L’Aurora
di Lillian
Conti
(segue
l’originale inglese)
È un’ altra
di quelle mattinate di giovedì.
Il sole di maggio, splendido e caldo, mi sveglia. Munita della mia Bibbia,
di una candela bianca, di una caraffa di vino rosso e di una pagnotta di pane
non lievitato, il tutto in un cestino, vado verso la casa di ritiro Pine Grove Lodge. I piedi mi pesano
come il piombo, il cuore mi batte forte, e sulla fronte si formano gocce di sudore
freddo.
Questo giovedì, come ogni altro giovedì
da ormai dodici anni, premo il solito codice al solito portone esteriore, ed
entro. Nell’entrare, l’odore pungente del disinfettante
ancora irrita un po’ le mie narici. Però i miei
occhi si dilettano vedendo i magnifici mobili, e i soffici tappeti orientali
lungo il corridoio ammorbidiscono i miei passi. Salita la scala, vedo la solita
pesante porta di ferro grigio, e oggi mi scoraggia. Dico al mio cuore: sta'
quieto. Respira… respira! Niente da fare. Una voce
diabolica mi burla: “Vedrai, oggi ti gettano fuori... Tu
sei soltanto una donna, non sei un prete!”
Ad un tratto mi fermo. Chiarissimi ricordi della
mia infanzia italiana sommergono il mio Spirito. Mi vedo in Calabria, nel verdeggiante
giardino dietro la nostra casa, dove nell’incandescenza del tiepido sole al
tramonto, sono seduta sulle ginocchia di mio padre e gli faccio molte domande.
“Papà, perché le donne non possono essere preti?”
“Ma guarda quante domande, uffa!” Frustrato, alza
le mani al cielo, poi mi solletica e ride scioccamente, come fa di solito quando le mie domane sono molte e intense. Come avrei
osato esprimere questo mio irriverente desiderio! “Cara, farti suora, sì, ma...
un prete mai, lo capisci? È impossibile!”
“Ma papà, il mio cuore
desidera che io mi faccia prete”.
“Vieni, vieni. Andiamo in
piazza. Ti compro un gelato, va bene?” Mi porta in
gelateria, mi compra un gelato, il mio preferito, e sedendoci faccia a faccia,
m’indottrina. Mi parla dei grandi devoti come Sant’Antonio,
Maria Maddalena e ...anche di Sofia Loren, se dovessi decidere una carriera nel cinema.
Ora, lontano da quell'episodio
del gelato, la mia brama fanciullesca di essere prete
la sospiro ancora ad ogni palpito. Ricordo tante oscure notti, quando in cerca
di qualche risveglio spirituale, leggevo Dante, Sant’Agostino
e pure Shakespeare. Ad un tratto, in una di queste notti, nell’oscuro abisso
della mia esistenza, trovai la speranza nelle antiche pagine della mia Bibbia
polverosa. Dalle sue pagine sconosciute, balza la storia di Maria Maddalena. Mi
è piaciuto quando questa discepola, correndo, portò la
buona notizia della resurrezione al gruppo di discepoli radunati ed impauriti,
quando spalancò le porte gridando d’aver visto Gesù! Ho sempre desiderato il
suo coraggio. Ho sempre cercato la sua audacia.
È ancora lo stesso giovedì, quando col paniere in
mano mi trovo ancora davanti alla porta di ferro grigio. Respiro. All’improvviso e con gran coraggio
respiro più a fondo e spalanco anch’io la porta. Ahimè! Da
ormai dodici anni, eccoli i miei studenti anzianotti
che mi accolgono sorridenti e pronti. Sono seduti come al solito, formando un semicerchio di sedie, camminatori e
sedie a rotelle.
“Eccola! È Liliana. Ti aspettavamo!”
Oggi, vedendoli sorridenti, ricordo con chiarezza
la mia prima visita, come se fosse incisa nel mio cuore per l’eternità. Era una
giornata rigida e nevosa di febbraio. Ero ansiosa. Aprendo la porta di ferro
grigio mi tremavano le ginocchia, e il cuore mi batteva
veloce. Sorridevo, ma le labbra mi tremavano. Parlavo, ma le parole non
uscivano. Vedevo le loro mani rugose, i loro corpi
contorti…e sentivo un odore… in verità una puzza. Ma,
con un furtivo sguardo intorno, guardai i miei futuri allievi di scuola Biblica
e il mio cuore si ammorbidì. Vedevo solo
le loro boccucce aperte come di uccellini pronti a
ricevere una mollica di pane.
