussero principi e baroni, ma
tu sienti a me, aggio fatte chiù moneta io che tengo la quinta elementare, ma
tengo pure tre case e nu’ carro ca’
issi nun so sognano manco …. ma ti te ghe studia', ti ze un dotor... non te vora' miga
scavessarte la schena par sempre co' sto lavoro...
Gli davano consigli paterni, gli raccontavano di
quando erano arrivati a Calgary con quattro soldi in tasca, la camicia buona
nella valigia e conoscendo solo l’indirizzo di un compaesano che poteva dare
una mano a trovar lavoro, qualsiasi lavoro e qualsiasi paga, gli dicevano vedi
quello, Lino Andreutti il friulano, quello s’è fatto quattro anni filati su
nell’interno della British Columbia a tagliare i tronchi, fra orsi e alci, al
campo non vedevan la faccia di un cristiano per mesi, alla
sera per la noia, la rabbia e l’isolamento gli uomini bevevano e poi si
mettevano a fare il tirassegno con l’ascia e vinceva chi la faceva fischiare a
un pelo, a un millimetro dalla tua testa, e poi gli altri, i canadesi, quando
pigliavano la paga andavano a sputtanarsela a Port McNeill o Cranbrook con la
birra e le donne, ma Lino, niente, lui si è messo da parte un capitale e quando
è tornato a Calgary si è comprato la casa e anche un intero palazzo a Ogden e
ora si piglia i soldi dagli inquilini e potrebbe fare il signore ma gli piace
lavorare. E guarda Vittorino Peressin e Ciccio Marrocco, si
son messi in proprio, tutti i giorni quando escono di qui e poi anche il sabato
e la domenica vanno a risistemare le case vecchie, le rivendono e si fanno un
bel pò di moneta.
Vincenzo Merenda era stato
apprendista barbiere a Calatafimi e ci teneva a vestirsi elegante e a
pettinarsi con cura i bei capelli neri e ondulati; aveva un venticinque anni, ed
era scapolo con una gran voglia di donne. Finito il lavoro si faceva la barba,
si spruzzava la colonia, si infilava la camicia pulita
lasciando il colletto aperto per mostrare la grossa catena d’oro con la
medaglia della Madonna, si metteva il suo bell’orologio d’oro e saltava sulla
sua Impala bianca per il giro di
conquiste. Vincenzo aveva imparato l’inglese andando a letto con le ragazze
canadesi, perchè con le ragazze figlie di italiani non
si sognava di fare porcherie, quelle o si sposano o si lasciano stare
altrimenti ci si becca una botta di lupara e poi lui aveva piani di sposarsi
con una ragazza di Calatafimi che lo aspettava paziente.
– Che vuoi, – raccontava a Fabrizio – noi siciliani teniamo un proverbio: al mondo ci stanno tre categorie di omini: omini, ominicchi e quaquaraquà. Chisti omini canadesi nun sunnu omini, sunnu ominicchi. Non sanno trattare li fimmini, chisti ccà si ubriacano, e poi li fimmini ci mettono i peri n' capo. Li fimmini canadesi quando vedono l’uomo italiano, che è nu mascolo vero, credi a me, non resistono, ti si buttano ai piedi!
Le teorie di Vincenzo trovavano ampio consenso fra
gli altri italiani, perchè anche se qualcuno, come Rambaldo Cecchin e Joe
D’Amico, aveva sposato una canadese, quasi tutti gli altri erano arrivati già
con la famiglia o avevano sposato una ragazza che avevano
fatto venire dal paese, perchè era meglio non correre rischi, non farsi mettere
le corna e non a caso si dice pure moglie e buoi dei paesi tuoi, ed a riprova
raccontavano, ovviamente quando l’interessato non era presente, il fatto
successo a Rocco D’Appolonia, il calabrese che si era messo con la Inez, una
cubana che lavorava alla stazione radio di lingua spagnola, bella donna,
emancipata e piena di fuoco. Rocco ci aveva perso la testa, si erano messi a
vivere insieme, lui, la cubana e i tre figli che lei aveva avuto dal primo
marito. Inez voleva sistemarsi e farsi sposare, ma Rocco non poteva decidere
niente senza il consenso del vecchio padre che viveva ancora a Spezzano della Sila, così si era deciso ad andare da solo in Italia
per annunciare la novità al vecchio, ma quando questi si era reso conto che la
Inez aveva tre figli e come suol dirsi aveva “un passato”, era diventato una
furia e aveva proibito al figlio di sposare la donna perche’non era vergine,
pena la maledizione paterna e ovviamente il fatto che l’avrebbe diseredato.
