Un
pomeriggio a Palazzo Barberini
Darlene Madott
“È
chiuso.”
Ecco come Francesca impara che non c’è
una cosa come “chiuso”, in Italia, nessuna regola che in qualche modo non possa
essere interpretata per eluderla. Se ne sta nei suoi calzoncini cachi, la
morbida blusa bianca, diversa dalla maglietta con bretelle americana per il
casto accenno di manica, drappeggiata modestamente sulle spalle, le gambe nude abbronzate nei calzini corti e scarpe da ginnastica.
Incorona questa gloria una visiera, un berretto simile a
una mezza palla, con i suoi ribelli riccioli scuri che escono da sopra e da
sotto, e il suo zaino, pieno di fogli con le sue ricerche sul periodo dopo Caravaggio.
Il capo
della polizia dice a uno dei suoi di accertare che
cosa vuole “l’americana”, creando
questa confusione ai cancelli?
“Non sono americana, sono
canadese! È ben diverso!”
lei dichiara impetuosamente, trovando non sa dove le parole. Ma
qualcosa in lei, il modo in cui parla, il battere leggero di un piede, un
luccichio di lacrime negli occhi, per tutta la strada che ha fatto, e questo
squadrone di uomini davanti e dietro di lui che
guardano la scena al cancello, deve in qualche modo averlo ammorbidito, perché
il capo della polizia sorride e si avvicina.
Ha fatto
tutta questa strada. Dal Canada, gli spiega parlandogli direttamente,
dall’altra parte del cancello, le mani aggrappate alle sbarre. Sta cercando un
dipinto di Artemisia Gentileschi,
una Cleopatra. È qui, nel Palazzo Barberini. Solo
qui. O almeno il
libro dice così. Quello che il libro non
dice è che il Palazzo è chiuso, per restauri.
“È chiuso.”
“Ma non è
possibile! Io non posso tornare!”.
Il comandante, impietosito, dà l’ordine e il cancello si
apre.
“Non si preoccupi. Le farò vedere una galleria di
dipinti”.
Lui dà un colpetto sul suo berretto a
mezza palla, e lei vede uno sguardo passare tra due soldati in prima fila,
sulla scala che sale, e non è certa che cosa lo sguardo significhi, ma lo
segue, come un cuccioletto.
Lui lascia i suoi uomini sulle scale e la scorta
attraverso il cortile fino alla fresca penombra del Palazzo.
Mentre
attraversano l’ingresso qualcuno si avvicina a passo
rapido, ed ecco apparire un soldato con un vassoio d’argento, con due bicchieri
di prosecco e una bottiglia. La sua scorta ferma il
soldato, domanda bruscamente dove stia andando, confisca i due bicchieri.
Gliene offre uno agilmente. Il soldato, agitato ma impotente, se ne va verso un
destino ignoto ma certamente spiacevole, a giudicare dalla sua confusione.
E così lui apre una galleria con il grosso mazzo di chiavi
che ha alla cintura, e comincia il giro senza affrettarsi. Ma
non c’è il dipinto che lei è venuta a vedere. Fa fatica a nascondere il suo
disappunto; questo non è il dipinto di Artemisia. Quando la porterà a vederlo? “Pazienza,”
dice lui, sempre con un sorrisetto sulle labbra. Le mostra invece il Ratto
di Lucrezia, e una scena di seduzione dopo l’altra, e si ferma davanti a
ciascuna, spiegando l’opera d’arte non come uno storico dell’arte ma come un voyeur, come farebbe un ruffiano,
pensando di calmare questa americana, ostinandosi su una cosa o su un’altra. La
sta gratificando, e anche lei, si rende conto, sta gratificando lui.
Il piccolo ascensore è come una gabbia
dorata. Soltanto quando lui chiude la seconda porta ornamentale e cominciano a
salire, lei si sente presa dal panico per quello che capisce all’improvviso.
Senza sospettarlo è caduta nella trappola. Senza parole, i
suoi occhi incontrano quelli di lui, che deve leggere il timore nei suoi.
Lei lo vede leggermente imbarazzato, prima che distolga lo sguardo.
Qualche secondo più tardi arrivano, lui apre la serie di gabbie e la invita a uscire
con un gesto ampolloso. La guida verso una terrazza ombreggiata da alberi, e la
fa sedere a un tavolo bianco di ferro lavorato. Sono
molto in alto e protetti dai suoni attenuati di Roma.
Lei siede e si guarda intorno in un giardino cintato in modo accurato, con
alberi di limoni e altri cespugli che non riconosce, prodotto di una crescita
durata anni; profumo di erbe odorose, graziose
sculture, e pieno di suoni gioiosi. Un canarino giallo, non in gabbia ma
neanche svolazzante in questo paradiso interno, canta su un albero non lontano
da lei. Lei è completamente affascinata – stordita per la sorpresa e il
sollievo.