Quel giorno, incontrando tanti vecchietti, la mia
mente si fece confusa. Cercavo disperatamente di nascondere le lacrime. Loro mi
guardavano dolcemente, ma il mio cuore piangeva. “Cosa fare,
animo mio? Perché, mio Signore, mi hai portata qui?
Questi potrebbero essere i miei nonni, i miei
genitori, o persino me, fra poco. O mio Iddio! Non mi
hai comandato tu? Non mi hai detto... … ‘ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da
bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui in prigione e
veniste a trovarmi’” (Matteo 25, 35 - 36).
All’improvviso una voce sottile e debole mormorò.
“Come ti chiami?”
“Mi chiamo Liliana.”
“Vedi come siamo combinati, qui dentro. Solo la
preghiera ci salva!” continuò, alzando le mani al
cielo in segno di protesta. “Avvicinati”, respirò pesantemente e con fatica.
Pian piano mi avvicinai e osai anche chiedere il
suo nome. Giuseppe, se pure vecchio, era alto e ancora bello. Nel suo viso
limpido e pallido brillavano occhi teneri e lucenti. Seduto su una sedia a
rotelle, di tanto in tanto usava l’ossigeno.
Vicino a Giuseppe era seduta una donna. Sul braccialetto
notai il nome: Elisabetta. A un tratto gridò.
“Chiamate mio figlio… Devo andare a casa! Ci sono le
faccende da fare.”
La signora Elisabetta soffriva di distrofia muscolare. Con
la voce flebile stentava a parlare. Come il tempo impietoso aveva ormai
riempito di rughe la sua fronte! Ma pur storti, i suoi
occhi splendevano dell’antica bellezza. E il suo
Spirito era giovane.
In tutte le altre visite seguenti, Elisabetta
rimaneva indietro per chiedere una preghiera. Voleva sapere se ci sarebbe stato
un posto in cielo per lei, e se avrebbe visto Gesù. Le assicurai che chiunque ascolta la voce del Signore Lo vedrà. Questa garanzia aveva
placato la sua anima, e con occhi scintillanti pieni di rinnovata speranza mi
aveva baciato la mano…ecco!
Settimana dopo settimana, abbracciandomi stretta stretta, Elisabetta mi regalava
un grosso bacio sulla guancia. E io, a poco a poco, …
ricambiai il suo affetto con un simile bacio e con carezze. Arrivai a capire le
sue parole strozzate e ogni tanto le pulivo la saliva che colava. E lei continuava a baciarmi la mano! La prima volta avevo
ritirato la mano obiettando, ma lo Spirito aveva gridato. ‘No! Quel gesto di rispetto è la sua offerta d’amore’. Che gioia divenne per me Elisabetta. La sua mente vivace
ricordava facilmente non solo le poesie di Pascoli ma anche le preghiere imparate
sulle ginocchia di sua madre. Non solo cantava gioiosamente i vecchi inni sacri
italiani, ma spingeva gli altri a partecipare, e tutti cantavano. “Oh che
giorno beato…il ciel ci ha dato…” ecc. ecc..
Quel primo giorno, dopo che Elisabetta si era
ricomposta, tentai di leggere al gruppo la storia di Zaccheo. Volevo far
loro vedere come questo esattore delle tasse,
imbroglione e impostore, aveva cambiato in suo arido cuore accettando Gesù
nella sua casa. Potente questa storia!
Però, ancora appollaiati nei loro posti, gli anziani
mi fissavano. Volevano dire il rosario, tanto che portavano la corona come una
collanina. Non c’era speranza! Camminavo su un terreno pericoloso. Forse non
erano pronti ad ascoltare la parola di Dio. Volevo
arrendermi, tanto che, leggendo la storia di Zaccheo, progettavo la mia
fuga.