Rocco aveva provato a spiegare la situazione alla Inez
ma quella, con gli occhi lampeggianti e le unghie sfoderate, si era messa a
strillare brutto figlio di puttana cosa mi vieni a dire? Non lo sapevi anche
prima che non ero vergine,? ho
tre figli, non lo sapevi, brutto porco maledetto, come faccio ad esser vergine
se ho tre figli? Così la relazione era finita e il giorno dopo Rocco si era
presentato al lavoro con vari rabbiosi graffi sul viso.
La
cordialità e le confidenze finivano all’uscita di fabbrica, perché come per un
tacito mutuo accordo, inviti a cena o ad andare a giocare a bocce o a caccia
insieme non ne vennero mai. Il lavoro era faticoso, ma non difficile, in fondo
Fabrizio era abituato ad adoprare una serie di
attrezzi per estrarre i campioni di roccia, piallarli e molarli per preparare
le lastrine da esaminare al microscopio e in breve riuscì a raggiungere e anche
superare il ritmo di produzione che la ditta esigeva.
Oltre agli italiani, c’era un gruppo di operai irlandesi, c’erano anche dei tedeschi, che però se ne stavano quasi sempre fra loro, o perché non volevano mescolarsi o perchè ne avevano abbastanza degli sfottò sui nazisti, c’erano polacchi, e diversi indiani e pachistani che si comportavano cordialmente con tutti ma non si immischiavano mai con nessuno, ma gli irlandesi erano i più numerosi, chiassosi ed invadenti e si sentivano superiori perchè parlavano inglese mentre gli altri immigrati per farsi capire usavano un gergo mezzo incomprensibile. Gli italiani, d’altra parte, si ritenevano piú bravi, piú svelti e piú furbi, ma era una rivalità abbastanza bonaria che sfociava per lo piú in sfide, risate e bevute. Il nuovo arrivato non poteva mancare di attirare l’attenzione e un giorno, durante l’intervallo del pranzo, Paddy Ferguson, uno degli irlandesi che passava per essere un gran campione di velocità e precisione a piantar chiodi e si vantava di esser l’unico a sapere come si trattano i chiodi enormi che tengono insieme la struttura portante dei prefabbricati, si piantò davanti a Fabrizio e lo sfidò ad una gara di destrezza con il martello. Paddy era un uomo poderoso, con un collo da toro, mani come badili ed una risatona omerica; superava Fabrizio, che pure era un ragazzone solido, di diversi centimetri in altezza. La gara consisteva nel piantare un chiodo da venti centimetri in una delle travi che formavano la struttura portante del prefabbricato, e piantarlo con il minor numero di martellate possibile e assolutamente non più di quattro, pur tenendo conto che il primo colpo non contava, essendo quello necessario ad infilare il chiodo. Subito, dietro il campione Ferguson si radunò un gruppo di irlandesi eccitati dall’idea di vedere gli italiani subire una ignominiosa sconfitta e tornare a casa con la coda fra le gambe; i compagni di Fabrizio invece iniziarono subito a fare il tifo e a dispensare i :
- Mi raccomando, non fare il
coglione, faccelo vedere a stu’ figghiu ‘n’trocchia! battendogli pacche sulle spalle cercando di dimostrare un
ottimismo che forse non avevano, vociando, ridendo e facendo i gradassi per
spaventare gli irlandesi:
- Ma no te
vedi che muso da mona chel ga quel là... dai, daghe dentro, che te lo desfi.…
-
An vedi st’impunito! Mo’ me te faccio vede …
Ferguson
rideva contento e i suoi sostenitori gli strizzavano l’occhio con smorfie
d’intesa, lui era un tipo tranquillo ma la tentazione di vedere un wop perdere la faccia era stata troppo
forte, c’era da divertirsi a raccontarlo la sera al pub, da far crepare gli
amici dalle risate. I polacchi, gli indiani e gli altri operai restavano ai
margini del circolo di spettatori, affettando neutralità ed indifferenza e non
volendo inimicarsi nè la banda degli irlandesi nè i wops, anche se in fondo non
sarebbe loro dispiaciuto se gli irlandesi chiassoni si prendevano una batosta.