“Grazie,” gli dice, e
allungando il braccio gli tocca la mano che lui ha lasciato sul tavolo in modo
autorevole. Lui mette la sua mano libera su quella di lei, mentre un soldato
arriva. Lui lascia la sua presa per permettere al soldato di stendere la
tovaglia bianca e poi di mettere sulla tavola un semplice
pasto di frutta e formaggi. Il soldato fa in modo di vedere tutto e di
ignorare. Di nuovo è apparso, semplicemente e
inaspettatamente. Mentre il soldato fa tutto
questo e mette la bottiglia in un secchiello con il ghiaccio, il comandante
ricambia il sorriso di Francesca, ovviamente compiaciuto di potersi permettere
questi piaceri e di poterli condividere con lei. Le versa un altro bicchiere di
prosecco. Congeda il soldato in modo deciso, facendo capire che non devono
esserci altre interruzioni. Francesca sente di nuovo una intensa
ansietà. Dopo che il soldato se ne è andato, l’uomo
anziano fa le sue scuse. Ha il diabete, deve mangiare
in modo semplice. Ma lei capisce in altro modo la sua spiegazione, e dopo questo non si preoccupa più.
Benché
abbiano poche parole in comune lui fa in modo di farle
sapere che deve andare a un ballo, quella sera, un evento di gala, cui parteciperanno
molti dignitari, non vorrebbe accompagnarlo? Lei sfiora di nuovo la mano
invecchiata, questa volta per indicare timidamente la sua fede.
“Sei sposato,” gli dice.
“Non
è importante.”
“Sì, è importante.”
Ridono entrambi. Ma lei sospetta che
lui non si aspetti che lei dica “sì” al suo invito. È
qualcosa che deve fare, fa parte della commedia.
Che cosa fanno per il resto del
pomeriggio? Come riescono a riempire le ore? Niente. Semplicemente niente.
Fanno la siesta – insieme. Questo lei gli dà: il silenzio di un unico
pomeriggio della sua vita, pieno del canto di un unico canarino. Il suo
comandante mangia, e così fa lei. Poi il suo comandante si appisola sulla sedia
accanto a lei, le mani
intrecciate sullo stomaco. Lei finisce il prosecco e rovescia la
bottiglia nel ghiaccio che galleggia. Mentre lui dorme, lei affonda la punta
delle dita nel secchiello del ghiaccio e si tocca il
viso e la nuca. Esplora un po’ del giardino cintato di mura, il cui scopo sembra essere quello di escludere Roma, non di
guardarla, perché non c’è modo di vedere oltre queste mura. E
lei non desidera neanche andarsene. Proprio come il canarino. Volare potrebbe,
da qui a là, ma andarsene? Non le viene neanche in mente, se non di concedersi questo pomeriggio
della sua giovane vita con uno straniero addormentato al suo fianco.
Dopo la siesta il
comandante la scorta giù per le scale, dove si sono incontrati per la prima
volta, e lei vede gli uomini che gironzolano sulla terrazza, sui pianerottoli,
nel cortile, distolti dalla loro siesta dalla curiosità di vedere lo spettacolo
del loro capo arrivare con la giovane americana. Lei capisce. Capisce
perfettamente. Non ha corso alcun rischio. Si volta e lo bacia sulla bocca,
brevemente. Poi corre giù per le scale con le sue scarpe da ginnastica, e si
ferma una seconda volta, a metà strada, per salutare con la mano. Si rivolge a
lui, guardando solo lui, come se gli altri uomini non esistessero.
“Grazie mille. Sei molto gentile. Sei magnifico!”
E lui sorride, come un pavone, interamente il
“comandante”.
“Sei magnifico.”
Gli ha
fatto questo regalo – un grazie per ciò che non è accaduto, ma che - per quello
che ne sanno i suoi uomini - certamente avvenne.
Questo è il regalo
di lei. Lui è per lei un racconto di viaggio.
Darlene Madott è avvocato a Toronto; nel 2002 ha
vinto il Paolucci Prize per
Italian American Writing su
Fiction. Altre sue pubblicazioni sono Joy, Joy, Why Do I Sing? (Women’s Press, 2001) e Making Olives and Other Family Secrets (Longbridge
Books, 2008).. Madre di un unico figlio, continua a
scrivere e a esercitare l’avvocatura, specialmente
come matrimonialista.
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Afternoon in a Garden of the
Palazzo Barberini
By Darlene
Madott
This is how Francesca learns there is no such thing as “closed,” in
The Chief of Police tells one of his subjects to find out what “l’americana” wants, creating this disruption at the gates?