All’improvviso avevo chiuso la Bibbia e senza
farmi accorgere l’avevo messa nella borsa. Cantammo in fretta un inno e
stringendo loro la mano meglio che potevo, inciampando
sopra piedi e bastoni, mi ero messa il cappotto e in fretta e furia ero
arrivata alla porta di ferro grigio. Stavo per aprirla quando
con grande tenerezza la mano di Giuseppe mi aveva afferrato... fermando la mia
fuga. Con i suoi occhi seri mi aveva guardato fissamente e mi aveva baciato la
mano. Mi aveva baciato la mano! Ci scambiammo brevi sorrisi e con uno
scintillare di occhi in fretta avevo sceso le scale,
correndo verso la macchina, giurando di non
ritornare mai più in quel pandemonio.
E il giovedì seguente, ai primi raggi dell’aurora,
piangevo, piangevo... decisa a non ritornarci. Stupita e risoluta mi trovo,
oggi ancora, davanti alla porta di ferro grigio. A
ogni visita l’odore pungente del disinfettante si fa meno forte. I miei
studenti anzianotti sorridono e continuano a baciarmi la mano... eh, mi baciano la mano. E un po’ alla
volta io ascolto le strazianti storie della loro gioventù.
Negli occhi di qualcuno dei vecchietti si legge
una grande nostalgia. Raccontano del
loro distacco, lo strazio nel lasciare i loro cari, i campi, le processioni, e
il folclore dei loro bei paesi... Nei loro cuori nascondono grandi
tesori: preghiere, canzoni religiose, poesie, tanta sapienza e tanto amore!
Ormai, volergli bene è facile.
Col passare del tempo, come se fossi una figlia,
fanno tante domande... Bene! “Chi è Iddio? Dov’è Iddio? Quando viene Gesù a prendermi? Tu pensi che andrò in paradiso
quando muoio?”
Giuseppe recita spesso il rosario, ma da tanto notavo che nascondeva nella tasca della camicia una copia
del Salmo 23, distribuita al gruppo tempo fa.
“Questo Salmo 23 lo
recito ogni sera. È una bellissima preghiera”. E poi
con gran piacere, pur senza fiato, recitava altri brani della Scrittura
citando: “Ma per voi che temete il mio nome sorgerà il sole della giustizia con
la guarigione nelle sue ali, e voi uscirete e salterete come vitelli dalla
stalla.” (Malachia 4, 2).
“Fra poco saremo anche noi così liberi.”
Esclamava Giuseppe, mettendo anche questo versetto nella tasca, come se volesse
seppellirlo nel suo cuore.
Oggi è quel giovedì di maggio in cui sono venuta
portando il paniere. I miei vecchietti sorridono come i raggi del sole di
maggio.
‘Metti giù il paniere’, mi
avverte lo Spirito.
“Che ci racconti oggi?”,
chiede Giuseppe con un sorriso debolissimo.
“ Oggi facciamo la Santa Comunione.” Ecco, l’avevo
detto apertamente, davanti a tutti.
“Bello. Viene il prete?”,
chiede Giuseppe
Aspettavano il prete! Ma
tra un palpito di cuore e un sospiro, mi do da fare per stendere una tovaglia
di lino bianco su un piccolo tavolo lì vicino. Mentre
sistemo il pane, la caraffa di vino rosso, e accendo la candela bianca, tra i
raggi del sole vedo una strana malinconia negli occhi di Giuseppe. Mi fa segno
di avvicinarmi. Mi prende la mano. Sento
diminuire il vigore della sua mano che è ormai fredda di sudore.
“Ti volevo chiedere di che religione sei, ma ormai
non fa niente. Prega per me. Solo
Gesù ci salva. Mi è sempre piaciuto quello che dici. Vieni sempre.”
“Sì, verrò sempre…” E mi bacia la mano.
Un’aureola scende sulla nostra celebrazione. Con grande riverenza, in una mano prendiamo il vino in un
bicchierino di carta, e in un’ altra mano teniamo il pane.
“Gesù disse: Prendete e mangiatene tutti, questo è
il mio corpo.’ ” (Matteo 26, 26)
Da qualche posto segreto, dal profondo del mio
cuore, uscivano facilmente le parole come spinte da
una forza soprannaturale. E hanno mangiato il pane. E io ho continuato!
“Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede
loro, dicendo: “ Bevetene tutti, perché questo è il
mio sangue del patto, il quale è sparso per molti per
il perdono dei peccati. ” (Matteo 26:27-28). E hanno bevuto il vino.
Che cosa strana! Sembra un film. Giuseppe versa il
vino nel palmo della mano e ne beve. Con
stupore osservo come lui in modo solenne, strofina le
ultime gocce di vino sulla faccia e sul collo e sulle braccia.
“Liliana… vieni, vieni,”
implora pian piano. Con la mano ancora
umida di vino, mi afferra la mano e confessa: “Gesù mi aspetta…Hai visto quello
che ho fatto… col vino. Il sangue di Gesù mi copre…e mi perdona tutto. Grazie,
Gesù!”
E così, il corpo di Giuseppe diventa fiacco, ma con
gli occhi fissi ai raggi del sole sospira le sue ultime parole.
“Liliana... vedi. L’ aurora è arrivata, per me. La vedi ?”
“Sì, la vedo. Andate Giuseppe, andate.” Mi tiene la mano stretta stretta
, e poi con un piccolo respiro chiude gli occhi nella camera dalla porta di
ferro grigio. La signora Elisabetta grida: “È morto?” Poi gli dà un bacio in
fronte e aggiunge: “Va be’... ci vediamo presto.”
Con questo, Elisabetta scambia le sue condoglianze
per un inno. Gli anziani, con una risonanza angelica, iniziano
a cantare al meglio Panis angelicus.
Mentre il coro canta, la mano di Giuseppe riposa nella
mia. Sconsolati, e con reverenza, tutti accompagniamo
Giuseppe nella sua camera. Lo sistemiamo sul letto e io gli bacio la mano. La fragranza
del vino è ancora forte sulla sua mano. Noto che nascondeva ancora nella tasca
della camicia il versetto della libertà. (Malachia
4,2).
E così, libera dalla voce diabolica che prima mi
burlava, prendo Bibbia, candela e caraffa, apro la pesante porta, corro giù ed
esco all’aperto. Guardo verso il cielo. Il sole di maggio si era nascosto
dietro due piccole nuvole. A un tratto, da gesto
celeste, una pioggerella mi carezza la fronte. Poi le nuvole si aprono. Giuro
che, attraverso la foschia, mi appare sorridente la giovane e vigorosa faccia
di Giuseppe.
E, per nascondere le lacrime, canto... Oh che
giorno beato... il ciel ci ha dato!
*****
Lillian Conti è immigrata in Canada nel 1959. Ha frequentato il Teachers College, l’Università di Toronto e quella di York.
Ha suonato il violino nella Youth Orchestra e suoi
dipinti sono stati esposti in diverse mostre. È insegnante e madre di cinque
figli. Ha ottenuto un diploma in teologia presso la Tyndale
University-Seminary ed è Pastore. Attualmente
insegna teologia e arte; è anche “motivational
speaker” e scrittrice. I racconti e le poesie del suo libro The Two Hearts Of My House, I due cuori
di casa mia, catturano l’essenza della sua spiritualità e della sua origine italiana.
Dawn
by Lillian Conti
It’s Thursday morning
again!
The warm, radiant May
sun wakes me. Armed with my Bible, a white candle, a carafe of red wine, and a
loaf of unleavened bread, all in a basket, I march towards Pine Grove
Retirement Home. My feet feel like lead, my heart pounds, and cold sweat-beads
cluster on my forehead.
This Thursday, as all
other Thursdays, for the last twelve years, I press the code for the front
entrance. The pungent odour of disinfectant still
irritates my nostrils a little, but the majestic Florentine-style armoires
delight my eyes. The plush rugs lining the hallway soften my ascent to the top
of the stairs. Once there, the grey steel door appears daunting. Hush my heart.
Breathe. Breathe! In my head, I hear a jeering voice. “Today they will throw
you out. You’ll see. You are only a woman! You are no priest.”