Perfino McClintock, senza parere, si era messo in posizione sul fondo del
capannone, gli uomini lavoravano duro tutto il giorno e si
dovevan pure prendere qualche svago, a lui bastava che non finisse a cazzotti
perché quello avrebbe disturbato il ritmo di produzione.
Fabrizio, che così su due piedi non era nemmeno
sicuro se accettare la sfida, guardò l'avversario che
sembrava pensare di aver la vittoria già in tasca, guardò Salvatore, Bepi e gli
altri e si rese conto che non poteva ritirarsi, non tanto perché gli importasse
veramente della faccenda quanto per non deludere i compagni. I chiodi di quel
tipo non li aveva adoprati quasi mai in quelle poche
settimane di lavoro alla ATCO, ma dopotutto non poteva esser peggio della volta
del cane. Il ricordo lo fece sorridere: anni prima,
quando stava preparando la sua tesi di laurea, era andato a cercare fossili
del periodo Oligocene-Aquitaniano sulle
colline intorno a Vicchio di Mugello. Una mattina, con lo zaino pieno di
campioni di roccia e strumenti di lavoro, si era inerpicato su un costone per
staccar campioni delle marne argillose che negli ultimi livelli racchiudevano
ammassi irregolari, costituiti quasi per intero da grosse Lucine, ed era
assorto nel suo lavoro quando dal fondo della salita era sbucato un enorme
cagnaccio inferocito che gli si era avventato contro a pelo ritto e zanne
scoperte e lui aveva dovuto darsela a gambe.
Al bar del paesino, un tizio gli disse poi che anche a lui era capitata la stessa cosa e che il cane non faceva avvicinare nessuno ed era meglio lasciar perdere, ma il giorno dopo Fabrizio era ritornato perché quelle rocce contenevano la miglior formazione di Lucine che si potesse immaginare e di nuovo il cagnaccio, ringhiando minaccioso, aveva preso la rincorsa per assalirlo, ma lui stavolta aveva perso la pazienza e lo aspettava brandendo il grosso martello da geologo. Lo lasciò avvicinare quasi a sentire il fiato caldo e bavoso della bestia alitargli sul viso e quando il cane si slanciò a mezz’aria per azzannarlo, gli calò di colpo il martello sul muso. La botta fece chiudere di scatto le mascelle al cane con uno scrocchiare secco di zanne e ossa e lo mandò rotoloni per terra a qualche metro di distanza; dopo qualche istante, il grosso animale si rialzò stordito e corse via traballando e guaiolando. Fabrizio stava rimettendosi al lavoro quando una voce irosa lo distolse:
– O
figlio di puttana merdaiolo bucaiolo!!! Icche tu' gli
'a fatto a immi' ‘hane? Ora ti ‘honcio io!!
Un contadino paonazzo di collera avanzava verso di lui vociando insulti. Fabrizio pensava di non aver fatto nulla di male, anzi si sentiva orgoglioso di come aveva saputo attentamente calibrare il colpo solo per stordire il cane, non per ammazzarlo e, offeso nelle sue buone intenzioni, aveva risposto scandendo le parole e mostrando il martello:
– Gli
ho insegnato un pò di educazione e se vuole, son
pronto a insegnarla anche a lei!
Il
contadino aveva battuto in ritirata borbottando – 'Un c'è mia bisogno d'incazzassi a qui’modo, ovvia!
– Scommettiamoci una cassa di birra!
– E io ci scommetto dieci
bottiglie di vino! – urlavano Evandro e gli altri – Gli facciamo un culo
così, li imbriachiamo!
Gli irlandesi ridevano e si sbracciavano:
– Maccaroni! Spaghetti! Mammia mia!
Ferguson si mise in posa davanti alla trave:
– Allora, sei pronto? – e fra le grida di incitamento, i due contendenti iniziarono la gara.