“Non sono americana, sono canadese. È ben diverso!” she declares impetuously, finding the words, she knows not where. But something in her, the way she makes this proclamation, slight stamp to the foot, almost-tears smarting her eyes, about having come all this way, with this squadron of men before and behind him watching the scene at the gate, must somehow have charmed him, for the Chief of Police smiles and approaches.
She has come all this way.
From
“Ma non è possibile! Io non posso ritornare!”
The comandante,
taking pity, makes the command, and the gate opens. “Non si preoccupi. I show you a “galleria di
dipinti.”
He pats her half ball-cap, and she sees a look pass between two soldiers at the front of the line, on the ascending stairs, and she isn’t certain what the look means, but she follows after him, like a lap puppy.
He leaves his men on the stairs, escorts her across the courtyard and into the cool darkness of the Palazzo.
As they cross the first hallway, someone clips along at a rapid step, and there appears the soldier, with his silver tray, with the two glasses of prosecco and the bottle. Her high-ranking escort stops the soldier, asks sharply where he’s headed, confiscating the two glasses. He hands one deftly over to her. The lower-ranking soldier, flustered but powerless, clips off to a fate unknown but certainly unpleasant, given his confusion.
And so he opens a galleria with the huge set of keys at his belt, and begins his leisurely tour of the place. But not the painting she has come to see. She can barely conceal her disappointment. This is not the Artemesia painting. When will he take her to see the Artemesia? Pazienza, he counsels, always with this slight amusement about the lips. He shows her, instead, the Rape of Lucrezia, and one seduction scene after another, and stands before each, displaying the artworks, not as an art historian, but as a voyeur, as a pander might, thinking to placate this americana, hell bent on something or other. He is indulging her and she, she realizes, is also indulging him.
The small elevator is like a gilded cage. It is only when he closes the second ornamental door and they begin the ascent that she feels raise in her the panic of sudden comprehension. All unsuspecting, she has entered a trap. Wordlessly, her eyes meet his. He must read the fear in hers. She sees a slight embarrassment in his, before he looks away.
Moments later, they arrive, and he opens the series of cages and
releases her with a flourish of an arm.
He guides her toward a terrace, shaded by trees, and seats her at a
white wrought-iron table. They are high
above and hidden from the muted sounds of
Grazie, she says to him, and reaching out, pats the hand he has authoritatively left on the table. He places his free hand over hers, as a soldier arrives. He breaks his hold to permit the soldier to spread the white linen, and then to lay the table with a modest repast of cheeses and fruits. The soldier manages to see nothing and everything. Again, it has simply and unexpectedly appeared. While the soldier does all this and places the bottle in an ice bucket, the comandante returns Francesca’s smile, obviously pleased with himself to be able to have this pleasure at his disposal and to be able to share it with her. He pours her another glass of prosecco. He dismisses the soldier meaningfully, with a finality that indicates there are to be no further interruptions. Francesca again feels an intense anxiety. After the soldier is gone, the old man makes his apologies. He is diabetic, and must eat simply. But she takes another meaning from his explanation, and after this, worries no more.
Although they have little language with which to communicate, he manages to convey to her that he has a ball to attend, this evening, a gala event, at which there will be many dignitaries, and would she be willing to accompany him? Again, she touches the aged hand, this time to point coyly at his wedding band:
“Sei sposato,”
she says.
“Non è importante.”
“Si, è importante.”
They both laugh. But she suspects he does not really expect her to say “yes” to his invitation. It is something he must do, part of the play.
What do they do the balance of this afternoon? How do they manage to fill the hours? Nothing. Simply nothing. Wait out the siesta – together. She gives this to him: the silence of a single afternoon in her lifetime, full of the song of a single canary. Her comandante eats, as does she. Then her comandante dozes in the chair beside her, his hands folded across his stomach. She finishes the prosecco, and turns the bottle neck down into the floating ice. While he sleeps, she dips her finger tips into the ice bucket and takes the blessing onto her face and back of her neck, and feels the shard of ice melt down her back. She explores a little of the walled terraced garden, the object of which appears to be to exclude Rome, not see it, for there is no looking over these walls. Nor does she want to leave. Just as the canary. Flit, she might, from here to there, but leave? It does not even occur to her, but to give into this afternoon in her young life, with a stranger, asleep at her side.
After the siesta, the comandante escorts her down the staircase, where they first
met, and she sees the men, lounging about the upper terrace, the landings, the
courtyard, roused from their siesta by curiosity at the spectacle of their
leader emerging with the young
“Grazie mille. Sei molto gentile. Sei magnifico!”
And he smiles, like a peacock, every inch the comandante.
“Sei magnifico.”
She has made him this gift – of thanks, for what never happened, but for all his men know, most certainly did. Let them think so. This is her complicit gift. His is her travel story.
Darlene Madott is a