There, I pause for a
moment. Vivid memories of my Italian childhood flood my Spirit. I see the verdant
garden behind our house where under the warm glow of the setting sun, I sit on
my father’s lap and ask many questions.
“Papà, why can’
t women be priests?”
“Ma guarda quante domande, uffa!” He throws his arms up
in frustration, tickles my tummy, and giggles as he often would when my
questions were too many and too intense.
“Cara, farti suora, sì, ma … un prete mai, lo
capisci?”
“Girls can become
nuns,” he asserts piously, “but a priest, impossible, never, you hear?”
How dare I utter my
blasphemous and irreverent desire!
“But Papà, my heart
tells me to become a priest!”
“Vieni, vieni.
Andiamo in piazza. Ti compro un gelato, va bene.” He snatches me away to
our favourite gelateria, the ice-cream parlour,
and sitting eye to eye, he indoctrinates me on religious protocol. He tells me
about Saint Anthony, Mary Magdalene, and even Sofia Loren, in case I were to consider an acting career.
Far from that ice cream-eating
episode, my childhood yearning of being a priest lingered for many years . . .
in my every breath. During sleepless nights I read Plato, Dante,
After the reminiscing,
I see myself still holding tight to my basket. I am still at the grey steel
door at the top of the stairs. I whoosh out a deep breath. Suddenly,
audaciously, I thrust the door wide open. Behold, there they are, my elderly
Bible students, smiling and waving. For the past twelve years, a semicircle of
the same chairs, the same canes, the same walkers and the same wheelchairs have
been my welcoming committee.
“Eccola! Sei qua
Liliana. Ti aspettavamo!”
“Here you are. We were
waiting for you.”
Today, as I greet
them, I recall my very first visit, as if it were etched in my heart forever.
It was a snow-whirling, frigid day that only February can deliver. I was
anxious. I walked past the grey steel door, yet my knees wobbled. I trembled with fear. I smiled but my
lips quivered. I spoke but my words faltered. I saw their wrinkled hands, their
twisted bodies . . . their drools . . . and I smelled a stench. My heart boomed
in my chest, but as I sneaked a furtive look at my prospective Bible students,
my heart softened. I saw how their mouths had dropped open, much like baby
birds waiting for a morsel of bread.
Meeting so many old people that
day blurred my mind. My heart desperately searched for what to do. As much as I
tried not to cry, tears streamed down my cheeks and I did nothing to stop them.
Just then, my spirit retaliated. “Why my God,
why have you brought me here?” But then I thought to myself, “You weakling,
look around. These old people could be your grandparents, your parents, or even
you, in a little while. God forbid!” And in all of this I recalled verse
thirty-six, from chapter twenty-five of the book of Matthew, which said, “I
needed clothes and you clothed me, I was sick and you looked after me, I was in
prison and you came to visit me.”
Suddenly, and not a second too
soon, I heard a feeble and gentle voice coming from the far corner. “Come ti chiami?”
“My
name is Lillian.”
“Vedi come siamo combinati qua dentro. Solo la preghiera
vale per noi.” The old man’s
hands, entwined with the rosary, motioned in protest, saying, “See how we have
become. Prayer is our only hope.”
Reluctantly, I commanded my lead
feet to carry me closer to him. He told me his name . . . Giuseppe. In his old
age he was still handsome, tall, yet visibly cramped in his wheelchair. His
breathing was heavy and arduous. Nearby, a small tank filtered a steady supply
of oxygen to his lungs. His eyes shone with a wonderful tenderness, but his
face had a translucent pallor to it.
Next to Giuseppe sat a woman. On
her bracelet I saw that her name was Elisabetta.
Without any warning, she cried out. “Chiamate mio figlio. Devo andare a casa!” she
insisted. “Call my son and he’ ll
take me home.”
Elisabetta had muscular dystrophy and it was
difficult for her to speak, to free her words. Time, merciless and cold, had
furrowed Elisabetta’ s brow, crinkled her skin, feebled
her voice, and immobilized her body, but time had failed to quench her spirit.
On consequent visits, Elisabetta would stay behind asking for prayer. Once she
asked if she would go to heaven when she died, to see her Jesus. I assured her
of one thing, that those who hear Jesus’ voice will see him. My guarantee
seemed to appease her gentle searching spirit, and with
a fresh twinkle in her eyes, she kissed my hand. And that was that!