– Vedessi” raccontava Fabrizio tornando a casa
tutto eccitato – Quello stronzo mi
guardava a sfottere, mi fa: “Come on,
show us what you’ve got,” come se io fossi un
coglione. Si piazza davanti alla trave di legno e parte per primo, tira quattro
martellate precise e il chiodo entra come nel burro, allora io penso qui si sta
mettendo male ma ce la posso ancora fare, di martellate ne ho tirate anch’ io e
per di più alle rocce, smartellare la roccia è questione di precisione più
ancora che di forza, dunque se trovo la venatura del legno e l’inclinazione
giusta figurati se non pianto questo chiodo qui, ti dico, mi ci son messo
veramente di brutto! faccio i miei calcoli e giú sparo
una mazzata, mi ci gioco le palle che ho visto giusto e c’ho azzeccato, e
infatti Bum! Bum! Bum! con tre colpi soli il chiodo
entra fino alla capocchia, l’irlandese c’è rimasto di merda, e a quel punto son diventato l’eroe,
Salvatore, Rino, Carmelo, Luigi, tutti saltavano, ridevano, mi battevan manate
sulle spalle, mi è toccato bere due litri di vino fatto in casa per farli
contenti!…
Dopo la gara, fra Paddy e Fabrizio
si stabilì una certa amicizia, anzi quando si erano trovati a lavorare nella
stessa squadra, l’irlandese aveva insegnato a Fabrizio un paio di segreti del
mestiere. Col passare del tempo, perfino quando ormai Fabrizio aveva lasciato la ATCO, il ricordo della gara si colorò dell’iperbole della
leggenda, e via via modificato ed arricchito di sempre nuovi particolari,
divenne una specie di epopea biblica in cui il giovane “dottorino” italiano, lo
sbarbatello dalle mani lisce e curate che non aveva mai preso in mano uno
attrezzo da lavoro, con tre magistrali colpi di martello aveva umiliato il
famoso campione irlandese, e quell’episodio che perfino per i protagonisti era
stato in fondo banale e marginale, grazie al potere della fantasia fu
tramandato quasi come una riedizione della mitica lotta di Davide e Golia.
* * *
Alla fine dell’estate, anche il lavoro di Sandra
all’agenzia di viaggio era finito, vi tornava solo saltuariamente quando i
proprietari avevano bisogno di una mano. Non andava più neppure ai corsi di inglese; l'insegnante le aveva consigliato di prendere
dei programmi piú avanzati all'università, ma lei esitava sia per la spesa sia
per la riluttanza a impegnarsi nello studio in un momento in cui il loro futuro
era ancora incerto. Ora che la stagione si faceva sempre piú rigida, le era diventato difficile uscire per passeggiare, perfino
l’andare al supermercato, a due isolati di distanza, diventava complicato nel
freddo pungente cui non era abituata; cosí per tenersi occupata ricominciò a
disegnare paesaggi e a schizzare caricature da mandare alla madre ed agli
amici.
Natale era alle porte e anche Nelly Gilar che
spesso telefonava per invitarla a prendere il caffè era occupatissima con i
suoi clienti; Loredana Pollini, indaffarata con i
bambini e l’impiego da ragioniera, le aveva fatto qualche breve visita e Sharon
Petrini le aveva chiesto un paio di volte di andare al cinema con lei, ma
Sandra confessò al marito di non trovarsi a proprio agio con lei. Sharon era una donna molto pratica e un pò arida con cui si poteva
parlare solo di cose concrete e quotidiane:
– Per un pò va bene, ma non posso parlare sempre
dei prezzi dei detersivi o delle riparazioni alla casa! Con i nostri amici di
Firenze si spaziava su tutti gli argomenti, si parlava
di soldi, certo, ma anche di filosofia, politica, arte, di risolvere i problemi
del mondo! Qui ci son tre argomenti soltanto, soldi, soldi e soldi! Non hanno
un briciolo di umorismo fra tutti loro, canadesi e
italiani, son noiosi, tetri! Da sentirsi soffocare! –
Piano piano aveva perduto interesse a finire di
arredare l’appartamento e non si curava più di andare in cerca di qualche
mobiletto o altri accessori. Si limitava a fare le faccende
indispensabili e spesso aveva degli scontri abbastanza violenti con la
portiera O’Connell che protestava per l’odore di cibo e salse che
dall’appartamento si spandeva per l’edificio.
– Mi fa ammattire, quella! – si lamentava con
Fabrizio – Mi suona alla porta e comincia la solita
tiritera, che io faccio troppi cibi grassi, figurati! Che
si sente puzzo d’aglio e di fritto dappertutto, si capisce, qui la gente vive
di scatolette come i cani! Poi se la prende con me perchè sciupo il pavimento
camminandoci con le scarpe, secondo lei dovrei andare
scalza! E poi, pensa, si mette ad ascoltare dietro la
porta se passo o no l’aspirapolvere, insomma non ne posso piú, è una strega!