Week after week, when Elisabetta entered the room, she would embrace me so
tightly and plant a big wet kiss right on my face. I grew to caress her silvery
grey head even when it bobbed and shook. I grew to understand her words
clearly. I grew to wipe her drools. I grew even to love kissing her face, and
she would kiss my hand. When she first kissed my hand, I objected by pulling it
away, but my spirit uttered an emphatic—no! That reverent gesture was indeed
her love offering.
Her vivid poetic mind would not
only recall poems written by Pascoli, but also
prayers learned at her mother’s knees. Unabashedly she rejoiced in my opening
hymns, and animatedly conducted the others to sing the Old Italian hymns of her
youth. “Oh che giorno Beato.” “What a Blessed Day”
Back on that first day, after Elisabetta had settled down, my thumping heart had
difficulty recalling the lesson I had planned for the group. I had prepared the
story of Zacchaeus. How this tiny tax collector, a
cheater and a fraud, had accepted Jesus in his house and had a pivotal change
of heart. How appropriate, I thought. But I could see it wasn’t going well.
Still perched in their seats, and still visibly confused, they just stared at
me.
It was hopeless. I could see they
just wanted to say the rosary—some even wore the beads as necklaces. But I
wanted to read the Bible, not say the rosary, not today. Were they ready to
hear the word of God? This was perilous territory. This was not for me!
While I was still teaching, in my
head I was planning my escape. I brought my lesson on Zacchaeus
to an abrupt end. Struggling with the closing hymn, and while still singing, I
hastily closed my Bible, forcing it unnoticed into my bag. Frantically, I shook
whatever hands of the residents I could while tripping over feet, canes, and
wheelchairs. I slipped on my coat, and in my haste to reach the steel grey
door, the tenderness of Giuseppe’s hand reaching for mine stopped my escape. I
saw his glassy eyes look up at me, and he kissed my hand. Here it was again . .
. the hand-kissing obsession. And in the twinkling of an eye, I smiled at
Giuseppe and I ran through the grey steel door, scuttled down the stairs,
rushed over the carpeted corridors, hastened to my car, vowing never ever to
set foot in that pandemonium again.
At dawn the following Thursday, I
cried rebelliously—I was not going to go back. But later I found myself again
at the grey steel door, and once more I went in.
With each consequent
visit, the pungent odour of disinfectant becomes less
noticeable. The study group continues to greet me with welcoming smiles—and
more hand kisses. I willingly listen to their uninhibited stories about their
youth and their beloved
Now, in a surprisingly
familial way, they ask infinite questions. “Who is God? Where is God? Why
doesn’t Jesus come to get me?” “Do you think I’ll go to heaven when I die?”
They are unstoppable! Still, some hang their rosary beads around their necks,
and they recite Psalms and inspiring fragments of Scripture. Along with all the
others, Giuseppe treasures a framed copy of David’s Psalm 23.
Somewhat breathless
and with a forlorn look in his eyes, Giuseppe declares, “I recite Psalm 23
every night. It’s the most
beautiful prayer you gave to us.” He praises
on and on and continues by reciting this other
scripture, “Ma
per voi che temete il mio nome sorgerà il sole della giustizia con la
guarigione nelle sue ali, e voi uscirete e salterete come vitelli dalla stalla.” “But for you who revere my name, the sun of righteousness
will rise with healing in its wings. And you will go out and
leap like calves released from the stall” (Malachi 4:2).
“Fra poco saremo noi così
liberi.” Giuseppe sighs, lovingly folding the scripture he has just
recited, and, clutching it tightly, secures it in his breast, patting it down,
as if to bury it into his heart.
Today is that day in
May, when I came carrying that basket. The loving faces of my Bible students
mingle with the warmth of the rays filtering though the windowpane. Put the
basket down, warns my spirit.
“Che ci racconti oggi?” “What story are you telling us today?” Giuseppe asks,
smiling, fainter and weaker.
“Today,” I say, acting
cool, calm and collected, “we are having Holy Communion.”
“Bene, bene. Viene il prete?” whimpers Giuseppe. “Which priest is coming?”
The priest . . . what
priest? Between heartbeats and breathing, I hasten to place a white cloth on a
small table nearby. On it, I place the carafe of red wine and the bread. As I
light the candle, I notice a strange melancholy in the glassiness of Giuseppe’s
eyes. He gestures for me to draw nearer. I hear his strained breath. I
feel the diminishing vigour in his handshake, now clammy and cold.
“Ti volevo chiedere di che religione sei, ma
ormai non fà niente.” He says that he often
wondered what religion I followed, but now, after all these years, it doesn’t
much matter.
“Prega per me. Solo Gesù ci
salva. Mi è sempre piaciuto quello che dici. Vieni sempre.” He asks me for prayer
at such a time as this and adds that he always approved of me.
“Sì, verrò sempre.” I pledge I would
always be there, and he kisses my hand.
In reverence, we
continue our celebration. We all hold the wine-filled little pill-cups in one
hand and the bread in the other. The mystical aura of the May sun filtering through
the window joins our celebration.
“‘Gesù disse: Prendete e mangiatene tutti,
questo è il mio corpo.’” “‘Jesus said, take and eat it, this is my body, given up
for you’” (Matthew 26:26). I feel my words gushing
effortlessly from my innermost being. “Let us eat from this unleavened bread,
which signifies for us the body of Christ, broken and free of sin.” And they
eat the bread.
A supernatural
boldness takes hold of me and I continue, speaking in Italian. “‘Jesus said,
drink, because this is my blood, the blood of the everlasting covenant, given
up for you and for the forgiveness of your sins’” (Matthew 26:27-28). And they
drink the wine.
What’s this? Giuseppe
pours the wine onto the curvature of his withered hand and drinks from it. I
watch in amazement as he solemnly rubs the last of the wine over his face, neck
and arms.
“Liliana, vieni, vieni.” “Come, come,” he implores
softly. With his hand still moist from the wine, he seizes mine and
says:“Gesù m’aspetta. Tu hai visto quello che ho fatto . . . col vino. Il
sangue di Gesù m’ha coperto e mi ha perdonato tutto. Grazie, Gesù!” “Jesus waits for me. You saw what I did . . . with the
wine. The Blood of Jesus covered me and He forgave me everything. Thank you,
Jesus,” he confesses quietly.
Without further ado,
Giuseppe’s body falls limp, and with his eyes fixed toward the beams of light,
he utters his last words.
“Liliana, vedi. L’ aurora è
arrivata per me. La vedi, Liliana?” “Look, Lillian, the Light is coming for me. Do you see
it?”
“Yes, I see it, Andate Giuseppe. Go, Giuseppe . . . go . . .”
He squeezes my hand
and latches on. His tired eyelids slowly close in the room behind the grey
steel door.
La signora Elisabetta scuffles
over and bellows: “È
morto?” “Giuseppe is dead.” She kisses his forehead
and promises that she would see him soon. “Eh
. . . a presto Giuse’. . .” Elisabetta’s
mourning breaks into singing, and the others join in her rendition of “Panis Angelicus” and “Oh
che giorno beato!” Reverently, we all escort Giuseppe to his room
and we lay him on his bed. Amidst the angelic resonant voices of my elderly
choir, I kiss Giuseppe’s hand as gently as I can, and the fragrance of wine
still lingering in his palm floods my eyes with tears. Tightly fisted in Giuseppe’ s hand I notice a piece of paper. I struggle to
uncover it. It’s Giuseppe’s treasured scripture:
Malachi 4:2.
Still holding
Giuseppe’s treasured scripture, I quickly gather my Bible, the candle, and the
carafe, and I float . . . out the front door. At last I am free of the hissing
voices that had taunted me all morning. The May sun was by
now hiding behind some clouds. Without warning, a gentle drizzle, like a
paternal gesture, caresses my brow. Suddenly, the heavens open, and I swear
that amidst the fresh sunrays, peering through a patch of clear sky, a young
faced Giuseppe smiles a new vigorous smile just for me.
And to hide my tears,
I sing, “Oh che
giorno beato!”
Lillian Conti immigrated to