Fabrizio, oppresso dai propri pensieri, cercava di
calmarla. Da quando aveva dovuto lasciare il lavoro alla ATCO,
che era stato solo una assunzione temporanea per sostituire un operaio
ammalato, aveva cominciato a lavorare al Fairmont Palliser Hotel come
aiuto-cameriere, caricando i piatti sporchi sui carrelli e spingendoli su e giù
dalla sala alla cucina. Quando tornava a casa correva a farsi la doccia e a
cambiarsi, per togliersi l’odore grasso di cibo e di fumo che restava
appiccicato ai panni e alla pelle; né era riuscito a ritrovare lo spirito di
solidarietà e l’allegria dei compagni della ATCO.
All’Hotel, i camerieri e gli aiuti si preoccupavano di difendere la propria
posizione, erano gelosi l’uno dell’altro e dei nuovi venuti, e brontolavano
continuamente perché alla fine della giornata dovevano cedere una percentuale
delle mance ricevute al Maitre d’, che era un bergamasco di nome Marangoni,
emigrato da più di vent’anni, un tipo che aveva fatto carriera cominciando
dalla gavetta e non ammetteva alcun errore o storditaggine da parte dei
subordinati. Fabrizio non vedeva l’ora che il suo turno finisse
per tornare a casa, ed il Marangoni non si capacitava:
– Ma come, Fabrizio, ti
sto facendo fare più ore di straordinario a te che sei l’ultimo venuto che non
a gente che è qui da dieci anni e tu ci sputi sopra? Non sai che la gente si
scannerebbe, qui, per fare lo straordinario? Sei un bell’ingrato, uno
scansafatiche! Eppure ci avresti la stoffa per diventare Maitre d’se ti mettessi a lavorare sul serio!
Il
lunedì era turno di riposo per Fabrizio, che lavorava al ristorante dalle
undici del mattino fino alle undici di sera e qualche volta fino a mezzanotte.
Il Palliser Hotel era un albergo lussuoso nel centro città, nel cuore della
bella 9th Avenue South West, ed il lavoro era intenso. Specialmente
dal giovedì sera fino alla domenica il ritmo diventava
frenetico; i clienti affluivano per l’aperitivo nella accogliente lounge, godendo la sensazione di
piacevole intimità offerta dalle luci soffuse e ascoltando il pianista che
sgranava melodie, prima di avviarsi a consumare la cena nella bella sala
illuminata dai candelieri di cristallo. Erano uomini d'affari, avvocati e
medici di grido, accompagnati da donne con pettinature imperiali rigide di
lacca, vestite con barocca eleganza e la sala era tutta un sussurio di educate conversazioni, mai una risataccia sguaiata o voci
importune. I camerieri e i sommeliers scivolavano attorno
lievi come ectoplasmi, colmando bicchieri e togliendo i piatti vuoti con
grazia e soave dignità.
–
Idiota! Che fai, dormi in piedi? Non vedi che ti sta
cascando una tazza sul tappeto?
– E
muovi quel culo, stronzo! È un'ora che ti faccio cenno di portare il
carrello! Dalla cucina son pronti per le insalate!!
Sotto pressione, correndo dalla cucina alla sala con le liste di ordinazioni ed i vassoi carichi, i camerieri se la prendevano con gli aiuto-camerieri, mentre in cucina gli chefs e i sous-chefs rimbrottavano gli aiuto-cuochi, gli sguatteri e tutti gli altri. Quel sabato sera poi, in pieno dicembre, con l’eccitazione delle festività imminenti palpabile nell’aria, il ristorante era stipato di clienti e quelli che si erano avventurati senza prenotazione stavano in fila implorando per un tavolo. La serata era stata particolarmente agitata perché Alex Lanthier, lo Chef, il Grande Capo in persona, aveva subito l'insulto di vedersi rimandare indietro la torta “Palliser Dream” da un cliente scontento e aveva dato la colpa alla pasticcera Winnie Zhang. La disputa era dilagata come un incendio nella prateria e alla fine aveva coinvolto anche il Maitre d' Marangoni e la sua squadra di inetti che a detta di Lanthier non eran degni nemmeno di far gli sguatteri in una osteria.
Più tardi, sfollati i clienti e finito di sovrintendere alle pulizie, Marangoni aveva cercato conforto sfogandosi con Fabrizio, per il quale aveva in fondo simpatia, al punto che l’aveva promosso caposquadra degli aiuto-camerieri e così, scambiandosi sigarette e commenti, era passata la mezzanotte quando finalmente Marangoni aveva dichiarato che era l’ora di chiuder baracca e in un impeto di generosità gli aveva detto di prendersi la domenica libera, per questa volta, invece del lunedí. Fabrizio si sfilò la giacca dell'uniforme con un sospiro di sollievo. Durante il giorno cercava di non pensare, pulire i tavoli e basta per arrivare finalmente al momento di timbrare il cartellino e uscire, ma spesso mentre guidava per tornare a casa ripensava al suo lavoro di geologo, agli spazi aperti ed alla sensazione di euforia che ne provava. Aveva voglia di parlarne, di sentirsi ancora parte del “giro”, ma erano mesi che non aveva più contatti con il gruppo dei colleghi, loro non si facevano vivi e lui non li chiamava perché adesso che faceva il facchino non potevano più considerarlo uno dei loro. Scrollò le spalle, e cercò di pensare a come organizzare la domenica di libertà per distrarre Sandra e portarla a fare una gita, ma quando aprì la porta dell’appartamento sentì subito che qualcosa non andava.
Da un paio di giorni un malessere sordo, un artigliare di crampi
improvvisi, le notti insonni nonostante le pastiglie di Midol. Sandra si illudeva che
sarebbe passato e non diceva niente, ma il Midol
non bastava più e allora dovette telefonare a Fabrizio che le portasse
qualcosa di più forte, rassicurandolo che non era niente. Gli spasmi laceravano
il ventre, non davano tregua neppure a rifugiarsi sul letto, a raggomitolarsi
come un animaletto spaurito, trapassavano e frugavano dappertutto e non c’era
difesa.
Quanto tempo ci mette, quando tornerà?
Fabrizio
rientrò dal lavoro con i sacchi delle provviste che depositò in cucina
chiamandola:
–Ti ho
portato le tue pillole! – ma come la vide si sentì
freddo di spavento:
– Tu
stai male! Che hai, che ti succede?
La
scuoteva per farla parlare, poi di colpo scostò il lenzuolo e sotto si snodava
lento un piccolo rivolo di sangue denso e scuro. Allora afferrò una borsa e ci buttò di furia
lo spazzolino da denti e qualche indumento, la sollevò fra le
braccia incurante delle suppliche di lei che terrorizzata non voleva
andare in ospedale. La corsa in macchina fu breve e all’ospedale si sbrigarono
in poche ore. “A miscarriage, un
aborto spontaneo, proprio nel primissimo stadio. ” disse il medico giovane e cortese, scrivendo una ricetta per
Sandra, poi aggiunse che tutto era a posto e non c’era niente di cui
preoccuparsi.
Nelle settimane che seguirono non parlarono di quanto era successo. Tutto era stato così improvviso e inaspettato che Sandra non si era resa conto che il suo malessere non era dovuto solo a un ritardo. Almeno in superficie, Sandra sembrava accettare l'accaduto con una razionalità ed una freddezza che sorpresero Fabrizio; era andata così, non potevano farci niente e forse era stato meglio, sarebbero arrivati tempi migliori per avere bambini, gli aveva detto una volta e Fabrizio capì che parlarne ancora l’avrebbe soltanto ferita di piú.
* *
*
La neve qua e là cominciava a sciogliersi a chiazze nel sole di marzo. La primavera del 1972 era in arrivo, ma bastava una corrente di aria fredda dal nord per incupire il cielo e far scatenare un’ennesima tempesta di neve.
– Il
gelo non finisce mai. − disse
tristemente Sandra guardando fuori dalla finestra.
– Non è
poi così freddo, oggi c’è lo Chinook, il vento caldo,
potremmo fare una gita, un giro in macchina. – rispose Fabrizio.
– Non mi va di uscire.
– Ecco,
me lo aspettavo. Non ti sembra di esagerare? Non siamo mica al Polo Nord
dopotutto, oggi c’è un sole che è una meraviglia e un pò d’aria pura ti farebbe
meglio che restare chiusa in casa.
– Non
mi va di uscire! Non voglio andare da nessuna parte. Non ne posso
più di questo paese, non ne posso più di questa vita! È
più di un anno che siamo qui e cosa ci abbiamo
ricavato? Solo problemi! Stiamo
sprecando la nostra vita e basta.
– Non
sarà sempre così, ci vuole tempo, lo sai. Vedrai che
le cose cambieranno quando tornerò a lavorare nel mio settore.
– Sì, e
quando? Per due o tre mesi d’estate e poi di nuovo a fare il cameriere? Non
abbiamo traversato mezzo mondo per venire a lavare i piatti in Canada!
Con uno
scatto improvviso Fabrizio mandò le tazze e quanto c’era sul tavolo della
colazione a infrangersi contro la parete; la scatola
dei Kellogg's volò per aria spargendo
il suo contenuto per tutta la cucina.
– Tu
non hai fiducia in me! E allora, se pensi che io sia
un fallito perché non te ne vai? Perché non torni dai
tuoi cari amici a Firenze e mi lasci finalmente respirare? – e uscì sbattendo la
porta.
Già
sulle scale si pentì della scenata ma immaginando che sarebbe stato inutile
tentare di scusarsi ora che Sandra era troppo furibonda per
ascoltarlo, si mise a fumare fuori appoggiato al portone. Il vecchio
Payne, uno degli inquilini, che era seduto su uno dei
gradini con una bottiglia di whisky nascosta in un sacchetto di carta, lo vide
e lo salutò:
– Ehi,
come va la vita?
– A
meraviglia!
– Non
si direbbe. Ti è capitato qualche problema?
– I
problemi ci sono sempre.
– E tu bevici sopra!
Prenditi una bella sbronza e passa tutto. Ne vuoi? – e
ammiccò alla bottiglia strizzando l’occhio. Fabrizio scosse la testa e lasciò
Payne a scolarsi il suo whisky. Prese la macchina e fece un lungo giro fuori
città. Guidare gli era sempre piaciuto, da ragazzo, a diciott’anni,
aveva comprato una vecchissima “Topolino” e le aveva riaggiustato il motore
“truccandolo” e sentendosi un Manuel Fangio o uno Sterling Moss, finché suo
padre, che non tollerava distrazioni allo studio né spese inutili, lo aveva
costretto a disfarsene.
Si fermò per un poco al parco sul Bow River a guardare la gente, i bambini
che si divertivano a tirare gli stecchi per far correre i cani, poi prese un
caffè in un piccolo coffee shop pieno
di ragazzi che ridevano e discutevano se andare al cinema o al bowling. Pensò di prendere un regalino
per Sandra, dei cioccolatini, una cosa qualsiasi, ma si era
ormai fatta sera e uno dopo l’altro i negozi e i caffè stavano già
chiudendo i battenti.
* * *
Nell’oscurità
della stanza filtra appena una lama di luce lattea diffusa dai lampioni della
strada ed a tratti giunge il rumore soffocato di qualche auto di passaggio. Lui
la guarda dormire, girata sul fianco respirando calma. Le scosta i capelli dal
viso, ne accarezza una lunga ciocca facendola scorrere
tra le dita; sa che sulla tempia, sotto la pelle, le trasparisce una vena
azzurrina, come ai bambini, sa a memoria i contorni del suo corpo, le sfumature
ed il calore della pelle, ne respira l’odore. Non riesce a dormire ed ha voglia
di fumare. Attento a non svegliarla sguscia dal letto, è in salotto e guarda fuori dalla finestra la strada deserta illuminata a
intervalli dai lampioni; accende il televisore e cerca di interessarsi al film
notturno, sul canale 14 danno Vanishing Point,
ma la storia è complicata e dopo un pò diventa soltanto un susseguirsi di
immagini vuote, mentre i suoi pensieri sono altrove. Si accende un’altra
sigaretta cercando di riflettere: prendere una decisione è come leggere una
mappa quando si cercano formazioni geologiche interessanti: si cerca di capire
dalle indicazioni che dà se in profondità possa esserci il petrolio, bisogna
valutare tutti gli elementi per poter procedere con una certa sicurezza, solo
che la vita non è una mappa geologica e le cose non sono così semplici e io
sono responsabile anche per Sandra, e lo so che lei non è serena e ha paura, ha
paura che restiamo qui infognati senza poter realizzare i nostri sogni e che io
rimanga a fare lo sguattero o il carpentiere che poi non lo so
neanche fare bene, il che sarebbe una beffa veramente atroce, e qualche volta
anche a me vengono i dubbi, ma ormai la stupidaggine di venir qui l’ho fatta e bisogna che insisto, qualcosa
prima o poi deve venir fuori, solo quando vedo Sandra così diversa e lontana, così sperduta, non so cosa
fare, e certo non glielo posso dire che anche io ho paura, non della faccenda
del lavoro, ché quella si risolve, ma di perderla…allora mi vien voglia di dire
piantiamo tutto e torniamo a casa, torniamo in Italia, e al diavolo la
geologia, esistono anche altri lavori, lavori che ti fanno tornare a casa la
sera e non ti devi sbattere su per deserti e montagne.….
Fabrizio
accartoccia il pacchetto di sigarette ormai vuoto, il film è finito e non se ne è nemmeno accorto, sullo schermo si inseguono immagini
lattescenti che lui cancella girando la manopola. Una sensazione riaffiora da
un passato lontanissimo, un bisogno d’aria, di luce, torna bambino di cinque
anni giù nel rifugio insieme a contadini e donne spaventate, alla mamma che
cerca di calmare Massimuccio, il suo fratellino che non la smette di frignare.
Quella mattina d'agosto 1944 erano partiti in bicicletta da Savignano per
comprare le uova ad una fattoria, stavan contrattando con la fattoressa quando si eran levati spari e crepitio di mitragliatrici, urla e
strepiti di gente che correva a nascondersi nella tana rifugio scavata nel
terreno per sfuggire il pericolo della battaglia. Una pattuglia di tedeschi si
era appostata dietro il fienile della fattoria per un’ultima disperata
resistenza contro un plotone di Alleati che
avanzavano. I tedeschi, saranno stati una diecina, si
difendevano come forsennati, inventando trucchi, legando le mitragliatrici alle
zampe dei conigli e facendo correre gli animali terrorizzati così da far sgranare
il rosario di proiettili e confondere il nemico con quel crepitio di spari da
tutte le direzioni, c’erano voluti quasi due giorni per sopraffarli ma alla
fine c’era stato solo silenzio. Giù nel rifugio, un cunicolo stretto e buio
sottoterra, con la volta sorretta da pali, c’era buio, umido, odore di
terriccio e di muffa, di corpi e fiati sudati, e lui aveva fame, voleva luce e
aria e da sopra non si sentiva più nulla, né urla né spari, così all’improvviso
si era svincolato dalla mamma ed era corso ad arrampicarsi verso la presa
d’aria del cunicolo, mio dio ero così piccolo che
passavo attraverso un’apertura del genere? Fuori c’era un sole chiaro, il verde
brillante degli alberi di primavera, la vita intatta e gloriosa che continuava
e c’era anche il cadavere di un soldato tedesco, caduto proprio vicino
all’ingresso della cantina rifugio, a gambe larghe, con con
gli occhi sbarrati e gli intestini nerastri che sbuzzavano dall’uniforme
insanguinata, coperto di mosche e formiche. Il sangue raggrumato aveva formato
una pozza scura che la terra riarsa aveva ingoiato ed il fetore prendeva alla
gola, ma il bambino, affascinato dal morto, gli girava intorno come fosse stato un giocattolo alla fiera. Finalmente vide il
tascapane del soldato, qualche metro più in là e pieno di speranza corse ad aprirlo ma dentro c’era solo un pezzo di galletta
secca, mezza muffita e lui l’addentò avidamente, strangolandosi, prima di
ricordarsi della mamma e del fratellino affamati giù di sotto nel rifugio.
Allora corse a tuffarsi di nuovo nello stretto cunicolo di terra per portar
loro il suo tesoro…. Ma perché penso a queste cose,
ora? Che c'entra? Ho ben altri problemi adesso, è su
questi che devo concentrarmi, trovare una soluzione…..
Fabrizio
spalanca la finestra e aspira l’aria a pieni polmoni, l’aria secca, fredda e
pura di quella città a lui straniera, una città di prateria vergine di memorie
che lo aiuta a cancellare quel ricordo inopportuno.
Guarda fuori nel buio della notte la strada vuota dove arriva solo l’eco di
qualche automobile che passa, a distanza, sulla 43ma Avenue. L’orologio segna
le 3:45 di notte e lui si sente di colpo stanchissimo;
nella camera la forma di lei si disegna sotto la coperta, la raggiunge a
tentoni, si stende sul letto cercando nel calore del suo corpo la dolcezza
consolatoria del sonno.
1 ottobre 2006
LETTERATURA CANADESE E ALTRE CULTURE